Sebastiano Vassalli “Amore lontano” recensione di Salvina Pizzuoli

Difficile recensire questo particolare scritto di Sebastiano Vassalli: un omaggio alla poesia? Un omaggio ai veri poeti e non agli “scrittori di poesie”? Un annuncio, una folgorazione?

Leggendo, immersi nelle cose del mondo dei sette protagonisti, Omero, Qohèlet, Virgilio, Rudel, Villon, Leopardi, Rimbaud, tra vizi virtù e miserie di vite di uomini, tra le loro lacrimae rerum, cogliamo un messaggio che va oltre la realtà contingente che l’autore racconta:

“L’unico miracolo che si compie dai tempi di Omero e da prima ancora, e che non può essere dimenticato o messo in dubbio perché chiunque può farlo rivivere con la lettura, è quello delle parole che trattengono la vita. È la poesia. La poesia è vita che rimane impigliata in una trama di parole” (dalla Conclusione. Qualcosa di divino)

Un testo quello di Vassalli che va letto perché è anch’esso “parola”, per riuscire ad avvertire il “miracolo” attraverso il racconto di momenti di vita, conosciuti o, in mancanza di dati, immaginati, partendo da Omero, passando attraverso Virgilio, il poeta costretto a cantare la Fama, o cercando l’amore lontano con Rudel o immaginando il borghese ingentilito che potrebbe essere diventato Villon per poi concludere con Leopardi e l’adolescente Rimbaud: poeti la cui vita è rimasta impigliata nella trama di parole che hanno intessuto, lasciandoci questo miracolo che “È l’unico miracolo possibile e reale, in un mondo dominato dal frastuono e dall’insensatezza. È la voce di Dio”.

Un messaggio che va oltre le vite dei sette poeti che Vassalli ha scelto di raccontare e forse per questo “Amore lontano” non può definirsi né un saggio o un testo sulla poesia, né una serie di racconti sulla vita di sette poeti, vuole essere un messaggio universale che può raggiungere tutti, perché riguarda tutti, proprio perché “Siamo personaggi di un poema indecifrabile e infinito”.

Il volto di Saffo come un epitaffio accompagna tutto il testo nell’apertura di ciascun capitolo e nella copertina delle prime edizioni

Dello stesso autore: “La notte della cometa”

Nathaniel Rich “Perdere la Terra. Una storia recente” recensione di Cesare de Seta da La Repubblica Cultura

Riflessioni sul saggio di Nathaniel Rich

Vi spiego perché abbiamo perso la nostra Terra

di Cesare de Seta

Non c’è dubbio che Greta Thumberg abbia scosso la coscienza del pianeta sul tema dell’ambiente e del riscaldamento globale. L’accordo di Parigi firmato nel 2016, che intendeva limitare il riscaldamento a 1,5 gradi, non ha avuto alcun esito. Roger Allen, cofondatore di Extinction rebellion, in una recente intervista alla Bbc ha detto che i politici mentono visto che le emissioni dal 1990 sono cresciute del 60 per cento. Il rapporto State of the climate redatto da 470 scienziati è allarmante. Il 2018 è stato un anno horribilis e luglio il mese più caldo in assoluto dall’Ottocento.

Quanto si sa sul riscaldamento globale deriva in larga parte da ciò che è accaduto nel decennio 1970-1980, nel corso del quale si è passati dai principi teorici sul riscaldamento globale a una pertinente definizione delle sue conseguenze. In Perdere la Terra. Una storia recente (Mondadori, pagg. 177, euro 18) Nathaniel Rich affronta di petto l’argomento con un’analisi minuta, ricca di risvolti che fanno di queste dense pagine una microstoria di storia contemporanea. Saggista, scrittore di mano felice, climatologo, Rich sostiene che a partire dal 1970 ci fu l’impegno della comunità internazionale a contrastare la crisi ambientale: una consapevolezza inedita e importante. Ma poi non sono seguite strategie atte a garantire il successo di una missione di tanto rilievo. Le vicende personali e professionali di scienziati, ecologisti, economisti si contrappongono al nocciolo duro costituito da negazionisti senza scrupoli: le compagnie petrolifere e del gas come Exxon interessate solo ai profitti economici e i giornalisti compiacenti con le esigenze delle lobby industriali. Giovani politici, come Al Gore, provarono a cambiare le cose dall’interno delle istituzioni: ma presidenti degli Stati Uniti, quali Ronald Reagan e George H.W. Bush, sabotarono ogni prospettiva virtuosa, lasciando morire disegni di legge o rapporti scientifici antagonisti.

