Un secolo di Proust (per tacer degli altri)

di Alberto Genovese

 Anno straordinario il 1922 per le sorti della letteratura. James Joyce pubblica (a febbraio) Ulisse e Thomas Stearn Eliot (a ottobre) La terra desolata. Proust termina la stesura della Recherche e muore (il 18 novembre) dopo aver completato la correzione della Prigioniera, che uscirà postuma insieme agli ultimi due volumi (La fuggitiva e Il tempo ritrovato) fra il 1923 e il 1927.

    Questa triade di scrittori è accomunata (se non si vuol credere, e non lo si deve, a una astruseria di calendario) dalla cesura senza ritorno dall’Epoca Bella, il cui tramonto venne segretamente profetizzato dal naufragio del Titanic, teorizzato da Spengler (il suo Untergang des Abendlandes furivisto sempre in quell’annus mirabilis che fu il 1922), concretato da un colpo di pistola a Sarajevo, seguito da un quinquennio di sinistro tuono di cannoni. Scriverà Churchill nel 1921: «Il vecchio mondo, nell’ora del suo tramonto era bello a vedersi». 

    Dopo il sanguinoso letargo della civiltà nelle trincee del primo conflitto mondiale, nulla poteva essere più come prima nella coscienza ferita degli uomini, e nell’arte, che sommamente la rappresenta. Quel 1922 non fu dunque l’editto di un dio bizzarro. Sarebbe andato bene anche qualche anno prima (Ezra Pound, con i suoi Poems del 1921) o qualche anno dopo (nel 1924 esce Der Zauberberg di Thomas Mann). Il 1922 è il segnacolo, nel mondo della letteratura, dell’avvento di un’altra epoca e di altri libri, libri che discesero come un Orfeo, dopo l’ennesimo scacco della ragione, nell’inferno della storia dell’uomo per portare alla luce il senso del suo esservi, il miracolo doloroso della sua autocoscienza. Quella lira ebbe molti e diversi toni, ma tutti, allora, nel 1922 e dintorni, cantarono la cosmogonia del Tempo.

    Secondo un collaudato canone commerciale, si preferisce celebrare non l’apparizione di un’opera (che a ben vedere può essere incerta o discussa) ma il dì natale, o quello estremo, di un autore. Quindi nel novembre del 2022 è caduto l’anniversario della morte di Proust. Un secolo, ma la Recherche (per eponimia con il suo autore) non li dimostra. Si staglia come una fortezza inviolata dai molti, circondata dalle possenti mura delle sue quattromila pagine. Chi può dire di averla letta per intero? Ben pochi. E questo è un bene? In un certo senso sì, perché ne ha evitato la banalizzazione, il vile commercio nei conciliabili intellettuali, l’esausta reiterazione delle traduzioni; e per contro ha alimentato il rispetto che incute il lavoro immenso toccato per destino a un solo uomo, la stupita ammirazione di quello che lo spirito umano può in un corpo già fiaccato, che scrive, in lunghe notti insonni, “al raggio crepitante di una luce fulva”, un romanzo “che metterà a soqquadro i destini della letteratura”). Infine, la conferma dell’aura di sacralità di ogni libro. Perché questo è sicuro: la Recherche è la bibbia del romanzo del Novecento, i Veda della nostra letteratura. Passando dinanzi alla Recherche, questo “mausoleo di incomparabile fasto, edificato per sorvegliare la scienza delle sensazioni e degli attimi”, è come se ci si segnasse laicamente, ed è inevitabile che il pensiero corra ad essa, quasi inciampandovi, per un riflesso che suscitano le opere possenti, per comparare qualità e grandezza, se ve ne sono, di ciò che è venuto dopo. La Recheche è percolata nella nostra cultura, si è persino incistata nei modi di dire («Ah sì, il passato, certo mia cara, cosa vuoi, vado alla ricerca del tempo perduto…», dice all’amica l’iconica casalinga di Voghera). E in questo senso si può dire che sì, tutti abbiamo letto la Recherche, anche quelli di noi che non hanno nemmeno iniziato o portato a termine l’impresa, o che ne hanno una sommaria conoscenza. I grandi libri ci fanno coscienti delle domande che ci abitavano, senza che ne avessimo coscienza, già prima del loro apparire; e dopo essere stati pubblicati, avendo dato parola a quelle domande, noi ne reclamiamo l’uso comune, perché la materia da cui l’autore li ha tratti, con arte e con fatica, essendogli preesistente, appartiene a tutti. Non c’è usucapione nella cultura.

    Fra i non molti libri che commemorano questo primo scorcio dell’anno proustiano (che per burocrazia del calendario dovrebbe terminare nel novembre del 2023) mi piace segnalare A Parigi con Marcel Proust. Le stagioni della memoria, di Luigi La Rosa (Giulio Perrone, Roma, 2022, pp. 138, euro 17). Il libro fa parte di una intelligente e nutrita collana – “Passaggi di dogana”- nella quale importanti scrittori, personaggi o artisti vengono raccontati nelle città e nei paesi dove il loro talento ha trovato dimora. Non il genio del luogo ma il luogo del genio. L’autore, siciliano, che si è già cimentato con il genere biografico (l’impressionista Caillebotte e Vincenzo Bellini i suoi recenti soggetti) vive da molti anni a Parigi. Avendo curato per il Touring Club la guida dei luoghi letterari della Ville Lumière ha avuto agio di raccontare la città dove Proust, salvo alcune brevi parentesi, trascorse l’intera sua esistenza. Il pregio del libro consiste nell’originalità della composizione narrativa e nella qualità della scrittura – apollinea e dolente, lirica e tersa. Interpretando con coerenza lo spirito della collana, La Rosa (certo avvalendosi della nota biografia di Painter, a cui salda il debito nella succinta bibliografia) organizza il tour proustiano in cinque tappe, cinque capitoli che portano il titolo delle case in cui visse Proust. E tuttavia en arrière, a ritroso, dall’ultima (44 rue Hamelin, dove visse per pochi mesi e dove morì; “Proust giunge qui sofferente e ammalato – d’ossessione, d’amore, di nostalgia indicibile…”) sino alla prima, quella sita al numero 9 di boulevard Malesherbes, dove trascorse l’infanzia e la prima giovinezza. Fra questi due poli di case (e capitoli del libro) se ne situano altre tre. Quella al numero 45 di Rue de Courcelles, abitata dalla famiglia dal 1900 al 1906, quando il “mago dei ricordi” frequenta la buona società. “Sono anni di scoperta, di fame di vita, che…Proust attraversa animato da una specie di ebbrezza”. In questa abitazione signorile – l’apogeo dei Proust – la morte stende “la tenebra che sta per divorare le molte stanze” della famiglia fra il 1903 e il 1905 (a quegli anni risalgono rispettivamente le morti del padre e della madre). La Recherche nasce in una nuova magione, al civico 102 di boulevard Haussmann. Assediato dai rumori, Proust decide di far tappezzare di sughero le pareti che si affacciano sul viale: il topos più noto della sua vita. Afflitto dall’asma e dall’ipocondria, trova nella scrittura un tormentato sollievo. “Solo dalle righe che gravano come ragnatele sui fogli può sperare salvezza…Tutto gli si chiude intorno come un sarcofago”. Scrive senza risparmiarsi e certo non giova alla sua salute psichica e mentale la necessità di un nuovo trasloco, anzi due. Dopo una parentesi di pochi mesi in rue Laurent-Pichat, trova casa al 44 di rue Hamelin.  È l’ultimo atto della vita dello scrittore, che nel libro di Luigi La Rosa viene situato come primo capitolo. Vegliato dalla governante Céleste, riluttante a seguire gli amorevoli consigli del fratello minore, medico come l’augusto padre, Proust muore fra le cinque e le sei del pomeriggio di sabato 18 novembre del 1922.

