Patrick Modiano “Inchiostro simpatico”, presentazione

Jean Eyben, protagonista e voce narrante del romanzo, è ed è stato alla ricerca della giovane e misteriosa Noëlle Lefebvre, la donna scomparsa, un caso insoluto, che riecheggia dal passato nel presente, un’ indagine irrisolta dell’allora ventenne praticante detective, a metà degli anni ‘60: pochi frammenti, pochi indizi fino a venire in possesso, in modo fortuito, dell’agenda di Noëlle, ma anche qui elementi troppo scarsi; la rinuncia a continuare a cercare diventa inevitabile sebbene a distanza di tempo alcuni indizi poco chiari o poco rivelatori riappaiano e riemergono in una prospettiva diversa, tra ricordo e dimenticanza.

Il titolo è emblematico: come l’inchiostro simpatico è una scrittura coperta, così il passato riemerge coperto a tratti tra la memoria e l’oblio.

Traduzione di Emanuelle Caillat

“Per un investigatore un caso irrisolto è sfida, rimorso, tormento, fantasma. Forse per questo Jean Eyben, che da giovane ha lavorato presso l’agenzia di Hutte, custodisce ancora il fascicolo sulla scomparsa di Noëlle Lefebvre. Pochi dettagli, sbiaditi dal tempo, che riportano Jean sulle ingannevoli piste seguite nella speranza di ritrovare quella donna misteriosa. Anche a distanza di anni, Jean continua a raccogliere indizi inattesi per le strade di Parigi, tra le righe dell’agenda di Noëlle, negli abissi della memoria. Ma la chiave per scoprire la verità sembra scritta con l’inchiostro simpatico: perché si riveli, Jean dovrà cercare la formula giusta. Nei suoi ricordi”.(dal Catalogo Einaudi)

Patrick Modiano è nato nel 1945 a Boulogne-Billancourt. Tra le sue opere tradotte in italiano ricordiamo i romanzi Via delle botteghe oscure (pubblicato in Italia da Bompiani), vincitore del Prix Goncourt 1978, Dora Bruder (Guanda) e, pubblicati con Einaudi, Un pedigreeBijouNel caffè della gioventú perdutaL’orizzonteL’erba delle nottiPerché tu non ti perda nel quartiereIncidente notturnoDall’oblio piú lontanoRicordi dormientiInchiostro simpatico, la raccolta di racconti Sconosciute, la pièce Il nostro debutto nella vita. Nel 2012 gli è stato assegnato il Premio Bottari Lattes Grinzane. Nel 2014 è stato insignito del Premio Nobel per la Letteratura con la seguente motivazione: «Per l’arte della memoria con la quale ha evocato il destino umano piú inafferrabile e fatto scoprire il mondo vinto sotto l’occupazione».(da Einaudi Autori)

Madeline Miller “Circe”, presentazione

La scrittrice americana Madeline Miller vincitrice dell’Orange Prize con La Canzone di Achille, torna a proporre in questo secondo romanzo una figura mitologica, Circe. Pubblicato nel 2018 anche questo secondo romanzo è stato finalista per il Women’s Prize for Fiction ed è stato tradotto in molte lingue tra le quali l’ italiano da Marinella Macrì dall’inglese americano, come si legge nel colophon dell’edizione Marsilio.

Protagonista è la ninfa Circe che si racconta: suo padre era Elios dio del sole e sua madre la bella Perseide, figlia di Oceano, anch’essa una ninfa, una divinità minore, una naiade, “guardiana di fiumi e sorgenti”:

”Crebbi in fretta. La mia prima infanzia fu questione di ore, la seconda di pochi istanti. Una zia si trattenne sperando di entrare nelle grazie di mia madre e mi diede nome Circe, sparviera per via dei miei occhi gialli e del suono insolitamente flebile del mio pianto”.

Una figura mitologica tratteggiata e indagata dall’autrice come protagonista e non più come oggetto della storia raccontata da Odisseo: eccentrica e indipendente, amante più del mondo mortale che del mondo in cui è nata, dea dalla voce umana capace di empatia, di entrare in completo contatto con l’umanità e di averne compassione:

“[…] Agli altri non è gradita la mia voce. Mi dicono che assomiglia al grido di un gabbiano. […] Non sembri un gabbiano. Hai la voce di un mortale[…] La maggior parte degli dei ha voci simili al tuono e alla roccia[…] a volte le ninfe minori nascono con voce umana. Tu sei una di loro”

“[…]Poggiando su una solida conoscenza delle fonti e su una profonda comprensione dello spirito greco, Madeline Miller fa rivivere una delle figure più conturbanti del mito e ci regala uno sguardo originale sulle grandi storie dell’antichità”.(da Marsilio Editori)

Madeline Miller è nata a Boston, ha un dottorato in lettere classiche alla Brown University; ha insegnato drammaturgia e adattamento teatrale dei testi antichi a Yale. Il suo ultimo lavoro rilegge in chiave attuale il mito di Galatea, pubblicato recentemente da Sonzogno.