Politica, scienza, tecnologia ed economia – dice Rich – da sole non bastano a raggiungere una soluzione di fronte al cambiamento climatico. È necessario riportare al centro la “dimensione etica” del problema. È questo il monito più severo che si trae dall’ultimo capitolo del libro di Rich. Nelle sue pagine aleggia la grande tradizione naturalistica di Ralph Waldo Emerson e di Walt Whitman. È in ballo la sopravvivenza della nostra civiltà. Un riscaldamento di 3 gradi centigradi comporterebbe un disastro a breve termine. Le conseguenze? La scomparsa di foreste nell’Artide, lo spopolamento di moltissime città costiere, la fame di massa. Alcuni esperti temono che si possa registrare un riscaldamento di 4 gradi centigradi. In tal caso lo scenario prevede l’Europa in siccità perenne, l’avanzamento del deserto in vaste aree di Cina, India, Bangladesh, la Polinesia ingoiata dal mare.

Nel suo j’accuse Rich punta il dito, tra l’altro, contro l’industria dei combustibili fossili che, tra il 2000 e il 2016, ha speso oltre due miliardi di dollari, una somma dieci volte superiore a quella stanziata dai gruppi ambientalisti, «per contrastare la legislazione sul cambiamento climatico ». Nel raccontare i retroscena di un fallimento globale, e nel muovere critiche a uno dei «principali responsabili » di emissioni di anidride carbonica, gli Stati Uniti, l’autore ricostruisce il grande contributo dato da chi ha lottato per risvegliare la coscienza pubblica. Si distinguono due personalità, che Rich non esita a celebrare come “eroi”: Rafe Pomerance, definito «lobbista per l’ambiente », e James Hansen, astrofisico e climatologo. Il primo perlustra la frastagliata galassia della politica statunitense, il secondo parte dalla ricerca scientifica. Il loro obiettivo è quello di indurre il governo degli Usa a intraprende una politica che sia un’inversione radicale di rotta e farsi promotore di un accordo internazionale vincolante. Ma con il pessimismo della ragione bisogna dire che, con Trump alla Casa Bianca, questa prospettiva è solo fiabesca.

In questo quadro l’Europa ha statuti etici e culturali che potranno avere il loro peso: Ursula von der Leyen, nell’assumere il suo ruolo nella Ue, dichiarò che una delle principali linee guida sarebbe stato l’ambiente. Le sue recenti dichiarazioni confermano questo new deal ecologico a cui dobbiamo prestare fede.

Fruttero e Lucentini, il testo della lettera a Mondadori e l’articolo “L’arte di parlare ai lettori” di Mario Baudino da La Stampa