    Dicevamo dell’originalità di questo libro, che non si propone come una biografia (e come potrebbe, dopo Painter e Tadié, e in sole 130 pagine?)  ma piuttosto come suggestione dei luoghi e delle memorie che questi custodiscono, fatte vive nelle pagine da una scrittura dall’andamento poetico, con il frequente ricorso a metafore di un certo incanto e a un periodare terso, mai banale. L’invenzione del libro è in quello che viene preannunciato dall’incipit (“Certi libri nascono da una ferita, e sanguinano il loro inchiostro loquace fino all’ultima goccia…anche questo è in qualche misura frutto di un dolore, che collima con i toni tenui dell’alba”), e che si capirà poco dopo.  Mentre percorre Parigi alla ricerca delle dimore proustiane per evocarne l’epopea, La Rosa narra a sua volta la propria personale vicenda amorosa: dell’abbandono di Enrico (“…è andato via… ho finto di dormire mentre forzava gli indumenti nella valigia…Non lo chiamerò… mi rimarrà solo… un numero che non sarà mai in grado di cancellare dalla rubrica del telefono… Solo quando mi trovo davanti all’edificio in cui il grande scrittore francese chiudeva la sua esistenza, comprendo che un senso deve pur esserci. Queste pagine sono il tentativo di trovarlo.”), sino all’imprevisto apparire di un Nicolas che preannuncia una nuova stagione di vita.  Nel libro si alternano gemellarità amorose, brani di vicende parallele, ricerca e fuga. “…chi è stato Marcel Proust?”, si chiede e ci chiede infine Luigi La Rosa. “Chi si nasconde dietro quello sguardo sospeso? L’opera è forse una delle maniere per raggiungerlo – e ritrovarlo. A voi stabilire se ve ne siano altre”.

    Non v’è risposta a simili enigmi che non susciti ulteriori domande.


Le frasi riportate “fra virgolette” sono tratte dal libro di Luigi La Rosa

Dello stesso autore su tuttatoscanalibri:

L’alternativa del cavaliere

Hans Tuzzi e l’ultimo Melis: Ma cos’è questo nulla?

Luciano Bianciardi (1922 – 1971)

Nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della nascita di Luciano Bianciardi (Grosseto 1922 – Milano 1971), ExCogita ne ha raccolto tutta la produzione giornalistica – l’unica a non essere stata ancora pubblicata nella sua interezza –  con la prefazione di Michele Serra. Inoltre la casa editrice diretta da Luciana Bianciardi porta in libreria, con la prefazione di Giancarlo De Cataldo, la versione integrale del racconto”La solita zuppa” con la ricostruzione, attraverso gli atti processuali, della spassosa vicenda giudiziaria di cui lo scrittore fu protagonista

“Tutto sommato. Scritti giornalistici 1952 – 1971” Prefazione di Michele Serra
Imputati tutti. “La solita zuppa”: Luciano Bianciardi a processo, a cura di Luciana Bianciardi e Federica Albani. Prefazione di Giancarlo De Cataldo

Nel dettaglio

Luciano Bianciardi, Tutto sommato. Scritti giornalistici 1952 – 1971 

Prefazione di Michele Serra

vol. I 1020 pagg. vol. II 1086 pagg.  vol. III 866 pagg.

Indici 192 pagg. / prezzo: 150 €; eBook 49 €

In occasione del centenario della nascita di Luciano Bianciardi, ExCogita ha voluto raccoglierne l’intera produzione giornalistica. Giornalista infaticabile, traduttore prolifico e narratore di raro acume, Bianciardi ha lasciato in pochi anni una produzione vastissima, raccontando sui giornali l’evoluzione della storia dei costumi, della televisione, della politica, della letteratura, dell’arte, del cinema e dello sport. Per presentare questa immensa mole di testi – 964 articoli distribuiti su 63 testate– si è scelto di adottare l’ordine cronologico: il susseguirsi degli articoli restituisce al lettore una sorta di storia d’Italia vista dagli occhi di un personaggio che è stato definito anarchico, ribelle e inclassificabile.

In passato sono state pubblicate, anche a opera di ExCogita, alcune raccolte di articoli, ma l’obiettivo di questo progetto è stato proprio quello di includere tutta la produzione giornalistica bianciardiana, di fare il punto su tale produzione; anche l’aspetto grafico di questo cofanetto riconduce al “punto fermo” degli intenti dell’editore.

Da sottolineare la varietà culturale delle testate con cui ha collaborato: da Belfagor e Il contemporaneo a l’Unità e l’Avanti!, da Playmen e ABC al Guerin Sportivo. Ugualmente da sottolineare è il fatto che molti degli articoli di Bianciardi siano assimilabili alla forma del racconto: il giornalismo di Bianciardi, infatti, non è solo informativo e critico, ma è immerso in una dimensione narrativa costante.

Lo sguardo di Bianciardi si sofferma con lo stesso acume e la stessa valenza profetica sia sui grandi fatti internazionali sia sulle piccole vicende quotidiane.