Il racconto della domenica

Nel distretto di Scollam

Uno scollo provocatore e il mistero della testa scollata

Dico sempre a me stesso che nelle faccende umane non è il caso di usare il superlativo assoluto, ma solo il relativo: anche quando alcune vicende degli uomini sanno stupirti non è il caso di profondersi in giudizi perentori e illimitati, perché c’è sempre un poi e anche un dopo.

Quanto ho visto e vissuto nel territorio di Scollam non ha niente di umano; si ciancia tanto su mondi paralleli e alieni, ma li abbiamo in casa e non ce ne accorgiamo, anzi vogliamo convincerci che siano di questo mondo.

A Scollam dopo le 5 della sera e durante la stagione estiva, camminando per le strade incontri pochi o molti esseri viventi, posso definirli anche umani, perché umani sono in tutto e per tutto, con un particolare che li differenzia da tutti gli altri: hanno la testa scollata dal collo.

No, non fluttua come un palloncino sopra i loro colli, ma è proprio scollata dal resto e ciascuno la porta, si fa per dire, sotto il braccio, a destra o a sinistra. Il braccio circonda completamente la testa dell’individuo che la sorregge con la propria mano. L’effetto è in un primo momento sconcertante, poi ci si fa l’abitudine e non ci se ne accorge più.

Le bocche ti salutano e ti parlano in quella posizione, proprio come se fossero al loro posto. Lo sconcerto aumenta nuovamente quando al mattino ciascuno indossa la propria testa e va a svolgere le proprie mansioni quotidiane. Alle 5 pomeridiane, quasi un gong suonasse, le popolazioni di Scollam, senza versare una sola goccia del proprio sangue, passano la propria testa sotto il proprio braccio.

L’ho fatta tanto lunga perché ogni volta che ricordo quel che ho visto lo devo richiamare dalla memoria senza fretta altrimenti stento ancora a credere di aver visto e vissuto a Scollam ciò che ho visto e vissuto.

Se chiedete agli abitanti di Scollam come sia possibile il fenomeno, rispondono che a loro viene insegnato sin dalla culla perché se non impari bene, rischi di restare “scollolato” , come dicono nella loro lingua, per sempre ( anche questa è un’espressione abusata, non è chiaro cosa significhi, ma questa è un’altra storia che meriterebbe una digressione) intendendo non solo con la testa lontana dal collo, ma, sebbene sul collo, non del tutto “incollolata”.

In molti mi hanno spiegato, incalzati dalle mie domande, che visitatori di passaggio avevano voluto provarci, ma che non c’erano riusciti. Alla mia richiesta di ulteriori chiarimenti avevano specificato che ci si accorgeva del mancato “incollolaggio” perché, dopo aver rimesso le teste sul collo, gli scollolati si comportavano come se non avessero messo la propria testa sul proprio collo, ma la testa qualsiasi sul collo qualsiasi. Quando volli indagare più approfonditamente sulle motivazioni dello “scollolamento”, furono evasivi e si mostrarono poco propensi a risposte esaurienti. Mi dissero che era necessario, che non si poteva restare sempre incollolati, che d’estate faceva troppo caldo; insomma, mi imbandirono un sacco di scuse più che spiegazioni. Non mi rimase che stare a guardare e cercare da solo di scoprire il mistero; ma questa è un’altra storia, quella di scollo discreto e senza scollo, collo lungo e senza collo.

Scollo discreto e senza scollo, collo lungo e senza collo

La faccenda non è così semplice come potrebbe sembrare in un primo momento perché esistono vari modelli di scollo: lo scollo o, come dicono gli Scollamesi, lo scolcollo discreto, ma anche il senza scollo, ormai raro e lo scollolato sempre, molto di moda. Questo significa che non tutti gli abitanti praticano questa funzione. Alcuni solo occasionalmente, altri sempre, altri mai.

Questi ultimi non hanno mai voluto rispondere alle mie domande, limitandosi, quelle poche volte che sono riuscito a comunicare con loro, ad accennare un sorriso gentile sulle labbra, appena abbozzato, ma chiaro ed evidente, quasi una canzonatura leggera.

Più pronti a dare spiegazioni, ma senza effettive e precise risposte sono i praticanti dello scollo occasionale o discreto. L’unica cosa chiara è che non essere praticanti implica una specie di radiazione dalla comunità. Se non ho capito male o ti scolcolli o non sei ritenuto un membro a tutti gli effetti. Ecco perché molti hanno scelto di scolcollarsi sempre.

In realtà, se si appartiene ad una comunità anche secondo me occorrerebbe condividerne le leggi e le regole, ma se le leggi sono astruse, mi sono chiesto, è sempre dovuto?

Questo il vero mistero; io alla fine sono rimasto perplesso e con molte domande senza risposta.

Nella pratica giornaliera, la situazione è ancora più complessa. A distanza di anni si stanno notando delle mutazioni genetiche che preoccupano la comunità di Scollam. Molti neonati nascono col collo lungo, lungo a dismisura ed altri con il collo corto, cortissimo, quasi inesistente. I primi, sebbene deformi, sono bellissimi; i secondi, con quelle teste quasi schiacciate tra le spalle, sono solo sformati. I paragoni con il mondo della natura o dell’arte sono stati notevoli per i primi e tutti ammirati: un cigno, un modigliani, una giraffa, ma anche paragoni meno scontati come un Erketu ellisoni, il dinosauro dallo spettacolare collo, oppure donna Kayan come le donne africane dal collo inanellato.

