Alessandro D’Avenia “L’appello” presentazione

“L’appello” raccoglie da settembre a luglio le notazioni del professore supplente Omero Romeo con il titolo “Alla ricerca del tempo sprecato Diario di un professore cieco”, come si legge nell’Indice. Al supplente viene affidato l’incarico di portare alla maturità un gruppo sparuto di alunni, nove cui si è aggiunta una ragazza ripetente; sono stati messi insieme “per non ridistribuirli in altre classi” fa presente il Dirigente scolastico, ma di fatto una classe-ghetto di ragazzi con varie difficoltà. Si apre con un Prologo in cui il professore si presenta ed è proprio nel prologo che il lettore trova la ragione del titolo, introdotta da una serie di citazioni sul valore del “nome” cui gli antichi davano una valenza augurale e profetica ritenendo “nomen omen”. E anche il nome proprio del docente sa di presagio: è Omero colui che non vede, ma può vedere con tutti gli altri sensi, forse meno fallaci della vista di chi guarda e spesso non vede. É così che l’appello diventa un momento di conoscenza: Sprechiamo la maggior parte del nostro tempo e delle nostre energie a nasconderci, ma sotto sotto vogliamo venire alla luce[…] E un nome ben detto dà luce e dà alla luce ogni angolo dell’anima e del corpo […] Questo è il potere di un nome proprio[…] Questo è il miracolo di un appello ben fatto e anche la stessa etimologia della parola ci conduce a questo significato di spingere verso, come fa una donna quando dà alla luce.

Da Libri Mondadori:

E se l’appello non fosse un semplice elenco? Se pronunciare un nome significasse far esistere un po’ di più chi lo porta? Allora la risposta “presente!” conterrebbe il segreto per un’adesione coraggiosa alla vita. Questa è la scuola che Omero Romeo sogna. Quarantacinque anni, gli occhiali da sole sempre sul naso, Omero viene chiamato come supplente di Scienze in una classe che affronterà gli esami di maturità. Una classe-ghetto, in cui sono stati confinati i casi disperati della scuola. La sfida sembra impossibile per lui, che è diventato cieco e non sa se sarà mai più capace di insegnare, e forse persino di vivere. Non potendo vedere i volti degli alunni, inventa un nuovo modo di fare l’appello, convinto che per salvare il mondo occorra salvare ogni nome, anche se a portarlo sono una ragazza che nasconde una ferita inconfessabile, un rapper che vive in una casa famiglia, un nerd che entra in contatto con gli altri solo da dietro uno schermo, una figlia abbandonata, un aspirante pugile che sogna di diventare come Rocky… Nessuno li vedeva, eppure il professore che non ci vede ce la fa.[…]

Curiosità bibliofile: le copertine

Sia come lettori che come scrittori restiamo molto coinvolti dalla impostazione grafica esterna al libro e al testo che contiene, compendiato o meno, in alcuni casi solo evocato, in quella che chiamiamo “copertina”. Oggi diamo per scontato che rivesta e racchiuda il testo non solo che lo protegga, come era nei tempi dei tempi per i primi volumi (gli incunaboli), intorno a XV secolo, che non avevano copertina ma una pagina a protezione che veniva gettata dopo che il libro era stato rilegato. Oggi non potremmo immaginare un libro senza, ci apparirebbe come spogliato, nudo, senza una veste che lo contraddistingua.

Ma cosa rappresenta la copertina?

Vediamola con gli occhi dello scrittore e a tale proposito mi piace sintetizzare o riportare le diverse e articolate riflessioni emotive che la scrittrice Jhumpa Lahiri raccoglie nel suo breve saggio dal titolo esplicativo “Il vestito dei libri”: quando arriva la copertina sono due le emozioni che prova, definendole ambivalenti, in quanto da una parte si commuove e dall’altra si agita. Perché due controverse manifestazioni?