 «Se nel grande mucchio del lavoro di Bianciardi non troverete mediocrità e sciatteria, è per una ragione soltanto: lui era uno scrittore “naturale”, lo era anche prima di pubblicare libri e di diventarlo per riconoscimento sociale. Non sarebbe stato capace di scrivere una sola riga senza che le sue parole gli assomigliassero e gli appartenessero, e questa mi pare, tutto sommato, la definizione più azzeccata di “scrittore”». Dalla prefazione di Michele Serra.

Imputati tutti. “La solita zuppa”: Luciano Bianciardi a processo 

A cura di Luciana Bianciardi e Federica Albani. Prefazione di Giancarlo De Cataldo

pagg. 160 / prezzo 15 €; eBook 9,99 €

Il curioso mondo a rovescio che Bianciardi ritrae nel racconto “La solita zuppa”, con l’ora di masturbazione a scuola e un Deliveroo del sesso, gli costò nel 1965 una denuncia per oscenità e vilipendio della religione. ExCogita ripropone qui il racconto nella sua interezza, completo delle parti allora censurate e in tutta la sua disarmante ironia, e ricostruisce, attraverso gli atti processuali, l’ancor più spassosa vicenda giudiziaria che vide Bianciardi imputato – non certo per la prima volta e non certo unico bersaglio del furore censorio – insieme all’editore e al tipografo.

«Siamo sicuri di non essere circondati, noi che guardiamo a Bianciardi come a uno spirito libero del passato e pensiamo di essere, oggi, più liberi grazie anche a quelli come lui, siamo sicuri che questa de “La solita zuppa” sia una vicenda del passato? Siamo sicuri che in mezzo a noi non si aggirino altri spiriti, il cui obbiettivo è di imporci “questa parola sì, questa parola no”?» Dalla prefazione di Giancarlo De Cataldo.

Luciano Bianciardi (Grosseto 1922 – Milano 1971) è stato scrittore, giornalista e traduttore. Autore difficilmente etichettabile, ha scritto – tra le altre opere –  Il lavoro culturale (1957), La vita agra (1962) e Aprire il fuoco (1969). I suoi romanzi, sempre critici e polemici verso le storture del passato e del presente, sono intrisi di autobiografismo e di una cultura vastissima e alta che non inficia, ma anzi rafforza, la grande comunicatività. Da giornalista, ha collaborato con le testate più varie (da Belfagor al Guerin Sportivo) e pubblicato quasi mille articoli. Tra gli autori americani da lui tradotti ricordiamo Miller, Faulkner, Steinbeck e London.

Su Panoramalibri: viaggi di carta, i libri consigliati in questo ultimo scorcio di vacanze

a questo link

e anche

su tuttatoscanalibri: libri di viaggio consigliati da Martina Castagnoli

Alberto Bile “Una Colombia. Canzone del viaggio profondo”

Jennifer Clement “Gun love”

Patrick Leigh Fermor “Mani. Viaggi nel Peloponneso”

Mjlienko Jergovic “Radio Wilimowski”

Vito Paticchia “Via della lana e della seta”

Lorenzo Pini “Lisbona”

Catherine Poulain “Il grande marinaio”

Juan Pablo Villarino e Laura Lazzarino “Vie invisibili”

Lorenzo Barbiè “Pacific crest trail”

Cristina Henriquez “Anche noi l’America”

Paul Lynch “Grace”

Pete Fromm “Indian Creek”

Francesca Volpe “la Toscana in Renolt4.Viaggio sui sentieri dell’ecofilia e della libertà

Martino Nicoletti “Chaturman Rai fotografo contadino dell’Himalaya

Qing Li “Schinrin.Yoku: Immergersi nei boschi”

Hernan Huarache Mamani “La profezia della curandera”

Jenny Offill “tempo variabile”

e anche

libri di viaggio recensiti o presentati su tuttatoscanalibri:

Andersson “Storia meravigliosa dei viaggi in treno” e un saggio breve di Salvina Pizzuoli sulla storia artistico letteraria del treno

Mathijs Deen “Per antiche strade. Un viaggio nella storia d’Europa”

Ferrini Pizzuoli “La val di Merse. Luoghi e paesaggi” (in cartaceo)

e in ebook

Ferrini Pizzuoli “La valle dell’Arno tra storia e geografia”

Paolo Merlini Maurizio Silvestri “Sicilia express”

Georges Simenon “Il Mediterraneo in barca”

The Passenger “Svezia” rivista di Iperborea

The Passenger, Napoli

The Passenger “Roma” presentazione

The Pessenger “Spazio. Per esploratori dell’universo”

Tiziana Viganò “Viaggi di nuvole e terra, taccuini tra realtà e fantasia”

Jules Verne “La sfinge dei ghiacci”

Omaggio a Moravia

Alberto Moravia (Roma 1907 – Roma 1990)

Una pagina in omaggio ad un  grande della letteratura italiana del Novecento che ha scritto moltissimo e in settori e generi vari: romanzi racconti testi teatrali libri di viaggio saggi  critica letteraria cinematografica e d’arte, e sempre con precisione da scrivano e con orari sistematici, tranne quando era in viaggio, ed è stato un grande viaggiatore; scrittore di romanzi e non-poeta, come ebbe a dire di sé, in età avanzata, come di un errore imperdonabile.

Era stato raggiunto dal successo e da innumerevoli riconoscimenti in età giovanile con Gli Indifferenti, a soli 22 anni, come Moravia, nome d’arte  per  Alberto Pincherle. Successi coronati dalla vincita del Premio Strega nel 1952  con  I racconti, messi all’Indice dal Sant’Uffizio, e i molti film tratti dai suoi romanzi (La ciociara di Vittorio De Sica, Il disprezzo di Jean-Luc Godard e Il conformista di Bernardo Bertolucci). Nucleo portante della sua narrazione un’umanità incapace di slanci ideali, dal conformismo fascista all’alienazione con il neocapitalismo,  di cui sono espressione Il conformista e La noia, sentimento provato e analizzato nel romanzo con una prosa asciutta e sobria, con cui non si allude ma si chiariscono verità scomode,  sgradevoli, contemplate e scrutate.

Bompiani aveva dedicato a Moravia nel trentennale della morte la riedizione dei racconti nella raccolta “Racconti 1927 – 1951”, pubblicata per la prima volta nel 1952 e che ottenne il Premio Strega. L’ambientazione è spesso medio borghese con tutte quelle pecche che l’autore stigmatizzava: l’ipocrisia, il potere e il valore del denaro, l’indifferenza, le relazioni amorose viziate.