La trasformazione quindi non è stata vissuta né dai genitori, né dagli stessi, una volta cresciuti, come un tratto da rifiutare; diverse le considerazioni per i secondi per i quali non c’è stato nemmeno il tentativo o la ricerca di esemplari di riferimento o addirittura sforzi o la ricerca di teorie forzatamente inclusive per contemplarli tra gli umani.

Si sono quindi via via ghettizzati; vivono in comunità separate e sono quasi violenti. Tutta la loro rabbia si scatena nei confronti dei colli lunghi che malauguratamente varcano i loro confini, non del tutto delimitati; li aggrediscono mordendoli sul collo, ma poi interrogati sulle molestie inflitte, non sanno spiegare questa loro manifestazione, ma adducono come unica ragione il fatto che gli aggrediti siano dei colli lunghi, e tanto basta.

I colli lunghi a loro volta si sentono sempre più dei privilegiati dalla natura e guardano quasi con disprezzo i senza collo. Le loro comunità sempre più separate sono ormai inconciliabili.

Nel mio girovagare ho sempre avuto occasione di vedere aggregazioni umane in lotta tra loro, spesso perenne e atavica e della quale si è perduta la radice. Anche le collettività di Scollam mi sembrano avviate su questo percorso senza ritorno. Insomma, lo scolcollo ha avuto alla lunga delle infauste conseguenze: sono stati generati dei mostri; anche questa è vero è un’espressione abusata e meriterebbe una digressione, ma faccio per capirsi, nel senso che insomma nessuno glieli invidia; i mostri o si invidiano o fanno paura; e poi io, dopo che ho guardato ma non ho ben capito il perché dello scolcollo, se in un primo momento avrei voluto provare, ora me ne guardo proprio bene.

Nel mio lungo girovagare, iniziato quando ero ancora molto giovane, ma questa è una storia che racconterò dopo, ho avuto la possibilità di imbattermi in misteri spesso analoghi che, quando ne racconti uno, gli altri vengono su, uno dopo l’altro come le ciliegie da un canestro.

A proposito di colla e scolla, anche i misteri sono incollati.

Da Salvina Pizzuoli Il Viaggiastorie. Racconti fantastici

Charlotte Brontë “Il sortilegio con Il trovatello”. Racconti inediti. Cura e traduzione di Francesca Rizzi.

Pubblicati per la prima volta in Italia i due racconti sono stati scritti in età giovanile, a diciassette e diciotto anni, e fanno parte della saga iniziale di Glass Tower, sviluppatasi poi nei leggendari regni di Angria, Wellingtonsland e Verdopolis, che vide i fratelli Brontë impegnati nella scrittura prima insieme, Anne Emily Charlotte e il fratello Branwell, poi i due più grandi Charlotte e Branwell e Emily insieme ad Anne, tra il 1829 e il 1839. Il trovatello racconta come Edward Sidney trovi le sue origini a Glass Tower e inizi una nuova vita, mentre Il sortilegio narra del fratello gemello del re di Zamorna, mitico personaggio di un mondo fantastico creato dalla fantasia da Charlotte Brontë.

“Amore, passione, gelosia, intrighi politici e familiari, ma anche magia e una preziosa rappresentazione delle classi sociali e della condizione dei bambini: un libro grazie al quale ripercorrere i primi, decisivi passi della grande romanziera e conoscere meglio l’incredibile mondo a cui ha saputo dar vita”.( da Edizioni Clichy)

Charlotte Brontë nasce a Thornton, nello Yorkshire, Inghilterra, il 21 aprile 1816, terza dei sei figli di Patrick Brontë, pastore protestante di origine irlandese, e Maria Branwell, insegnante in una scuola religiosa: oltre a lei ci sono Maria, Elizabeth, Patrick Branwell, Emily (che fra tutti diventerà la più celebre, grazie al suo romanzo Cime tempestose) e Anne. Orfana di madre dall’età di cinque anni, inizia la sua attività letteraria fin da giovanissima, nel 1826, insieme alle sorelle e al fratello, creando la Glass Town Saga e il regno di Angria. Nel 1847 viene dato alle stampe Jane Eyre, il suo capolavoro, con lo pseudonimo di Currer Bell, a cui seguirà poi la pubblicazione degli altri suoi romanzi: Shirley (1849) e Villette (1853). Affetta da tubercolosi, muore a Haworth il 31 marzo 1855, incinta del suo primo figlio.(da Clichy Edizioni, Autore)

Giustino Ferri “Tra le quinte del cinema. All’origine della critica cinematografica italiana” a cura di Claudio Gallo e Luca Crovi, Oligo Editore

pagine 50 – prezzo 12 euro
In libreria oggi 25 novembre

IL PRIMO ARTICOLO DI CRITICA DEDICATO AL CINEMA, APPARSO IN ITALIA NEL 1906

La prima proiezione pubblica a pagamento di una pellicola dei fratelli Lumière avvenne a Parigi il 28 dicembre del 1895. Già nel marzo dell’anno successivo i due pionieri del cinema riuscirono a organizzare delle serate a Torino, Roma e Milano. Agli italiani la loro invenzione apparve subito come una incredibile meraviglia, ma anche un mondo nel quale poter impiegare il proprio ingegno e la propria originalità. Così, nel giro di pochi anni, anche nel Belpaese sorsero sale cinematografiche e case di produzione, come la Cines (Roma, 1905), la Itala Film (Torino, 1906) e la Partenope Film (Napoli, 1907). Fu un momento particolarmente fecondo per gli sviluppi della cinematografia e quando lo scrittore Giustino Ferri siglò (nel settembre del 1906) sulle pagine de “La lettura” allegata al “Corriere della Sera” il suo testo Tra le quinte del cinema fu probabilmente il primo critico a raccontare in presa diretta lo sviluppo e le suggestioni di quell’arte visiva che tanto stava stupendo il mondo.