La commozione nasce dalla consapevolezza che la copertina rappresenta la fase finale del suo lavoro, il libro sta per nascere, mentre l’agitazione è derivata dal tipo di copertina che è stata confezionata come atto finale della lettura di vari rappresentanti delle staff editoriale: chi l’ha letto ha quindi concepito per quel testo quel tipo di vestito che ne rappresenta “la sua prima interpretazione “ non solo visiva ma anche promozionale”. E precisa:

“La copertina giusta è come un bel cappotto, elegante e caldo, che avvolge le mie parole mentre camminano per il mondo, mentre vanno a un appuntamento con i miei lettori. La copertina sbagliata è un costume ingombrante, soffocante. Oppure una maglia troppo leggera, inadeguata. Una bella copertina è lusinghiera. Mi sento ascoltata, intesa. Una brutta copertina mi sembra un nemico, mi è odiosa”.

E se il libro non avesse una copertina?

Secondo la scrittrice mancherebbe una porta per entrare nel testo, mancherebbe il suo viso.

E dalla parte del lettore?

Inutile nascondere che, gironzolando (che bel ricordo!) tra gli scaffali di una libreria, la copertina sia sicuramente un richiamo cromatico e figurativo che può attrarre la nostra attenzione, magari portandoci a sfogliare quel volume che non rappresenta un nostro precipuo interesse. E poi, non va dimenticato, che la copertina continua ad avere la iniziale funzione protettiva a cui si aggiunge quella ornamentale, che ai tempi dei tempi era rappresentata dai materiali pregiati e a tal proposito ne sa molto il bibliofilo, nonché pubblicitaria.

Interessante è a sentire gli studiosi della storia del libro scoprire che non vi fu un vero e proprio inventore, ma che il suo utilizzo è il risultato di un processo graduale che si lega alla diffusione del libro e della lettura a strati sociali sempre più ampi, alla nascita e diffusione delle prime librerie divenendo necessario non solo proteggere ma anche differenziare i libri dando a ciascuno il proprio vestito, un processo che ebbe inizio alla fine del Settecento anche attraverso l’operato intraprendente e imprenditoriale di personaggi come il libraio inglese James Lackington che a Londra dette vita alla prima libreria così come la intendiamo oggi. Una storia lontana quindi, ma perché si diffondesse il fenomeno lettura e libri occorrerà attendere i primi anni Venti del Novecento con i libri economici alla portata di molte tasche, nonché superare la concorrenza e sostenere il volume attraverso un apparato ad hoc: le copertine.

S.P.

Per chi volesse saperne di più:

l’articolo su Libri Panorama

L’articolo su Il LIbraio

Il volumetto di Jhumpa Lahiri

Il saggio di Ambrogio Borsani La claque del libro

e su tuttatoscanalibri la seconda e terza parte:

Curiosità bibliofile: la legatura, la carta, i caratteri tipografici

Curiosità bibliofile: la carta e alcuni tipi di carta

Una piccola collana di grandi autori: racconti classici italiani

Presentiamo ai nostri lettori una collana in fieri di racconti di autori italiani corredata da prefazioni e note:

i primi cinque volumetti:

Arrigo Boito “L’alfier nero”

Arrigo Boito “Il pugno chiuso”

Luigi Capuana “Novelle”

Grazia Deledda “La regina delle tenebre”

Giovanni Verga “Le storie del castello di Trezza”

Li trovate su Amazon in ebook e in cartaceo. In ebook tutti a 0,99 centesimi

Rebecca West “Quel prodigio di Harriet Hume” presentazione e con la recensione di Maria Anna Patti di CasaLettori