S.P.

Su tuttatoscanalibri dello stesso autore:

Alberto Moravia “Gli Indifferenti”

Alberto Moravia “La noia”

Anna folli “MoranteMoravia. Una storia d’amore”

Omaggio a Carlos Ruiz Zafón

La Quadrilogia dal titolo “Il cimitero dei libri dimenticati” si compone di: “L’ombra del vento”, ” Il gioco dell’angelo” (2008), “Il prigioniero del cielo” (2012), ” Il labirinto degli spiriti” (2016).

La vita è breve, soprattutto nella parte migliore, recita una frase inclusa nelle pagine de L’ombra del vento, il libro-fenomeno che fece dello scrittore catalano Carlos Ruiz Zafón, morto a Los Angeles dopo una lunga battaglia contro il cancro, uno dei romanzieri di massimo successo nell’intero mondo. È stato addirittura il narratore spagnolo più letto internazionalmente dopo il classico Cervantes”. Così scrive Leonetta Bentivoglio ( La Repubblica cultura 20 giugno 2020) nel suo ripercorrere gli eventi e gli scritti più conosciuti dell’autore spagnolo. Soffermandosi poi sul testo di maggior successo, ne traccia una breve sinossi e ne enuclea le caratteristiche: “La cornice integrante de L’ombra del vento è una Barcellona suggestiva e doppia: per un verso riflette gli ultimi lampi dell’onirico cosmo modernista; per un altro è segnata dai bagliori minacciosi della guerra e dalle oppressioni del franchismo. Protagonista è Daniel, condotto da suo padre, proprietario di una libreria specializzata in edizioni per collezionisti e testi usati, ad addentrarsi nei misteri del Cimitero dei Libri Dimenticati. In questa necropoli, affondata nel cuore della città vecchia, enormi masse di volumi vengono sepolte dall’oblio. Quello scelto da Daniel, intitolato L’ombra del vento e firmato dal misterioso Julián Carax, diventa il motore stregato del suo viaggio esistenziale, guidandolo in un labirinto di intrighi celati nell’anima più antica e oscura di Barcellona”. 

 
 

“L’ombra del vento” è stato il primo vero bestseller planetario spagnolo del dopoguerra arrivando, tradotto in 36 paesi, a vendere 8 milioni di copie, un milione solo in Italia dove l’autore, Carlos Ruiz Zafon, morto oggi a Los Angeles a 55 anni dopo una lunga malattia, ha dei veri e propri fan. Era nato il 25 settembre 1964 a Barcellona, amata città che sarà al centro della maggioranza dei suoi libri, con Avinguda del Tibidabo, Els Quatre Gats in Calle Montsiò e Montjuic che sono i luoghi principali in cui si svolgono le vicende di Daniel Sempere, protagonista dei suoi romanzi più famosi, a cominciare dalla quadrilogia del “Cimitero dei libri dimenticati”. Lui stesso ne spiegava così l’origine: «Con il mondo sempre più popolato da media che vanno oltre il libro, pur avendo in esso la propria origine, ho voluto che la carta stampata si riappropriasse di ogni stimolo sensoriale, cercando di creare un’esperienza a 360 gradi. Tutto ha avuto inizio con un’immagine, quasi una fotografia mentale: una biblioteca per i libri che rischiano di andare perduti, libri salvati da chi crede nel loro valore. […].La quadrilogia, storia tra il poliziesco e il noir con echi metafisici e misterici si apre nel 2002 proprio con “L’ombra del vento” con sullo sfondo la città anni Quaranta, piegata dalla seconda guerra mondiale e oppressa dalla dittatura franchista, per proseguire nel 2008 con “Il gioco dell’angelo”, prequel ambientato negli anni Venti, in una Barcellona reduce dalla guerra ispano-americana.  […]( da Il Tirreno 20 giugno 2020 )

 
 
 
 
su mangialibri:
 
 
 
su tuttatoscanalibri:

La città di vapore recensione di Salvina Pizzuoli

“L’ombra del vento” un riuscito mix di generi narrativi


Omaggio a:

Elsa Morante

Italo Calvino

Curzio Malaparte

Raffaele La Capria

Omaggio a

“Curzio Malaparte, vita e morte di un capitano di sventure”, di Diletta Pizzicori

Immaginiamo un ragazzino imberbe e bellissimo, vividi occhi neri e capelli luccicanti di brillantina. La divisa militare lo fa sembrare più giovane dei suoi sedici anni, ma lo sguardo è quello di un condottiero: determinato, impavido. Appartiene a qualcuno che ha lasciato la scuola, che è scappato di casa per raggiungere Ventimiglia e quindi la Francia. Qualcuno che si è unito alla Legione Straniera per combattere una guerra che già si preannuncia epica. La Grande Guerra.

Malaparte giovane ufficiale (Foto originale)

Immaginiamoci che quel ragazzo cresca, diventi un indiavolato combattente, quindi un ufficiale del Regio Esercito Italiano e arrivi a comandare un plotone d’assalto a soli diciannove anni. Immaginiamolo lottare, uccidere, restare ferito da una bomba a gas. Immaginiamo, ora, che la salute dei suoi polmoni sia per sempre compromessa a soli vent’anni tanto da essere riconosciuto invalido.

Eppure era qualcuno che aveva profondamente creduto nella guerra, che aveva combattuto per un ideale; adesso, invece, non crede più a niente. Adesso è soltanto arrabbiato, disilluso, cova dentro di sé un furore e un desiderio di rivalsa che non hanno confini.

Sa ciò che vuole e, tra non molto, scoprirà anche come ottenerlo.

Quel giovane scriverà un pamphlet con un titolo al tritolo che gli procurerà molte grane, e poi continuerà a far chiasso per essere notato finché per lui non si presenterà un’occasione d’oro: partecipare a una vera rivoluzione.

Si getterà nella mischia ai tempi della Marcia su Roma, scriverà libri, articoli e manifesti e avrà una sfavillante carriera di giornalista, di scrittore. Ma che dico, sfavillante, meglio eclatante.

Qualcosa scricchiola, però. Lui, che viene da Prato, che si sente toscano fin dentro al midollo, anche se il padre è sassone e la madre lombarda, deve fare i conti con un nome che di italiano ha ben poco: Kurt Erich Suckert. E lui che ha tanto duramente lottato per l’Italia, viene quasi scambiato per uno straniero, e della peggior specie.