Brutti ma “interessanti”? No grazie, evviva i bei racconti

di Carlo Fruttero Franco Lucentini


Al punto di confusione in cui siamo arrivati in Italia, non è sempre facile far capire e far accettare ai responsabili di una casa editrice la posizione che noi riteniamo di dover tenere nei confronti del pubblico: il quale ci sembra essere trattato dai più, o come un deficiente cui si può rifilare qualsiasi cosa, o come un droghiere arricchito che occorre iniziare agli squisiti misteri fino a poco tempo fa privilegio degli happy few, o, peggio di tutto, come un giovinetto da catechizzare. A noi pare ovvio che questi tre atteggiamenti, la volgarità, lo snobismo, il moralismo, siano strettamente – benché segretamente – imparentati, e che, a parte il loro carattere offensivo, essi finiscano per allontanare sempre più dai libri quella parte di lettori non contaminati dalle mode, dagli scandaletti e dalle prediche culturali, chesono poi il vero pubblico, il solo vero «strato» con cui, in definitiva, deve fare i conti chiunque faccia il nostro mestiere. È insomma il sacro piacere della lettura che noi vogliamo soprattutto rispettare e incoraggiare, e i libri che abbiamo fatto e che ci proponiamo di fare si spiegano secondo questa prospettiva.
Il discorso sarebbe naturalmente molto più lungo e complesso, ma all’atto pratico noi non facciamo altro che mettere insieme quei volumi che noi stessi, privati cittadini Lucentini e Fruttero (vecchi e appassionati lettori come altri è cacciatore, alpinista o musicofilo) vorremmo trovare in libreria e all’edicola. Che una simile limpida proposizione suoni oggi, in molti circoli, poco meno che eretica, non ci turba minimamente: le controversie ideologiche «ad alto livello» ci interessano poco, e invece di ridurre tutta la questione a un ennesimo scambio di chiacchiere tra quattro gatti, preferiamo mettere in atto(cioè in libri) le nostre convinzioni.
Il preambolo, di cui mi scuso, era necessario per chiarire i nostri criteri generali di lavoro, che sono in sostanza la leggibilità e la validità estetica. In altre parole, a un racconto di guerra brutto ma «interessante», perché il protagonista è negro o pederasta o pacifista o innamorato inconsciamente del suo mulo, noi non ci vergogniamo di preferire un racconto di guerra bello, dove il protagonista si limita a sparare, a detestare il sergente, ad aver paura, fame ecc. —

 

F&L, l’arte di parlare ai lettori

I segreti della “premiata ditta” grandi successi

di Mario Baudino
Erano interessatissimi sia a libri che classificavano di «genere A» sia a quelli di «genere B»; lo stesso valeva per film, teatro, arte. E come scrive Domenico Scarpa nella prefazione al Meridiano dedicato a Fruttero & Lucentini (Opere di bottega, in due grossi tomi, esce domani per Mondadori, pp. 3168, € 140) lo facevano «di prima intenzione, senza snobismi da bastiancontrari», semmai in polemica perenne, come scrissero nella prefazione a un’antologia di storie di guerra americane, con i «recensori ad alto livello, che classificano “film B” tutti quelli dove i cannoni sparano davvero».
Mai in sintonia con le correnti dominanti, F&L hanno saputo parlare, diremmo senza connivenze, con ironia, eleganza e dedizione – ai lettori. Che ora hanno a disposizione nel Meridiano non solo l’intera opera – a eccezione della «trilogia del cretino», pubblicata qualche tempo fa da Mondadori negli «Oscar classici» – ma anche un centinaio di pagine di inediti, tra lettere, appunti, insomma il laboratorio, dagli archivi di famiglia (conservati a Castiglione della Pescaia e a Torino).Ci sono anche le opere scritte e firmate singolarmente, ma al centro di tutto è il quasi miracoloso risultato della scrittura a due, che caratterizza i grandi romanzi dalla Donna della domenica a A che punto è la notte, da Il palio delle contrade morte a Enigma in luogo di mare, a L’amante senza fissa dimora, libri straordinari e perfetti. Coprono un arco di tempo dal ’72, quando uscì il primo, al 2002 quando Lucentini scelse di morire (Fruttero ci ha lasciati nel 2012): trent’anni di «ditta», mille volte spiegata, mille volte elusa, sempre misteriosa, anche se la loro storia comincia ben prima. L’incontro decisivo fu nel ’53 a Parigi, quando, dopo qualche anno di bohème intellettuale in giro per l’Europa, divennero amici e inseparabili.
Fruttero, che già lavorava per l’Einaudi, convinse Lucentini a trasferirsi a Torino, e l’editore ad assumerli entrambi. Svolgevano i loro compiti di redattori (pare mal pagati), traducevano Borges e Beckett, scoprivano la fantascienza. Ma nonostante i rapporti che allora si cementarono con Calvino e Citati, lo Struzzo non faceva per loro, era troppo ideologico, forse un po’ supponente. Così nel ’61 prima uno poi l’altro si trasferirono alla Mondadori, per dirigere «Urania», la prima collana tutta di fantascienza. E già allora sapevano benissimo quel che facevano.
Dagli archivi di Fruttero è emerso un documento per molti aspetti straordinario al proposito: la minuta di una lettera spedita nel ’61 all’allora direttore Vittorio Sereni, in cui annunciavano il programma di lavoro, ma anche qualcosa di più importante, una posizione sulla letteratura che ricorderà quella più celebre ma successiva di Harold Bloom, scomparso nei giorni scorsi, contro la «scuola del risentimento», i «gender studies», l’ideologizzazione trionfante nelle università e non solo. In quella lettera c’erano già i presupposti da cui sarebbe scaturita La donna del domenica: dove si noterà che l’indimenticabile americanista Bonetto è proprio l’alfiere di quelle acritiche infatuazioni «post-coloniali» destinate a irritare non poco lo studioso americano. Il romanzo ebbe un enorme successo. Natalia Ginzburg ne capì subito la «allegria così viva e così misteriosa». La maggioranza dei critici, sul momento, non riuscì a raccapezzarsi. Con grande divertimento degli autori. —