La recensione di Maria Anna Patti di CasaLettori

Londra primi decenni del Novecento, due giovani londinesi, Harriet ed Arnold l’una l’opposto dell’altro, si incontrano, si innamorano, si perdono e si ritrovano più volte: lei una pianista squattrinata e attraente, lui cinico e ambizioso. In comune hanno le umili origini dalle quali cercano un riscatto lei nel desiderio di essere accettata lui attraverso la carriera politica. Ma c’è un ma: è il prodigio che caratterizza la bella Harriet che riesce a leggere nei pensieri di Arnold smascherandone le ipocrisie. Arroganza e convinta superiorità maschile si scontrano e s’incontrano con la femminilità e la sensibilità, con la “musica” di Harriet, ma non è solo una storia d’amore che si perde e di contrasti: personaggi sfaccettati, atmosfere e ambientazioni dettagliate e coinvolgenti, finale che lascia stupiti e richiama il sottotitolo “A London fantasy”, mentre lo sfondo storico della vicenda si attualizza attraverso riferimenti alla cronaca e ai dettami della società del tempo.

Dal Catalogo di Fazi Editore:

Un romanzo inedito di Rebecca West, autrice della trilogia degli Aubrey.

Harriet Hume, affascinante pianista squattrinata, mistica e stravagante, è l’essenza della femminilità; Arnold Condorex, spregiudicato uomo politico imbrigliato in un matrimonio di convenienza con la figlia di un membro del Parlamento, è un ambizioso calcolatore senza scrupoli. I due si amano: sono opposti che si attraggono, e nel corso degli anni si incontrano e si respingono, in varie stagioni e in vari luoghi di Londra, come legati da un filo sottile che non si spezza mai.[…]

Giorgio Scerbanenco “Appuntamento a Trieste” recensione di Salvina Pizzuoli

Comparve per la prima volta a puntate sulla rivista “Novella” nel 1952, La Nave di Teseo lo ha riproposto nel 2019. Si ambienta a Trieste nell’immediato dopoguerra evidenziando l’atmosfera respirata in una città che conobbe conflitti e pesanti scontri e vide la fuoriuscita di molti profughi dall’Istria e da Trieste stessa amministrata militarmente dagli Alleati. Alle tensioni e ai giochi di spie si contrappone uno scenario naturale sereno e scintillante nei colori delle diverse stagioni. È una storia nella storia: la voce narrante racconta di un appuntamento a Trieste, quando vi era l’oscuramento e la guerra, con la donna amata, la terribile scoperta della morte di lei e lo strano incontro in una cartoleria con una bambina che ne raffigura in piccolo le sembianze. Tornato più volte in città per deporre fiori sulla tomba abbandonata, è nel 1950 che ascolterà dalle parole di un conoscente la storia della bambina, ormai donna, che tanto lo aveva colpito per l’ incredibile rassomiglianza. E il lettore entra così nella tormentata vicenda che avrà come protagonisti Diana, la bella triestina, e Kirk Mesana, un agente americano sotto copertura in “servizio” a Trieste per indagare su una cellula nemica. Ricatti, tradimenti, doppie verità, gli inganni e l’amore insieme ai misteri di una morte inaspettata e mai accettata e un incontro sconvolgente sono protagonisti del romanzo che si apre e si chiude con la medesima voce narrante: colui che ha cercato invano la donna di cui era innamorato viene a conoscere casualmente la storia di un’altra donna che aveva visto bambina durante la guerra, che rassomigliava a tal punto alla donna che io avevo tanto nel cuore, che, pur comprendendo, non volevo comprendere che non era lei, nel giorno di quel mancato appuntamento a Trieste, storia che peserà nelle sue decisioni e sulle sue aspettative future.