La lastra al mausoleo sul monte Le Coste detto Spazzavento che ripota l’orgoglio nel sentirsi pratese

Cambierà, dunque, anche le sue generalità, e non così, tanto per fare, ma con un regio decreto del ’29, smettendo di essere un individuo anonimo, per diventare a tutti gli effetti un mito in tutto il mondo. Da un uomo di trentuno anni, che ha fatto una guerra, innumerevoli duelli, che ha fame di vita, di successo, e di donne, ecco che nascerà Curzio Malaparte.

La sua vita è, di per sé, un romanzo; uno di quelli pieni di colpi di scena, con parecchie avventure, molti cambi di rotta, molto poco romanticismo. Un romanzo che racchiude in sé molte trame e colori: il giallo del processo Matteotti, il nero di un’altra guerra, il rosso di una visione politica differente.

Un romanzo, insomma, controverso, del più controverso – e geniale – intellettuale del Novecento.

Io Malaparte non l’ho mai conosciuto di persona, e ci mancherebbe. Sono nata 33 anni dopo quel 19 luglio 1957, quando lo scrittore si spense dopo una lunga agonia nella clinica Sanatrix di Roma.

Dico lunga agonia, perché furono quattro mesi di interesse mediatico eccezionale per i tempi. Da quando Malaparte era rientrato in Italia dal suo ultimo viaggio in Cina, gravemente ammalato – anche se nessuno usava volentieri la parola “cancro” -, la stampa gli si era gettata addosso come tanti avvoltoi su una carcassa.

Mai, prima di allora, si era visto una folla di giornalisti attendere all’aeroporto uno scrittore, assiepare la sala di aspetto di una clinica, tormentare le infermiere per sapere cosa avesse mangiato, cosa avesse detto. Erano cose che accadevano alle star del cinema, quelle.

Andò avanti così, finché lo scrittore esalò l’ultimo respiro, circondato dai familiari, dopo che una fila lunghissima di personalità politiche e intellettuali si era avvicendata al suo capezzale – senza mancare, ovviamente, di farsi immortalare dai fotografi.

Da quarant’anni teneva in scacco l’opinione pubblica, battibeccava tra le righe dei suoi innumerevoli articoli, scriveva libri che erano stilettate all’addome, non c’era quasi nessuno in Europa – ma anche in Asia e in America – che non sapesse chi fosse Curzio Malaparte e di cosa fosse capace. E ora, di colpo, le luci della ribalta si spegnevano su di lui. L’oblio.

Ho conosciuto Malaparte quando su di lui era già calato il buio. Pure a Prato, la sua città, restano oggi poche tracce di questo intellettuale, coi capelli sempre lucidi di brillantina, che non sorrideva quasi mai nelle foto, sempre impegnato a dimostrare una seria, quasi rabbiosa, concentrazione.

Il mausoleo sul monte Le Coste detto Spazzavento,

Sì, c’è una scuola a lui intitolata, sì, c’è il mausoleo sul monte Le Coste detto Spazzavento, sì, c’è una targa presso la casa dov’è nato, il 9 giugno 1898. Ma quanti lo ricordano davvero?

Mi sono approcciata alla lettura con diffidenza, qualche anno fa, quando lavoravo alla stesura del mio romanzo d’esordio, che sarebbe uscito nel 2021.

Cominciai, dunque, da un suo cavallo di battaglia, Maledetti Toscani, un libercolo uscito nel ’56, che ebbe un incredibile successo. E, devo ammettere, non mi piacque per niente, a parte qualche passaggio qua e là. Leggendolo ebbi come l’impressione che l’autore girasse intorno a un luogo comune, dividendolo in pezzettini sempre più piccoli, senza ricavarne granché.

Così non pensai più a Malaparte; bocciato, archiviato per sempre, pensavo. Fino a qualche mese fa.

Quando ho cominciato davvero a leggere le opere di Curzio Malaparte, l’ho fatto prendendo in mano le sue raccolte di racconti: Donna come me, Sangue, Fughe di prigione. Così, finalmente, ho compreso il successo che quest’uomo aveva avuto, tutte le donne che gli erano morte ai piedi, la casa che si era fatto costruire su uno sperone di roccia a Capri; attraverso pagine profonde, ora cupe, ora luminose, tanto introspettive da essere struggenti, e tanto assurdamente fantastiche da non poter essere che vere.

I dubbi di un’intera generazione, la ricerca delle proprie radici, un rapporto difficile coi propri genitori: c’è tutto in quei racconti e ammetto che, senza proprio aspettarmelo, anche io ho trovato là dentro un po’ di me.

Sono passata poi al divertente e altrettanto assurdo Avventure di un capitano di sventure, praticamente introvabile se non ai mercatini dell’usato. Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti, idem con patatine.

Ho sfogliato con piacere Due anni di battibecco, raccolta di tutti i suoi articoli apparsi su la rivista “Tempo”. Divertenti, cinici, pietosi; assolutamente esilaranti.

Ho letto i celeberrimi La pelle e Kaputt, i due grandi romanzi che lo hanno consacrato, che io non avevo mai letto. Non solo: non li avevo mai visto inseriti in alcuna antologia scolastica dedicata alla Seconda Guerra Mondiale.

In quelle pagine ho ritrovato il suo celebre gusto della provocazione, e mi sono quasi stupita a capirlo, a sposarlo in pieno. Perché, mi chiedo, non si propone ai liceali anche una lettura di Malaparte? Io credo che i giovani lettori troverebbero in lui una penna polemica e dissacrante, ma così a portata di mano. Un modo efficace, allettante oserei dire, per avvicinarsi alla lettura del Novecento.

Perché è davvero difficile non restare folgorati dalla sua scrittura. Persino in Mammamarcia e Io, in Russia e in Cina, entrambi libri postumi, acerbi nella forma, perché non finiti, eppure compiuti nella sostanza, si respira quello stesso cinismo, quella stessa pietà, che è come un filo sottile che lega tutte le opere di Malaparte.

Ecco come si misura la cifra di un grande scrittore: dalla capacità di suscitare forti emozioni anche con la frase più breve, più lapidaria. Si ride e si piange, ci si indigna e ci si trova ad annuire col capo.

Ed è questo, credo, l’intento di Malaparte, il senso di tutte le sue opere: provocare una reazione, suscitare un’emozione. Bella o brutta che sia, verità o bugia, all’autore non importa. Sta al lettore giudicare, lui racconta e basta. Del resto è ciò che dichiarò durante un’intervista:

«Io credo che la funzione dello scrittore sia quella di essere testimone e confessore del proprio popolo e del proprio tempo. Se la gente non vuole che lo scrittore racconti quello che ha visto, la gente non deve fare quello che lo scrittore racconta.»