CLAUDIO GALLO, già bibliotecario, è docente di Storia del Fumetto presso l’Università degli Studi di Verona e direttore de “Ilcorsaronero”, rivista salgariana di letteratura popolare. Tra le sue monografie ricordiamo Emilio Salgari. La macchina dei sogni (BUR 2011, firmata insieme a Giuseppe Bonomi). Per Oligo Editore ha curato l’edizione di Robert Louis Stevenson, L’Isola del tesoroIl mio primo libro, tradotto da Luca Crovi e con la prefazione di Mino Milani.

LUCA CROVI è redattore alla Sergio Bonelli Editore, dove cura le serie del commissario Ricciardi e di Deadwood Dick. Collabora con diversi quotidiani e periodici, ed è autore della monografia Tutti i colori del giallo (2002) trasformata nell’omonima trasmissione radiofonica di Radiodue. Per Rizzoli ha pubblicato L’ombra del campione (2018) e L’ultima canzone del naviglio (2020). Per Oligo Editore ha curato i testi del volume illustrato da Paolo Barbieri Draghi, dirigibili e mongolfiereC’era una volta a Milano (2019) e ha tradotto L’Isola del tesoroIl mio primo libro di Robert Louis Stevenson (2020, a cura di Claudio Gallo).

Elizabeth Jane Howard “La ragazza giusta” presentazione

Per Fazi, che pubblica l’opera completa della Howard, nella traduzione di Manuela Francescon, La ragazza giusta fino ad ora inedito in Italia. Fu stampato per la prima volta nel 1982 con il titolo originale di Getting it right, più ampio rispetto alla traduzione in italiano: non limita infatti al solo indirizzo della ragazza giusta ma a fare la cosa giusta in genere.

Protagonista è il timido e introverso Gavin, giovane trentunenne parrucchiere, di estrazione piccolo borghese, che lavora in un salone nel centro di Londra frequentato per lo più da donne di una certa età con le quali, dopo i quattordici anni trascorsi nel salone, Gavin riesce a parlare con una certa disinvoltura, ma sarà opera dell’amico omosessuale Harry se il giovane verrà introdotto nell’ambiente mondano della città e costretto ad uscire dal guscio e dal disagio della propria esistenza fatta di casa, vive ancora con i genitori, e lavoro. Il romanzo è ricco di personaggi e ritrae una società variegata della Londra anni ‘70 con descrizioni incisive e gustose sulle clienti del salone, pennellate nelle loro caratteristiche fisiche e di comportamento. Interessante è la visione al maschile dalla cui prospettiva la scrittura si sviluppa.

“Elizabeth Jane Howard confeziona una frizzante commedia punteggiata di ironia – all’epoca dell’uscita al terzo posto nelle classifiche inglesi dopo Frederick Forsyth e Wilbur Smith –, da cui fu tratto un film girato da Randal Kleiser, il regista di Grease, con Lynn Redgrave e Helena Bonham Carter. Un nuovo, imperdibile romanzo à la Howard, finora inedito in Italia, che delizierà tutti i lettori affezionati all’autrice della saga dei Cazalet”( dal Catalogo Fazi Editore)

Elizabeth Jane Howard (Londra, 1923 – Bungay, 2014). Figlia di un ricco mercante di legname e di una ballerina del balletto russo, ebbe un’infanzia infelice a causa della depressione della madre e delle molestie subite da parte del padre. Donna bellissima e inquieta, ha vissuto al centro della vita culturale londinese della seconda metà del Novecento e ha avuto una vita privata burrascosa, costellata di una schiera di amanti e mariti, fra i quali lo scrittore Kingsley Amis. Da sempre amata dal pubblico, solo di recente Howard ha ricevuto il plauso della critica. Scrittrice prolifica, è autrice di quindici romanzi. La saga dei Cazalet è la sua opera di maggior successo. Oltre ai cinque volumi della saga, Fazi Editore ha pubblicato i romanzi Il lungo sguardoAll’ombra di JuliusCambio di rottaLe mezze verità e Perdersi.( Da Fazi Autore)

dello stesso autore:

Perdersi

Gli anni della leggerezza. La saga dei Cazalet

Giorgio Battisti e Germana Zuffanti “Fuga da Kabul. Il ritorno dei talebani in Afghanistan” Paesi Edizioni

 ‘Fuga da Kabul. Il ritorno dei Talebani in Afghanistan’, il racconto crudo di prima mano del generale di corpo d’Armata italiano Giorgio Battisti, il quale ha servito «boots on the ground» nel teatro di guerra afghano contro il terrorismo islamico. Scritto a quattro mani con la giornalista Germana Zuffanti, che da tempo si occupa di questioni sociali e delle problematiche legate all’Afghanistan.
 