Dello stesso autore:

Giorgio Scerbanenco “Il terzo amore” 

Giorgio Scerbanenco “Luna di miele”

Alla riscoperta di Giorgio Scebanenco: un inedito e altri scritti

e anche:

su mangialibri alcune recensioni

e una biografia

Anna Sólyom “Il caffè dei gatti” presentazione e alcuni bozzetti di Salvina Pizzuoli

I Neko Cafè, neko vuol dire gatto in giapponese, nascono proprio nel paese del sol levante, il primo fu creato a Osaka nel 2004, per svariate ragioni: sicuramente il gatto è considerato porta fortuna per eccellenza, ma soprattutto perché centri di relax dove, oltre a consumare spuntini, è possibile coccolare un gatto e sentirsi a casa in un ambiente gradevole e accogliente con in più le eventuali effusioni di un felino. Ed è ai Neko Cafè che si ispira questa breve storia a lieto fine, ne abbiamo bisogno, una favola lieve dove l’eroe, in questo caso l’eroina di nome Nagore, dopo un periodo in cui il mondo pare crollarle addosso perché senza lavoro, abbandonata dal compagno, lontana da Londra e dall’attività svolta fino ad allora e, tornata a Barcellona, con il rischio anche di perdere l’appartamento in cui vive in affitto, riceve come offerta di lavoro quello di cameriera in un cat cafè. Che fare? Non ci sono soluzioni e, nonostante il terrore dei gatti che l’accompagna sin da piccola, decide di accettare il posto di lavoro.

E da questo momento in poi la situazione cambierà completamente. Grazie ai gatti? Anche e grazie alla proprietaria del Neko, la giapponese Yumi: imparerà, disegnando e osservando il comportamento dei sette mici che vivono nel cafè, a individuare ben sette, più una legge felina per la vita. La lezione finale dei gatti, come si legge in copertina, recita così: Non ti servono sette (o nove) vite, puoi essere felice in questa.

A cosa si deve questa magia? Possiamo leggerla nella definizione del vecchio Elías, uno dei personaggi e grande estimatore di gatti: Un bel libro, un té caldo e un gatto in grembo… Esiste forse una felicità maggiore su questa terra?

Cui aggiunge in un’altra pagina: I gatti ci aiutano a connetterci con la nostra autentica essenza. Hanno dei superpoteri! E non c’è dubbio che quanto si dice sul fatto che siano in grado di eliminare le energie negative sia vero

Provare per credere i Neko Cafè o simili ci sono ormai anche in Italia!

E, per restare in tema, alcuni bozzetti di Salvina Pizzuoli

Gatti

Randagi
Se ne stanno vicini vicini, quasi non ci fosse più spazio, ma non soffiano, non  aggrediscono, non si azzuffano. Aspettano.
Sono tanti e sanno, come creature avvezzate, l’ora il giorno e il luogo di quel pasto promesso. Si assembrano allora nelle vicinanze: c’è chi attende sdraiato, mostrando ancora meglio invalidità e menomazioni, chi si apposta in posizione strategica, in alto, per scorgere da lontano l’arrivo sperato, c’è chi per ingannare l’attesa si rannicchia su se stesso, nell’allerta costante di un orecchio sollevato, chi con fare da sentinella monta la guardia accovacciato sulle zampe posteriori, il muso intento, la coda arrotolata ad abbracciare le zampe anteriori, l’aria tesa di chi spera e non sa se ha riposto troppa fiducia in quell’attesa. L’assembramento è variopinto: sono di tutti i colori e di tutti gli screziati possibili e non sempre ben assortiti. Non sono belli o graziosi o eleganti, mostrano anche nelle fattezze i segni di una vita emarginata, senza identità, spaventati e arresi.
Una maschera nera su un naso bianco, un occhio marrone e uno spento, una zampa maldestra, una coda sbilenca, l’aria insicura  sotto lo sguardo vigile, la paura nello scatto sempre pronto.
Ora, chini sui contenitori di plastica ingombri di miscugli colorati che nulla hanno a che spartire con la dieta di una razza felina, consumano pazientemente quanto viene loro elargito.