Giustino Ferri “Tra le quinte del cinema. All’origine della critica cinematografica italiana” a cura di Claudio Gallo e Luca Crovi, Oligo Editore

pagine 50 – prezzo 12 euro
In libreria oggi 25 novembre

IL PRIMO ARTICOLO DI CRITICA DEDICATO AL CINEMA, APPARSO IN ITALIA NEL 1906

La prima proiezione pubblica a pagamento di una pellicola dei fratelli Lumière avvenne a Parigi il 28 dicembre del 1895. Già nel marzo dell’anno successivo i due pionieri del cinema riuscirono a organizzare delle serate a Torino, Roma e Milano. Agli italiani la loro invenzione apparve subito come una incredibile meraviglia, ma anche un mondo nel quale poter impiegare il proprio ingegno e la propria originalità. Così, nel giro di pochi anni, anche nel Belpaese sorsero sale cinematografiche e case di produzione, come la Cines (Roma, 1905), la Itala Film (Torino, 1906) e la Partenope Film (Napoli, 1907). Fu un momento particolarmente fecondo per gli sviluppi della cinematografia e quando lo scrittore Giustino Ferri siglò (nel settembre del 1906) sulle pagine de “La lettura” allegata al “Corriere della Sera” il suo testo Tra le quinte del cinema fu probabilmente il primo critico a raccontare in presa diretta lo sviluppo e le suggestioni di quell’arte visiva che tanto stava stupendo il mondo.

CLAUDIO GALLO, già bibliotecario, è docente di Storia del Fumetto presso l’Università degli Studi di Verona e direttore de “Ilcorsaronero”, rivista salgariana di letteratura popolare. Tra le sue monografie ricordiamo Emilio Salgari. La macchina dei sogni (BUR 2011, firmata insieme a Giuseppe Bonomi). Per Oligo Editore ha curato l’edizione di Robert Louis Stevenson, L’Isola del tesoroIl mio primo libro, tradotto da Luca Crovi e con la prefazione di Mino Milani.

LUCA CROVI è redattore alla Sergio Bonelli Editore, dove cura le serie del commissario Ricciardi e di Deadwood Dick. Collabora con diversi quotidiani e periodici, ed è autore della monografia Tutti i colori del giallo (2002) trasformata nell’omonima trasmissione radiofonica di Radiodue. Per Rizzoli ha pubblicato L’ombra del campione (2018) e L’ultima canzone del naviglio (2020). Per Oligo Editore ha curato i testi del volume illustrato da Paolo Barbieri Draghi, dirigibili e mongolfiereC’era una volta a Milano (2019) e ha tradotto L’Isola del tesoroIl mio primo libro di Robert Louis Stevenson (2020, a cura di Claudio Gallo).

Omaggio a Charles Baudelaire nel bicentenario della nascita 9 aprile 1821

L’albatro

Per dilettarsi, sovente, le ciurme

catturano degli albatri, marini

grandi uccelli, che seguono, indolenti

compagni di viaggio, il bastimento

che scivolando va su amari abissi.

E li hanno appena sulla tolda posti

che questi re dell’azzurro abbandonano,

inetti e vergognosi, ai loro fianchi

miseramente, come remi, inerti

le candide e grandi ali. Com’è goffo

e imbelle questo alato viaggiatore!

Lui, poco fa sì bello, com’è brutto

e comico! Qualcuno con la pipa

il becco qui gli stuzzica; là un altro

l’infermo che volava, zoppicando scimmieggia.

Come il principe dei nembi

è il Poeta che, avvezzo alla tempesta,

si ride dell’arciere: ma esiliato

sulla terra, fra schermi, camminare

non può per le sue ali di gigante

(da I fiori del male nella traduzione di Luigi de Nardis)

Gustave Courbet, ritratto di Baudelaire 1819 (Foto originale)

[…]“Il suo aspetto ci colpì: egli aveva i capelli cortissimi e del più bel nero; e quei capelli, che facevano delle punte regolari sulla fronte d’una smagliante bianchezza, lo adornavano come di un casco saraceno; gli occhi, color tabacco di Spagna, avevano uno sguardo spirituale, profondo e di una penetrazione forse troppo insistente; la bocca poi, adorna di denti bianchissimi, nascondeva, sotto i baffi leggieri e morbidi che ne ombreggiavano il contorno, alcune sinuosità mobili, voluttuose ed ironiche come le labbra delle figure dipinte da Leonardo da Vinci; il naso, fine e delicato, un po’ arrotondato, dalle nari palpitanti, pareva fiutasse vaghi profumi lontani; una fossetta pronunciata accentuava il mento come l’ultimo colpo di pollice dello statuario; le guancie, accuratamente rase, contrastavano, per la tinta bluastra vellutata dalla polvere di riso, col colorito vermiglio degli zigomi; il collo, d’una eleganza e di una bianchezza femminea, usciva snello dal colletto arrovesciato della camicia e da una stretta cravatta di madras delle Indie a quadretti. Il suo vestito si componeva di un soprabito di stoffa nera e lucente, di calzoni color nocciuola, di calze bianche e di scarpe verniciate, il tutto meticolosamente lindo e corretto, con una cert’aria studiata di semplicità ingle18 ne, che succedeva alla grande generazione del 1830, pareva contasse molto su di lui. Nel misterioso cenacolo, dove si delineano le riputazioni dell’avvenire, era ritenuto il più forte. Avevamo spesso udito parlare di lui, ma non conoscevamo nessuna delle sue opere. Il suo aspetto ci colpì: egli aveva i capelli cortissimi e del più bel nero; e quei capelli, che facevano delle punte regolari sulla fronte d’una smagliante bianchezza, lo adornavano come di un casco saraceno; gli occhi, color tabacco di Spagna, avevano uno sguardo spirituale, profondo e di una penetrazione forse troppo insistente; la bocca poi, adorna di denti bianchissimi, nascondeva, sotto i baffi leggieri e morbidi che ne ombreggiavano il contorno, alcune sinuosità mobili, voluttuose ed ironiche come le labbra delle figure dipinte da Leonardo da Vinci; il naso, fine e delicato, un po’ arrotondato, dalle nari palpitanti, pareva fiutasse vaghi profumi lontani; una fossetta pronunciata accentuava il mento come l’ultimo colpo di pollice dello statuario; le guancie, accuratamente rase, contrastavano, per la tinta bluastra vellutata dalla polvere di riso, col colorito vermiglio degli zigomi; il collo, d’una eleganza e di una bianchezza femminea, usciva snello dal colletto arrovesciato della camicia e da una stretta cravatta di madras delle Indie a quadretti. Il suo vestito si componeva di un soprabito di stoffa nera e lucente, di calzoni color nocciuola, di calze bianche e di scarpe verniciate, il tutto meticolosamente lindo e corretto, con una cert’aria studiata di semplicità ingle18se e quasi col proposito di allontanarsi dalla maniera degli artisti dal cappello a cencio, dagli abiti di velluto, dai camiciotti rossi, dalla barba incolta e dalla capigliatura scarmigliata. Nulla di troppo nuovo o di troppo appariscente in quel severo abbigliamento. Carlo Baudelaire apparteneva a quel dandysme sobrio che raschia i proprî abiti colla carta smerigliata per toglier loro quel lucido festivo od affatto nuovo tanto caro al bottegajo e tanto ingrato al vero gentiluomo. In seguito, anzi, si tolse anche i baffi, trovando ch’era un resto di antica eleganza pittoresca che gli sembrava puerile e triviale conservare. Spoglia in tal modo d’ogni pelo superfluo, la sua testa ricordava quella di Lorenzo Sterne, somiglianza accresciuta dall’abitudine che aveva Baudelaire d’appoggiare, quando parlava, l’indice alla tempia; e questa è, come si sa, la posa del ritratto dell’umorista inglese, posto in principio delle sue opere. Tale è l’impressione fisica che in quel primo incontro lasciò in noi il futuro autore dei Fiori del male”.[…] (da Théophile Gautier “Charles Baudelaire”)