Il libro, edito da Paesi Edizioni, offre uno sguardo approfondito e critico senza alcun giudizio ideologico o politicizzato sulla realtà dell’Afghanistan e della sua nuova leadership.

Partendo dai fatti, gli autori raccontano con uno stile fresco e una narrazione incalzante le ragioni del disastro militare, i fatti del 2021 e perché aspettarsi importanti novità in questo Paese indomabile e refrattario alle ingerenze internazionali.

Durante l’esperienza sul campo – ben quattro missioni in Afghanistan subito dopo l’11 settembre e fino al 2016 – il generale Battisti ha avuto modo di comprendere a fondo la realtà di questa regione chiave per la geopolitica mondiale e conoscere i suoi abitanti. Insieme con la giornalista Germana Zuffanti, ecco che si ricostruiscono anni di missioni in prima linea.
 
Alla cornice storica, gli autori affiancano un diario dettagliato delle missioni NATO, dell’importante ruolo svolto dall’Italia, del valore strategico del Paese e di come e perché non sia stato possibile sconfiggere gli studenti/guerriglieri del Corano, pur con una potenza di fuoco molto maggiore. Un libro scritto da un generale che, grazie al suo punto di osservazione privilegiato, oggi è in grado di trasferire la propria esperienza alle nuove generazioni di operatori delle forze armate.
 

Giorgio Battisti – Generale di Corpo d’Armata (Aus.), ha ricoperto diversi incarichi allo Stato Maggiore dell’Esercito. Ha comandato il Corpo d’Armata Italiano di Reazione Rapida della NATO, ha partecipato alle operazioni in Somalia (1993), in Bosnia (1997) e in Afghanistan per quattro turni, tra il 2001 e il 2016.

Germana Zuffanti –  Giornalista pubblicista, funzionario pubblico presso l’Università di Torino, si occupa da tempo di questioni sociali e delle problematiche legate all’Afghanistan. Gestisce un canale youtube e cura una rubrica su Panorama.it

Wilbur Smith “Il nuovo Regno” presentazione

Wilbur Smith, nato il 9 gennaio 1933  in Rhodesia (allora protettorato britannico e in seguito Stato indipendente dello Zambia) è scomparso di recente (13 novembre 2021) a 88 anni nella sua casa di Cape Town in Sudafrica, ha scritto fino alla fine mantenendo intatto fino in fondo il piacere di scrivere e inventare avventure. Il suo primo libro è datato 1964, Il destino del leone (arrivato in Italia per Longanesi nel 1981) l’ultimo è solo di qualche mese fa. Ha prodotto molti romanzi, molti ordinati in saghe, i Courtney, i Ballantyne, Hector Cross, il ciclo egizio.

Con l’ultimo “Il nuovo regno”, scritto in collaborazione con Mark Chadbourn, torna nel mondo dei faraoni quasi un prequel ai romanzi del ciclo sull’Antico Egitto. Il protagonista è Hui un ragazzo dotato non solo di bellezza fisica ma anche di principi e ideali, aperto e fiducioso.

Tutto sembra promettere un destino felice ma le trame ordite contro il padre, governatore di Lahun, e contro di lui per impossessarsi del potere, lo precipiteranno in una situazione diametralmente opposta. L’esperienza porterà Hui ad abbandonare l’ingenuità del ragazzo e a farsi sempre più adulto con la consapevolezza di poter trarre vantaggio da quanto ha imparato insieme ai predoni hyksos per una giustizia da ristabilire.

“[…]Finché non si trova al centro di una battaglia ancor più grande, quella per il cuore stesso dell’Egitto. Così, mentre i segreti del passato emergono dalle tenebre e anche gli dei scendono in campo, Hui si ritrova a combattere al fianco del prode generale egizio Tanus e del potente mago Taita. E a quel punto dovrà scegliere il proprio destino: diventare un eroe del vecchio mondo, o andare incontro al futuro di un regno nuovo”. (da Harper Collins Italia)

dello stesso autore su tuttatoscanalibri:

Re dei re

La guerra dei Courtney

Il racconto della domenica

Le gatte

Il palazzotto neogotico, con la torretta e il bugnato rustico della facciata, si distingueva tra le case basse con balconi e terrazze e giardini all’inizio della bella strada in salita di una delle tante colline intorno alla città. Lo avevo notato subito quando anni addietro avevo percorso quella via alla ricerca del numero civico indicato dall’agenzia incaricata della vendita dell’appartamento che poi sarebbe diventato di mia proprietà. La posizione elevata, la strada e i campi, visibili dalla parte retrostante, mi avevano conquistato: la vista era magnifica; mi aveva ricordato i quadri di Monet punteggiati dei colori caldi e soffusi dei fiori di campo; meritava la spesa seppure nella limitazione degli ambienti all’interno.