Omaggio a Gianni Rodari, le celebrazioni per il centenario, articolo di Mauretta Capuano da Il Tirreno

Al via in questi giorni mostre, nuove edizioni dei suoi libri in un calendario che si dipanerà fino al 23 ottobre 2020

 

La fantasia al potere
con Gianni Rodari.

Eventi per dodici mesi
verso il centenario

di Mauretta Capuano 

Storie, filastrocche, articoli di approfondimento, materiali scaricabili per insegnanti, poster stampabili, quiz e tanto altro per un anniversario speciale che, proprio per questo, prende il via un anno prima con protagonista assoluta la fantasia. È quello per i cent’anni dalla nascita di Gianni Rodari che si festeggiano il 23 ottobre 2020. Ma tra pochi giorni, proprio il 23 ottobre, parte il countdown in vista delle celebrazioni su http://www.100giannirodari.com, scandito da nuove pubblicazioni e iniziative. Gli eventi sono nel segno di quello che Rodari auspicava: «Tutti gli usi della parola a tutti», non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo. A inaugurare “100 Gianni Rodari” (#100giannirodari) sono le Edizioni EL, Einaudi Ragazzi, Emme Edizioni che, in quanto editori unici dell’opera del Maestro della Fantasia – nato a Omegna, sul Lago d’Orta, il 23 ottobre 1920 e morto a Roma il 14 aprile 1980 – hanno messo in cantiere una serie di nuove, preziose edizioni e mostre dei migliori artisti che hanno illustrato i libri dell’autore di “Grammatica della fantasia”, in allestimento in Italia e all’estero, con partner come la Fiera di Bologna e gli Istituti di cultura italiana nel mondo. Tra i primi titoli ad arrivare in libreria, il 5 novembre, “Cento Gianni Rodari – Cento storie e filastrocche – Cento illustratori” (Einaudi Ragazzi) per i bambini dai 6 anni, che raccoglie cento tavole realizzate da alcuni tra i migliori illustratori al mondo che hanno scelto ognuno la propria favola o filastrocca di Rodari preferita. E poi la strabiliante avventura del trenino più amato d’Italia, “La Freccia Azzurra” (Einaudi Ragazzi) con l’inedita introduzione di Neri Marcorè, tra i grandi fan di questa moderna fiaba sull’amicizia e la solidarietà diventata anche un film d’animazione, e le nuove illustrazioni per il centenario di Camilla Pintonato. Sono da poco arrivati in libreria anche gli albi, dai 4 anni, “L’omino di niente” (Emme Edizioni) con illustrazioni di Olimpia Zagnoli; e “Bambini e Bambole” (Emme Edizioni) la filastrocca dove troviamo il Rodari politico e poeta, con le nuove illustrazioni di Gaia Stella. Alla Fiera Internazionale del Libro per Ragazzi di Bologna 2020, che sarà un po’ tutta nel segno di Rodari, la mostra delle “Eccellenze italiane” sarà dedicata ai 21 migliori illustratori italiani di rilevanza internazionale che hanno illustrato Rodari, tra i quali spiccano Bruno Munari, Emanuele Luzzati, fino ai più recenti Manuele Fior, Beatrice Alemagna e le stesse Gaia Stella e Olimpia Zagnoli. La mostra ha appena iniziato a fare il giro del mondo grazie agli Istituti di cultura italiana all’estero. Nello speciale calendario di “100 Gianni Rodari” oltre a questi eventi hanno preso avvio letture, seminari e rappresentazioni teatrali ispirati all’opera del poeta e scrittore che ci ha insegnato che la fantasia rende liberi, su iniziativa di privati, associazioni, enti, festival. Tutti verranno segnalati sul sito che vuol essere un dinamico punto di riferimento. “100 Gianni Rodari” spiegano i promotori dell’iniziativa, «è anche un’esortazione: a moltiplicare per 100 la circolazione delle sue storie, a celebrare e diffondere i contenuti rivoluzionari della sua poetica, a formare una nuova generazione di piccoli lettori tramite i suoi libri divertenti e profondi: “Favole al telefono”, “Filastrocche in cielo e in terra”, “Fiabe lunghe un sorriso”, “Il libro degli errori”, “Le avventure di Cipollino”, “C’era due volte il Barone Lamberto”. —

Giorgio Scerbanenco “Il terzo amore” recensione di Salvina Pizzuoli

Pubblicato nel 1938, era prima uscito a puntate sulla rivista “Lei”, quindi nella collana “I romanzi di Novella” in voga in quel periodo. Si firmava già Giorgio Scerbanenco pseudonimo di Wladimiro Scerbanenko.

Nella prefazione l’autore racconta di aver seguito, in una notte milanese, una bella donna sola, ma quando le si fanno incontro un vecchio e un bambino, i loro gesti affettuosi lo pongono nella condizione di sentirsi in colpa e decidere di rendere quella sconosciuta protagonista di un suo romanzo. E aggiunge:

Tutta questa storia di come ho conosciuto la protagonista del mio romanzo è naturalmente molto romantica, ma da ventisette anni che sono al mondo ho trovato ben poche cose che non fossero romantiche. Quando avrò conquant’anni, forse, scriverò a freddo, senza passione, delle caldissime vicende d’amore e, allora sì, non sarò più romantico. Ma fino a quell’epoca, lo sarò e avrò tutto il diritto di chiudermi in un albergo sul lago per scrivere trecento cartelle sulla storia di una donna incontrata alle due di notte in una strada di Milano.

Parole che danno un po’ la chiave per interpretare il giovane Scerbanenco.