Les fleurs du mal pubblicato nel 1857 (Foto originale )

“I fiori del male” si aprono con la dedica a Théophile Gautier nel frontespizio :“Al poeta impeccabile, al perfetto mago in lettere francesi, al carissimo e molto venerato maestro e amico Théophile Gautier con i sentimenti della più profonda umiltà dedico questi fiori malsani”, cui segue la poesia dedicata “Al lettore”. Niente lusinghe, solo verità e accuse: di nascondere sotto un velo di ipocrisia tutti i propri vizi che biasima negli altri e di nutrire nell’anima un grande mostro, un mostro moderno, la Noia.

Au lecteur

La sottise, l’erreur, le péché, la lésine,
Occupent nos esprits et travaillent nos corps,
Et nous alimentons nos aimables remords,
Comme les mendiants nourrissent leur vermine.

Nos péchés sont têtus, nos repentirs sont lâches;
Nous nous faisons payer grassement nos aveux,
Et nous rentrons gaiement dans le chemin bourbeux,
Croyant par de vils pleurs laver toutes nos taches.

Sur l’oreiller du mal c’est Satan Trismégiste
Qui berce longuement notre esprit enchanté,
Et le riche métal de notre volonté
Est tout vaporisé par ce savant chimiste.

C’est le Diable qui tient les fils qui nous remuent!
Aux objets répugnants nous trouvons des appas;
Chaque jour vers l’Enfer nous descendons d’un pas,
Sans horreur, à travers des ténèbres qui puent.

Ainsi qu’un débauché pauvre qui baise et mange
Le sein martyrisé d’une antique catin,
Nous volons au passage un plaisir clandestin
Que nous pressons bien fort comme une vieille orange.

Serré, fourmillant, comme un million d’helminthes,
Dans nos cerveaux ribote un peuple de Démons,
Et, quand nous respirons, la Mort dans nos poumons
Descend, fleuve invisible, avec de sourdes plaintes.

Si le viol, le poison, le poignard, l’incendie,
N’ont pas encor brodé de leurs plaisants dessins
Le canevas banal de nos piteux destins,
C’est que notre âme, hélas! n’est pas assez hardie.

Mais parmi les chacals, les panthères, les lices,
Les singes, les scorpions, les vautours, les serpents,
Les monstres glapissants, hurlants, grognants, rampants,
Dans la ménagerie infâme de nos vices,

II en est un plus laid, plus méchant, plus immonde!
Quoiqu’il ne pousse ni grands gestes ni grands cris,
Il ferait volontiers de la terre un débris
Et dans un bâillement avalerait le monde;

C’est l’Ennui! L’oeil chargé d’un pleur involontaire,
II rêve d’échafauds en fumant son houka.
Tu le connais, lecteur, ce monstre délicat,
– Hypocrite lecteur, — mon semblable, – mon frère!

AL LETTORE

La stoltezza, l’errore, il peccato, la sordidezza, governano gli spiriti nostri e tormentano i nostri corpi, e noi alimentiamo i nostri piacevoli rimorsi, come i mendicanti nutrono i loro insetti schifosi. I nostri peccati sono caparbî; i nostri pentimenti, vigliacchi; ci facciamo pagare lautamente le nostre confessioni, e rientriamo festanti nel sentiero limaccioso, credendo lavare tutte le nostre macchie con lagrime vili. Su il guanciale del male è Satana Trismegisto che culla senza posa il nostro spirito incantato, e il ricco metallo de la nostra volontà è tutto vaporizzato da questo chimico sapiente. È il Diavolo che tiene i fili che ci muovono! Negli oggetti ripugnanti troviamo delle attrattive: ogni giorno, senza orrore, scendiamo di un passo verso l’Inferno a traverso tenebre mefitiche. Come un libertino povero, che bacia e morde il seno martirizzato d’una vecchia baldracca, noi rubiamo a volo 105un piacere clandestino che spremiamo con forza come un’arancia avvizzita. Serrato, formicolante, come un milione d’elminti, nei nostri cervelli gozzoviglia un popolo di Demoni, e, quando respiriamo, la Morte, fiume invisibile, scende nei nostri polmoni con sordi lamenti. Se lo stupro, il veleno, il pugnale, l’incendio, non hanno ancora ricamato dei loro vaghi disegni il canovaccio volgare dei nostri miseri destini, è che l’anima nostra, ahimè! non ha bastante ardire. Ma fra gli sciacalli, le pantere, le linci, le scimmie, gli scorpioni, gli avvoltoi, i serpenti, i mostri che guaiscono, urlano, grugniscono, e s’arrampicano nel serraglio infame dei nostri vizî, ve n’è uno più brutto, più maligno, più immondo! E benché non faccia larghi gesti, né getti alte grida, farebbe volentieri de la terra una ruina, e in uno sbadiglio inghiottirebbe il mondo; è la Noia! – coll’occhio grave d’un pianto involontario, sogna patiboli, fumando il suo houka (ndr: pipa). Tu lo conosci, lettore, questo mostro delicato, ipocrita lettore! mio simile, mio fratello ( Dalla traduzione e versione in prosa di Riccardo Sonzogno della poesia di Baudelaire prologo a “I fiori del male”)