Di razza
Acciambellato tra cuscini vaporosi non fa una mossa, sembra dipinto. Il pelo lucido e compatto, lo sguardo svagato, l’aria sicura e di sfida di chi ottiene senza chiedere attenzione e moine. Annoiato da tanto interesse, non partecipa, ma con distacco divistico, accetta.
Pigramente si solleva e con fare aggraziato segue un percorso abituale che da braccioli a  spalliere lo porteranno sul davanzale, dietro i vetri di un’ampia e luminosa finestra, tutta per lui, per la sua distrazione e divertimento. Perfetto, elegante, armonioso, tutto da guardare, se ne sta in posizione accovacciata, la bella testa eretta, le orecchie svettanti, la coda agitata da piccole e cadenzate battute sul legno levigato del davanzale, quasi a scandire il tempo di una visione felice, ma contenuta. Abitudinario e preciso, conosce bene i tempi dello svago e del sonno e della tenerezza e degli spuntini. La sua ciotola è sempre piena di biscottini, da sgranocchiare  e spilluzzicare; non mangia, assaggia con il fare pulito di tutti i componenti la sua razza, ma più aggraziato e con quella noncuranza tipica di chi sa che non gli mancherà mai né la quantità né la varietà.

Di campagna
Tra le erbe alte il suo mantello a chiazze bianco e nero si nota  evidente, ma questo non preclude la riuscita della caccia. È acquattato e teso. Ogni suo muscolo è quasi visibile nella tensione. La preda ignara prosegue il suo percorso, ma non è mai perduta di vista. Si maschera e mimetizza tra le erbe che con i loro flessibili fuscelli gli fanno da tana  e lo nascondono. Non si muove in fretta, ma quasi striscia, sollevandosi appena sulle zampe schiacciate sul terreno.
La coda annuncia l’agguato; è tesa, quasi rigida. Tutto il suo corpo si muove impercettibilmente accompagnato dal fremito appena visibile della coda. Lo scatto è improvviso: le unghie delle zampe anteriori sono atterrate precisamente sulla vittima, la bocca ora si muove all’unisono e afferra ciò che è già stato artigliato e stordito e bloccato. La caccia è finita e la preda ora ciondola dalla sua bocca. Si muove  con fare trionfante verso un luogo appartato a consumare.

Di città
Attraversano strade trafficate con la testa incassata nelle spalle, quasi a ignorare il pericolo. Raggiungono i marciapiedi come approdi di naufraghi. Un salto sul muretto più basso e poi  ancora salti verso giardini e terrazze e cortili dove chiedere ospitalità e rubare un magro e sudato pasto artigliando e sforacchiando robusti sacchi di plastica che custodiscono appetitosi, ma avari avanzi. Uno zerbino come giaciglio o il cuscino morbido di una poltrona, quando va bene. Sonni poco profondi e sempre allerta, miagolii disperati quando la fame è troppo insistente; se c’è chi risponde alle richieste si diventa amici, ma occasionali.
Procedono guardinghi lungo i marciapiedi, si fermano un momento e si guardano intorno dubbiosi,  proseguendo poi per la loro meta. La città offre affascinanti avventure; è grande e piena di spazi da esplorare. Spariscono a volte per mesi interi, ma spesso tornano guidati da un istinto infallibile e dalla ricerca di un posto al sicuro. Avvezzi a tutti i pericoli e difficoltà vivono alla giornata, ma ricordando precisamente i punti nei quali trovare cibo a buon mercato, giacigli accoglienti, caldi ricoveri nelle notti quando il freddo è pungente.
Pance vuote, levatacce, corse sfrenate di inseguimenti più o meno molesti  di simili o di umani, incidenti mortali: risvolti malevoli della vita vagabonda di città.

Generosi
Lo zerbino è un vassoio per gli omaggi: un topolino, un passerotto, una lucertola; non sono quotidiani, ma occasionali. Ottimo cacciatore, è discreto, non chiede, non pretende, ma all’occorrenza sa farsi accudire. Per  generosità offre il suo  prezioso carniere o è spinto da desiderio di affermazione? È muscoloso e agile, più di altri della sua razza. I suoi salti sono poderosi e sicuri anche quando l’altezza è rilevante. Nonostante si fa mansueto e domestico quando balza sui davanzali per ricevere la guadagnata considerazione.