Con il passare del tempo mi ero abituato alla singolarità delle forme di quell’unico fabbricato che così poco si intonava con le altre costruzioni tanto ariose e aperte in confronto all’ austerità cupa del palazzotto protetto da un muretto e da un’ inferriata a barre fitte e scure Era però possibile sbirciare al di là del pesante cancello, filtrando lo sguardo tra i ricci e gli anelli di ferro che ne alleggerivano la struttura e il peso. Strano a dirsi, non c’era stata volta che passando, e da allora c’ero passato davanti spesso, non avessi sentito il desiderio impellente di gettare un occhio al cortile interno sempre uguale nella sua trascuratezza, abbandonato alle intemperanze della natura, con le erbacce che spuntavano a ciuffi tra le pietre spaccate del selciato o ricoperto dalle foglie cadute dai rami di due alti e imponenti tigli. Vivificavano l’ambiente due gatte, una tigrata e l’altra a pelo lungo e fulvo costantemente appollaiate su una panchina di pietra.

Per il resto il luogo era privo di vita. Le gatte erano curate e sembravano le padrone di quel territorio disabitato.

Non era mia abitudine chiedere e pertanto nulla sapevo circa gli eventuali inquilini che comunque non avevo mai visto, né intravisto durante le numerose passeggiate lungo quella strada che da subito avevo amato; la percorrevo infatti spesso a piedi, in tutte le stagioni.

Ne amavo i giardini di cui spesso riuscivo a carpire solo scorci e fugaci vedute, gradevoli per l’intensità dei colori e per i loro accostamenti nati da una magistrale tavolozza.

Ne amavo le siepi di gelsomino che si affacciavano sul marciapiede con i loro piccoli calici bianchi o azzurri, riempiendo l’aria della sera di avvolgente profumo, ma l’amavo soprattutto in inverno quando la vita sembrava fermare il passo e attendere. Niente tripudi di fioriture, niente foglie sugli alberi, niente rose, niente profumi, niente colori, solo sagome scarne, pieni e vuoti; riuscivo solo in quella stagione a vedere la grande finestra che si apriva nel fabbricato in cima alla collina, in estate completamente nascosta dal fogliame.

Fu proprio una notte d’estate che tutto ebbe inizio e che da allora avrebbe completamente trasformato il mio rapporto con il palazzotto e con tutto ciò che conteneva. Preso da una delle mie frenetiche e angosciose ansietà, mi ero precipitato fuori nella strada; avevo camminato fino a sfinirmi, ma non sapevo di preciso per quanto, annebbiato dal turbinio dei miei tormentosi pensieri. Stanco, nel rientrare a casa mi ero poi lasciato prendere da quel sentore di fresco che già ai piedi della salita rendeva il caldo meno soffocante quando, passando accanto al palazzotto, mi accorsi che il grosso cancello era scostato; un occhio meno avvezzo forse non lo avrebbe neppure notato, ma il mio abituato, si. Rimasi lì fermo a sincerarsene. Non c’erano dubbi, era stato aperto.

Mille congetture si fecero strada nella mia mente affollandola, senza però fornirmi una soluzione plausibile. Mai, ed erano ormai trascorse varie stagioni, quel cancello non lo avevo visto né spalancato né aperto né tanto meno scostato.

Incredulo mi trovai a spingere con la mano sul battente e a intrufolarmi nel cortile. Era tutto molto silenzioso, sotto la luce dei potenti lampioni che qualche mese addietro avevano sostituito i precedenti, vecchi e discreti; ora quella luce sfacciata illuminava la via da seguire.

Non ero ancora a metà del percorso tra il cortile e il portone d’ingresso che un movimento attirò la mia attenzione: le gatte erano comparse da dietro la casa. Sembrava mi venissero incontro sebbene non mi avessero degnato mai di uno sguardo.

Si accucciarono a qualche passo da me. Il comportamento mi sembrò singolare; non mi intendevo di gatti, ma qualunque animale alla vista di uno sconosciuto avrebbe trovato più conveniente la fuga.

L’arrivo improvviso delle gatte mi aveva distolto dai miei pensieri che si rincorrevano arruffati e confusi; in realtà cosa ci facevo lì e perché mi era saltato in mente di correre un rischio simile? Chiunque avrebbe potuto a ragione considerarmi un intruso. Eppure la curiosità, cresciuta nel tempo, aveva prevalso su ogni ragionevole considerazione.

Stavo per avanzare quando le gatte cominciarono a dirigersi lentamente verso l’angolo dal quale erano arrivate.

Decisi di seguirle.

Cosa può spingere un uomo assennato, sfiancato dal tentativo di sfinire i suoi cattivi pensieri, in un cortile privato, nel cuore di una notte estiva, a seguire due gatte all’interno di un’abitazione?

Me lo sarei chiesto inutilmente mille e una volta nei giorni e negli anni successivi. Tuttavia nel preciso istante in cui avevo varcato quel cancello, tutta la mia ansia era scomparsa per lasciare posto a una suggestione che andava raggomitolandomi.