e anche:

su mangialibri Charles Baudelaire, l’albatro (de)caduto e I LIBRI DI CHARLES BAUDELAIRE

su Consigli cultura Charles Baudelaire il poeta del fango e dell’oro

Curiosità bibliofile: i caratteri tipografici

Altro elemento fondamentale per la diffusione del libro fu l’invenzione dei caratteri tipografici ed il passaggio dal libro manoscritto all’Ars artificialiter scribendi e precisamente alla scrittura affidata alle macchine, la scrittura artificiale. Un passaggio epocale che potremmo paragonare a quello di due secoli fa, dalla fine dell’Ottocento anche se non mancarono tentativi molto antecedenti, dall’uso cioè della “macchina da scrivere” a quella digitale, alla fine del secolo scorso.

Un passaggio, il primo, che vide la scrittura artificiale cercare in ogni modo di assomigliare alla scrittura a mano, per non discostarsi troppo dal prodotto ottenuto manualmente. Eppure molti disdegnarono le nuove realizzazioni in serie e, per una buona decina d’anni, bibliofili e ceti colti preferirono il libro manoscritto a quello a stampa.

C’è un nome che tutti conosciamo che lega la nascita dei caratteri detti tipografici o mobili alla scrittura artificiale: siamo nel 1446 quando Johannes Gutemberg, orefice di Magonza, formò i primi caratteri su astine di legno; ma in effetti si tratta di un’attribuzione perché poco si sa con certezza sulla nascita dei caratteri tipografici. In collaborazione con Schoeffer, che si può definire un proto tipografo, inventarono il compositoio, strumento in cui si dispongono i caratteri, e la forma di stampa dei caratteri mobili, detti tipi, non più in legno ma in piombo e introdussero il torchio a stampa derivandolo da quello per il vino, invenzioni che si diffusero ben presto da Magonza in tutta Europa.

Ma soffermiamoci sulle varie fasi che caratterizzavano la complessa creazione della pagina a stampa, curiosando su punzoni, matrici, inchiostri e sui diversi caratteri che ancora oggi conosciamo con i loro antichi identificativi ad esempio di Corsivo, Bodoni, Garamond.

Da sinistra a destra: il punzone, la matrice, la forma, il carattere tipografico

Il punzone è un piccolo parallelepipedo di metallo duro con un’estremità profilata a tronco di piramide con in rilievo e al rovescio un carattere tipografico sia esso lettera, numero o segno di punteggiatura. Ottenuti i punzoni veniva creata la matrice battendo il punzone su dei blocchetti di rame per lasciare su essi impressa la forma del carattere che doveva avere la stessa profondità sulla tutta matrice e pertanto veniva “giustificata”. A questo punto si procedeva alla creazione del carattere tipografico, utilizzando uno stampo particolare, detto forma. La forma era composta da due elementi a L che venivano uniti per formare un contenitore dentro il quale veniva versata la lega metallica costituita prevalentemente, anche se in proporzioni variabili, da piombo, stagno e l’antimonio.

Ma l’operazione non era di certo completata: occorreva montare i caratteri nel compositoio per costruire la riga di stampa. Un’operazione di incredibile precisione e di industriosa capacità.

Da non dimenticare che un altro elemento fondamentale era l’inchiostro che gli studiosi attribuiscono ancora alla capacità creativa di Gutemberg: un inchiostro a base oleosa migliore rispetto a quelli la cui base era ad acqua. E in ultima fase la torchiatura per imprimere i caratteri sul foglio ed ottenere la pagina.

Non ci resta che ringraziare Gutemberg o chi per lui o insieme a lui ha permesso alle generazioni successive di usufruire di questo strumento che è la stampa i cui continui aggiornamenti e miglioramenti hanno permesso di creare libri a basso costo e quindi a grande diffusione!

Iniziale ornata fusa dalle prime matrici del Garamond, 1531

Un ultimo scorcio di curiosità sulle denominazioni di alcuni caratteri, sono tantissimi, tra i più diffusi e che ancora oggi utilizziamo:

Aldino: impiegato nelle edizioni veneziane di Manuzio. Un carattere piccolo, stretto, inclinato e legato che portò ad economizzare lo spazio della pagina e quindi la carta.

Corsivo: è il carattere che ha tutte le parti dell’occhio della lettera inclinate da destra a sinistra. Il suo nome deriva dalla scrittura della Cancelleria romana (cursivetus seu cancellarios). Viene chiamato anche italico ed è usato essenzialmente per evidenziare le citazioni; i primi ad usarlo a questo scopo furono i Froben, tipografi di Basilea nel primo ventennio del XVI secolo.

Bodoni: carattere dall’occhio rotondo e marcato. Prende il nome dal suo compositore Giovanbattista Bodoni tipografo ed editore a Parma

Carattere grafico Bodoni

Garamond: carattere disegnato e fuso nel Cinquecento da Claude Garamond ed è tra i più apprezzati caratteri nella storia della stampa con molte rielaborazioni nel Novecento

Gotico: particolarmente usato in Germania e fu il primo ad essere introdotto con la stampa a caratteri mobili e rifioritura nel periodo romantico; si rifà alla scrittura dei manoscritti medievali

Carattere grafico Gotico

Elzeviro: con occhio molto piccolo e sottile. Venne disegnato nel XVII secolo da Christoffel Van Dick per le edizioni in piccolo formato degli Elzevier, librai e stampatori olandesi.

Iniziale ornata di carattere elzeviriano

E buon libro a tutti!

S.P.

Articoli di cui è seguito:

Curiosità bibliofile: Le copertine

Curiosità bibliofile: la legatura, la carta, i caratteri tipografici

Curiosità bibliofile: la carta e alcuni tipi di carta

e anche:

Manuale enciclopedico della bibliofilia, Bonnard 1997

Hans Tuzzi, Libro antico libro moderno. Per una storia comparata, Bonnard 2006