(da Salvina Pizzuoli “Corti e fantastici”) .

I primi 10 più venduti tra il 26 ottobre e il 7 novembre: le classifiche di Robinson e le recensioni su tuttatoscanalibri

Le recensioni su tuttatoscanalibri

Per la narrativa italiana

2Antonio Manzini “Gli ultimi giorni di quiete

4 Simonetta Agnello Hornby “Piano nobile

Per la narrativa straniera

1 Ken Follett “Fu sera e fu mattina

2Valérie Perrin “Cambiare l’acqua ai fiori

6Valérie Perrin “Il quaderno dell’amore perduto

8 Michael Connelly” La morte è il mio mestiere

10 Toshikazu Kawaguchi “Finché il caffè è caldo”

Fabio Strinati “Toscana – Venezia solo andata” presentazione

È da poco uscito l’ultimo libro del poeta, scrittore ed esperantista marchigiano Fabio Strinati, dal titolo: “Toscana-Venezia solo andata”. All’interno della raccolta, numerosi sono i componimenti (tutte quartine) dedicati alla città di Siena e provincia.

Da Monterinaldi vedo il tuo volto
sprofondare nel verde di Toscana; 
smisurato, un sibilo di vento esclama
adagio, mi penetra l’orecchio”.

*
Angolo della Val d’Orcia una cartolina
in un lumino il cipresso delicato,
tocca il soprabito al cielo, così gradevole
Pienza ingioiellata in una verde valle”.

La copertina della raccolta poetica, dal titolo “Amico Viaggiatore”, è

un’ opera originale dell’artista napoletano Flavio Berti.

Il libro, è dedicato all’attrice Mirella D’Angelo.

Un giovane poeta s’innamora perdutamente del suo viaggio. Un sentiero che lo porterà a scrutare, col binocolo della curiosità, luoghi e paesaggi pregni di natura e di Storia. Luoghi osservati con minuziosità, attraverso gli occhi di chi è appassionatamente stregato, a tratti, dal proprio flebile peregrinare. Una silloge poetica che, come un lungo diario di viaggio, tanto assomiglia a una storia vissuta in solitaria, all’interno di un percorso completamente assorto che, con naturalezza, sfocia in immagini nella mente dell’autore”.

Prefazione di Zairo Ferrante. Postfazione di Rocco Rosignoli.

BIOGRAFIA

Fabio Strinati (San Severino Marche, 19 gennaio 1983) è un poeta, scrittore ed esperantista italiano. Ha pubblicato anche poemetti, preghiere e aforismi.  Debutta come poeta nel 2014 con il libro «Pensieri nello scrigno. Nelle spighe di grano è il ritmo». È presente in diverse riviste e antologie letterarie: da ricordare «Il Segnale», rivista letteraria fondata a Milano dal poeta Lelio Scanavini; la rivista «Sìlarus», fondata da Italo Rocco; il bimestrale di immagini, politica e cultura «Il Grandevetro»; la «Gazeta Dielli»; «451 Via della letteratura della scienza e dell’arte». Sue poesie sono state tradotte in romeno, in bosniaco, in spagnolo, in albanese, in francese e in inglese, mentre in lingua catalana è stato tradotto da Carles Duarte i Montserrat, e in lingua croata, dalla poetessa Ljerka Car Matutinovic. È inoltre il direttore della collana poesia per le «Edizioni Il Foglio» e cura una rubrica poetica dal nome «Retroscena» sulla rivista trimestrale del «Foglio Letterario».