Girato l’angolo, sul retro del palazzo l’oscurità era maggiore, ma il riflesso della luce forte del lampione alto sulle case mi permise di distinguere un portoncino di servizio, anch’esso accostato; le gatte intanto erano entrate. Lo spinsi senza alcuna esitazione. Nella luce che filtrava chiara dalla lunetta del portone dell’ingresso principale nella parete di fronte a quello di servizio, lo spazio interno appariva disadorno e occupato interamente da una scala di pietra che addossata alla parete a destra saliva al piano superiore. Scorsi le gatte appostate sulla parte dove la scala si faceva più larga, prima del corrimano, anch’esso di pietra, ma più scura, di un grigio levigato dal tempo e dalle molte mani che lo avevano stretto. Quando mi videro mi precedettero, quasi a fare da guida. Giunto in cima continuai a seguirle verso un’ampia stanza che si apriva proprio di fronte al corridoio d’ingresso al piano superiore. Una luce, come a bagliori, sembrava rischiararla, ma il raggio potente del lampione insinuandosi tra gli scuri accostati la rivelava in tutta la sua magnifica e composta eleganza: le pareti in angolo a destra erano completamente tappezzate da libri ben disposti in scaffali che lasciavano trasparire solo gli assi portanti tanto erano stipati. In basso altri libri, più alla rinfusa su sedie, poltrone, mobili, nella libreria girevole. Mi colpì il bagliore di una fiamma che si era come ravvivata per un’impercettibile corrente; la cenere rianimata diffondeva all’intorno un alone di luce rossastra che mi permise di cogliere i contorni del bel caminetto rivestito di maioliche portoghesi; avrei riconosciuto ovunque quella manifattura unica e gradevolissima nelle sue gradazioni e disegni dal blu intenso. Quei bagliori, insieme ai tappeti, alle poltrone, ai divani e ai libri conferivano all’ambiente un’atmosfera calda e accogliente; una stanza studio, come sottolineava una piccola scrivania rococò, di sicura manifattura fiorentina, splendida in angolo, vicino alla seconda ampia finestra, alla luce della quale distinsi il bel piano di lavoro lavorato a intarsio. Ero talmente affascinato da quell’ambiente così simile a quello che avrei avuto in mente per il mio appartamento che non colsi subito, lì, vicino a me, la poltrona ingombra di qualcosa che assomigliava a un fagotto.

La mia attenzione era intermittente nel tentativo di cogliere più elementi contemporaneamente.

Alla mia sinistra una bassa scaffalatura stretta e lunga quanto tutto il lato dell’ampia stanza, conteneva una raccolta di classici latini e greci in edizione economica che avevo subito riconosciuto dalle vecchie copertine di cartoncino sottile; il loro aspetto sciupato e gualcito evidenziava l’ operosità del tempo, ma anche le ripetute letture; sopra di essa, una scelta di opere di impressionisti e macchiaioli, quelli che più amavo, tappezzava letteralmente la parte restante della parete. Rimasi incantato come Batà dalla luce della luna mentre li osservavo al chiarore dei lampioni filtrato dagli scuri e al baluginare del caminetto; tutto in quella stanza pareva studiato per avvolgermi e accarezzarmi l’anima e io rispondevo lasciandomi prendere e cullare.

Era come in un dejà vu, conoscevo quell’ambiente, c’ero già stato e lì stavo bene; come un brutto cofanetto, il palazzotto, pur

nell’ abbandono apparente ed esterno degli ambienti disadorni e trascurati, custodiva un gioiello.

A quel punto mi detti a ricercare segni di un’eventuale effrazione, ma non ravvisai alcunché, né in quella stanza né negli ambienti limitrofi vuoti e bui a cui faceva riscontro quell’unica stanza dove il disordine era quello di chi legge, studia, cerca, rilegge, vive; un mondo parallelo, chiuso e isolato. Avrei continuato a crogiolarmi in quell’ambiente senza pormi domande, senza dubbi o incertezze, sicuro delle risposte come già date, se le gatte non mi avessero svegliato da quel torpore piacevole, piazzandosi accanto a quella poltrona ingombra che ancora non avevo considerato.

Fu allora che mi accorsi che il fagotto era in realtà un ammasso sì di abiti, ma che vestivano qualcuno.

Per un attimo il cuore ebbe un sussulto e poi sembrò fermarsi completamente. Avrei voluto urlare, ma la voce si era completamente strozzata in gola; avrei voluto allontanarmi, ma le gambe non obbedivano; in tutto questo tumultuare di sensazioni di cui mi sembrava di non avere alcuna coscienza e consapevolezza, i miei occhi sbarrati erano riusciti a penetrare meglio tra le pieghe del fagotto e a distinguere un lungo impermeabile beige che ricopriva una figura minutissima e scarna, stretto da una cintura che segnava il punto vita. La testa era nascosta da uno strano copricapo, simile al cappello di un fantino che a sua volta si calzava su un foulard che incorniciava il viso asciutto di una vecchia signora. I suoi occhi erano chiusi e la sua testa era reclinata morbidamente sulla spalliera alta della poltrona nella quale era alloggiata. Accanto a lei, a cavallo del bracciolo, un volumetto dei classici, come se stesse leggendolo e lo avesse un attimo appoggiato per tenere il segno e riprenderne la lettura successivamente.

Sembrava così tranquilla che il cuore ricominciò a battermi in petto. La stanza e la vecchia signora sembravano non avere nulla in comune, l’una sobria ed elegante l’altra bizzarra e trasandata, eppure da quel viso traspariva un’ espressione di compiuta quiete.