Una storia, quella che scriverà, che rivela, già dai primordi, la capacità dell’autore di indagare a fondo l’animo umano, di saper presentare figure e personaggi, anche di contorno, le cui scelte e motivazioni sono spesso distanti dalla razionalità, ma comprensibili se legate e calate in una realtà sociale ben precisa, quella di una Milano dei quartieri poveri, degradata ed equivoca, dove Elena, la protagonista, affronta i casi che attraversano la sua esistenza: l’amore per Giulio e l’abbandono, la gravidanza e la nascita del figlio, il cedere a nuovi amori, il torbido mondo dello spettacolo. È bella Elena, ma questa sua bellezza pare più una disgrazia che una dote e, di fronte all’accanirsi degli eventi, tra naufragare o resistere, sceglie di darsi ad un uomo che non ama. Eppure, nonostante tutto e le decisioni prese, non nasconde a se stessa e agli altri la verità non camuffandola nella menzogna.

Un romanzo breve ma intenso, dove molti naufragi attendono i protagonisti, in quel mare periglioso che è la vita, dove alcuni si salvano ed altri periscono.

S.P.

Dello stesso autore:

Giorgio Scerbanenco “Luna di miele”

Lia Levi “L’anima ciliegia”, intervista di Flavia Piccinni all’autrice pisana, da Il Tirreno 13 ottobre

La storia di una donna ambiziosa nell’Italia che cambia
è il nuovo romanzo della scrittrice pisana Lia Levi
La libertà, Stalin
e l’anima ciliegia
di Paganina
«Evviva chi sa fare»
di Flavia Piccinni
“Paganina aveva un’anima ciliegia. Le succedeva così. Non appena cominciava a desiderare qualcosa con tutta se stessa, subito le spuntava accanto un altro desiderio, solo in apparenza diverso, e invece legato strettamente al primo. Come due ciliegie, insomma, di quelle che nascono accoppiate e poi le bambine si mettono a cavallo delle orecchie”.Inizia così il nuovo libro di Lia Levi, una delle più note scrittrici italiane, che torna adesso in libreria con “L’anima ciliegia” (HarperCollins, pp. 233). Levi, nata a Pisa nel 1931, ha vissuto sulla sua pelle le leggi razziali e attraversato da protagonista oltre mezzo secolo. La storia che racconta adesso è quella di una donna ambiziosa, fatta perlopiù d’amore e di sogni, che si trova a fare i conti con un’Italia di grandi cambiamenti e di grandi improvvisazioni.
«Sa – mi spiega lei, con una voce gentile – quando si costruisce un romanzo c’è sempre un nucleo centrale molto forte. In questo caso mi rimane più difficile però trovarlo. Dentro di me, c’era tutto quello che ho scritto: il desiderio di affetti famigliari o il grande amore, ma anche tutte le ombre, i dubbi, la complessità della vita. E queste cose le ho portate al parossisimo, con un personaggio strano e molto libero».
Lei ha vissuto all’epoca delle leggi razziali. La libertà deve essere stata qualcosa di difficile da conquistare.