Helen Humphreys “Bill” presentazione e con la recensione di Maria Anna Patti di CasaLettori

La recensione di Maria Anna Patti di CasaLettori

Ispirata a fatti realmente accaduti, un omicidio avvenuto nel 1947 che scosse la città di Canwood e gli esperimenti con l’LSD condotti negli anni Cinquanta, la storia è ambientata in Canada tra i boschi e le praterie del Saskatchewan: un ragazzino, Leonard, solo e solitario con relazioni sociali e familiari difficili, frequenta e stabilisce un forte rapporto di amicizia con Bill, detto “zampe di coniglio” un uomo selvatico, che vive isolato e ai margini in un rifugio che lui stesso ha scavato alla base di una collina, ma capace di diventare per Leonard un riferimento affettivo. E poi il fatto efferato: l’accaduto allontanerà fisicamente i due, ma non verrà a cessare il legame viscerale e profondo che si era creato. Si ritroveranno più tardi, dodici anni dopo, il ragazzino come medico dell’ospedale psichiatrico dove l’altro è ricoverato.

Dalla Quarta di copertina

Mi manca Bill, mi manca quel pezzo del mio passato in cui ci conoscevamo e ci appartenevamo. E mi manca il futuro che non abbiamo mai avuto. Mi manca la possibilità reale di un lieto fine. Mi manca l’invenzione di una macchina che trasformi un’azione sbagliata in pensiero, la rabbia in amore

Brevi note biografiche

Helen Humphreys (1961) narratrice e poetessa canadese. Le opere: nel 2002 Il giardino perduto nel 2008 il romanzo Coventry ( uscito in Italia nel 2010). In Italia Playground ha pubblicato Cani selvaggi e Il canto del crepuscolo nel 2015, Notturno nel 2013, La verità, soltanto la verità nel 2011.

Antonio Manzini “Gli ultimi giorni di quiete” presentazione

Da un fatto realmente accaduto, una storia di cronaca nera, Manzini ne ha tratto una diversa da quelle a cui si è fino ad ora dedicato. Un fatto di sangue con un giovane morto ammazzato e un assassino, ma la storia che Manzini vuole raccontarci va oltre gli avvenimenti, entra nei personaggi coinvolti e indaga le ragioni di ciascuno, dal punto di vista di ognuno dei protagonisti, legate alle conseguenze psicologiche non solo di quanto accaduto ma anche per le implicazioni forti e feroci determinate dalle delibere giudiziarie. Non è difficile da immaginare lo stato d’animo di chi accoglie il verdetto, la cronaca giornalistica ne offre prove quotidiane. Anni di attesa e processi e condanne più o meno lievi, più o meno soddisfacenti ma difficilmente acquietanti. E così il lettore segue le vicende, segue Nora e Pasquale proprietari di una tabaccheria dove il loro giovane figlio viene ammazzato durante una rapina. Due vite distrutte dalla tragedia. E poi un giorno l’incontro in treno di Nora con l’assassino, già libero, già pronto a rifarsi una vita. Cosa scatenerà questo incontro nella madre annichilita dal dolore?

Tante domande sicuramente, e reazioni. Un dilemma che coinvolgerà il lettore in molte riflessioni per vittime e carnefici.

“Da anni Antonio Manzini aveva in mente questa storia, tratta da un fatto vero. E ha voluto scrivere non un romanzo a tesi, ma un romanzo psicologico su tre anime e su come esse reagiscono di fronte a un’alternativa morale priva di una risposta sicura. E leggendo queste pagine si resta disorientati, non solo perché l’autore ha scritto una storia diversa dalle sue trame che ci sono più famigliari, ma soprattutto perché è riuscito a raccontare, dentro gli intrecci propri di chi è maestro di storie, l’impossibilità di farsi un giudizio netto. Impossibilità di chi legge, e di chi scrive; ma anche dei personaggi che vivono la vicenda. Questi possono scegliere (e le loro scelte sono diverse) ma perché costretti a farlo, così come la vita costringe. Questa specie di cortocircuito, tra ragione e vita, è il dubbio etico che Manzini esplora in tutto il suo spazio”(Dal Catalogo di Sellerio Editore)

Dello stesso autore “Rien ne va plus”