«La libertà l’ho acquisita con il tempo. Io sono stata da bambina vittima delle leggi razziali: ho perso la possibilità di andare a scuola, ho vissuto con la necessità di nascondermi durante la guerra tedesca, cambiando nome per non essere riconosciuta. La mancanza di libertà l’ho vissuta sui fatti, ma c’erano anche in me degli sprazzi di sogno, alcune folli considerazioni, il pensiero di vivere qualcosa che conteneva un senso di libertà di fronte a queste tremende vicende che mi condizionavano».
Qual è stata dunque la lotta?
«Quella di diventare libera di fare ciò che volevo. All’epoca, il mio carattere non era così risoluto come magari lo è adesso. E io, che scrivo anche per bambini, spesso racconto di piccoli che fanno tutte le cose che avrei voluto fare e che non ho potuto».
Ci sono tante cose che non ha fatto nella sua vita?
«La mia vita è stata una battaglia. Penso, per esempio, alla lotta per il mondo del lavoro in un’epoca in cui, negli anni Settanta, se non erano i tuoi figli il fulcro della tua vita, eri considerata molto strana»
.Paganina spesso ama camminare all’alba, quando la vita non ha confini definiti. Vale lo stesso anche per lei?
«In realtà mi sono ispirata a una mia amica, Carmen Moravia. In tanti lettori sono rimasti colpiti da questo senso di solitudine e conquista contenuto in queste passeggiate. Il silenzio, il senso di libertà, l’ombra che non è più ombra… Sono momenti bellissimi».
Nel libro scrive anche molto di politica.
«Ho raccolto la storia del PC. Questi anni che io racconto sono all’ombra del PC perché i personaggi di questa storia, soprattutto il fratello Spartaco di Paganina, sono del PC. Ma non si tratta di politica».
Perché?
«Il PC è più un sogno, il sogno utopistico che ha rappresentato per tante persone. Tutte queste cose all’epoca c’erano, e man mano la storia di Paganina corrisponde alla storia esterna. A cominciare dalle delusioni terribili che il tempo porta. C’è il mito del compagno Stalin presentato come un nemico del popolo, ma c’è anche l’Ungheria… E i sogni si frantumano piano piano, come il manifesto della nostra genuinità e solidarietà. Sono sogni che si smarriscono con un partito che perde il nome, e con il segretario di quel partito che piange. E quando succede questo, Paganina per una strana coincidenza perde il suo grande amore».
E perde anche il suo sogno. Mi scusi, ma lei come vede la politica di oggi?
«A essere sincera sono molto preoccupata. Abbiamo avuto forse un momento, che non dico si sia risolto, ma che pareva portarci su un precipizio popolato da parole d’odio che spesso divengono anche fatti. Aver spezzato questa catena mi sembra un piccolo passo avanti».
Lei che i periodi bui gli ha vissuti, trovava davvero delle assonanze?
«A volte sì. Adesso però c’è da coltivare una flebile speranza: che la competenza riacquisti il suo posto. Mi preoccupava l’elogio dell’ignoranza a danno di chi, magari, ha lottato tutta la vita per imparare. Mi preoccupavano gli slogan».
Quale più di tutti?
«Aspetti che ci penso. Anzi, eccolo: Evviva chi non sa far le cose!». —

Ilaria Tuti “Ninfa dormiente” recensione di Salvina Pizzuoli

 

Al centro della trama ampia e complessa c’è un quadro e il suo ritrovamento, ma in esso e attorno ad esso un mondo, isolato ma pulsante, una natura rigogliosa e vitale ma inquietante, personaggi femminili custodi di conoscenze e usanze antiche, e la Storia come sfondo a vicende lontane: un mondo che vuole restare isolato e chiuso ma nel quale Teresa Battaglia, la commissario incaricata del caso, sarà portata ad entrare e a sconvolgerlo, alla ricerca di quel filo di segreti e verità mai indagate che lega il quadro ad un assassinio mai denunciato come tale e poi ad una serie di assassinii; un mondo che si svela lentamente perché è grande e profondo quanto custodisce. E Teresa il cui acume è proporzionato alle sensibilità umane che possiede, insieme alla sua squadra, tra ostacoli e minacce, saprà svelare non solo il mistero del quadro, ma saprà leggere se stessa e accettare la malattia degenerativa che l’accompagna insieme alle esperienze inconfessabili che attanagliano il suo secondo, l’ispettore Marini.

Un giallo sì, un poliziesco ben costruito, ma non solo: non mancano sfumature noir, è corposo ma sa avvinghiare il lettore nelle sue trame a cui non manca il respiro dei tanti personaggi che lo costellano insieme alle descrizioni di un mondo naturale con la sua vita e le leggi della sua vitalità, che indaga un sapere sciamanico ed esoterico che dà al complesso narrativo un tocco magico e nello stesso tempo sconcertante. Ingredienti giocati con maestria che fanno del romanzo una composizione non etichettabile perfettamente, dove anche il difficile tema del ciclo della vita fatto di nascita e di morte trova il suo spazio e il suo fascino misterico. E si conclude con una chiusura che non pare definitiva ma profilare un seguito.

S.P.

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