Con una tranquillità di cui non mi credevo capace, diedi ancora un’occhiata alla bella stanza dove solitaria viveva la vecchia signora e mi avviai verso le scale per uscire, ma senza fretta.

Fu solo allora che mi accorsi che le gatte per tutto il tempo, che a me era sembrato lunghissimo, erano rimaste accoccolate accanto al caminetto acceso e che ora come riscosse mi stavano accompagnando ancora una volta, in un percorso a ritroso.

Lasciai tutto come lo avevo trovato: sia il portone di servizio che il cancello; anche di questo non seppi mai spiegarmi il perché.

Trasognato, mi avviai verso casa dove crollai in un sonno profondo e senza sogni.

Il risveglio fu meno sereno. Il primo impulso fu quello di pensare che avessi sognato, ma la vivezza delle immagini che ancora mi turbinavano nella mente affermavano il contrario.

Decisi allora di tornare là con l’intento di soffermarmi a controllare e guardare meglio i luoghi alla luce del giorno.

Giunto davanti al cancello vidi che era ancora accostato. Feci finta di chinarmi ad allacciare le scarpe per avere più tempo di guardare senza dare nell’occhio. Tutto sembrava immutato: gli alberi, le erbacce e la panchina sulla quale le gatte ancora una volta erano appollaiate.

Richiamai la loro attenzione sfregando i piedi sul selciato, ma loro, sornione, non colsero o non vollero cogliere e rimasero incuranti accovacciate sulla loro panchina.

Le domande si affollarono: cosa era accaduto nella casa dove nessuno fino a poche ore prima aveva manomesso nulla? e la vecchia signora? era solo un fagotto di stracci che la mia mente agitata aveva vestito o c’era davvero? e perché non l’avevo mai vista né incontrata? se c’era, stava davvero dormendo o era, orrore solo a pensarci, morta da tempo? nulla era cambiato nell’ampio cortile; davvero avevo visto un caminetto acceso in piena estate? davvero avevo ammirato la bella stanza che tanto assomigliava a quella vagheggiata?

Non mi restava altro che constatarlo contravvenendo alla mia indole. Con fare svagato, da visitatore casuale, mi spinsi oltre il cancello avviandomi con passo lento verso il retro del cortile e verso quell’ingresso di servizio che ormai mi era noto. A metà percorso qualcosa intervenne a far vacillare la sicurezza dei miei passi. Ricordavo benissimo di aver seguito le gatte sul retro della casa, ma il percorso mi era sembrato molto più breve.

Forse non ricordavo a causa del buio quel cespuglio che vi si addossava? Lo avevo sicuramente aggirato.

Ci provai ancora e cercai un varco che non c’era: il passaggio era completamente sbarrato da un muro di pietra.

Sentivo la bocca farsi più secca e il bisogno di ingoiare sempre più insistente e difficoltoso mentre la gola si stringeva in un nodo serrato che mi impediva di deglutire in modo normale. Quel muro non lo avevo mai notato nonostante le continue sbirciate attraverso il cancello. Istintivamente mi voltai a guardare in una prospettiva capovolta. Immediatamente mi accorsi che la distanza era maggiore di quella che avevo percorso la notte precedente, ma compresi che l’esistenza del muro perimetrale addossato al palazzo mi era stata impedita dai due poderosi tigli che limitavano la visuale del cortile.

Le deduzioni ricavate dalla breve esplorazione non solo non mi avevano chiarito l’enigma, ma stavano se possibile complicandolo. Immerso nella nube nera dei miei pensieri non mi accorsi di sbattere quasi subito contro la panchina di pietra, la panchina sulla quale le gatte trascorrevano le loro giornate. Ciò che vidi mi lasciò letteralmente di sasso. I miei pensieri per quanto arruffati erano stati fino a quel momento una presenza; in quel preciso istante percepii con un vigore mai provato cosa potesse significare “testa vuota”.

Non c’erano pensieri, non c’erano domande, non c’era emozione, né sensazione ma una voragine senza fondo mi stava trascinando in un vortice che non riuscivo a percepire con i sensi, esisteva intorno a me risucchiandomi nella sua spirale sempre più stretta e soffocante. Uscire o riemergere non era possibile, potevo solo sprofondare.

Mi ritrovai con una mano appoggiata sul bordo inciso della vecchia panchina; non sapevo quanto tempo fosse effettivamente trascorso, ma mi riscossi e avvertii di essere tutto intero.

Le belle gatte mi fissavano sornione, beatamente accucciate sullo stesso lato della panchina, immote e fisse nella consistenza vetrosa della porcellana. A guardarle così da vicino era possibile notare la notevole rispondenza al vero, nonostante alcuni tratti sbeccati dal logorio del tempo; ben fatte e verosimili nelle loro espressioni paciose e paffute, erano le padrone di quel cortile che non potevano abbandonare.

da Salvina Pizzuoli “Corti e… fantastici”

Carla Boroni Donati “Lo sguardo di Ungaretti. Visività e influenza dell’arte figurativa nella poesia ungarettiana” Gammarò/Oltre edizioni


Pagine 200, 18 euro, in libreria dal 20 novembre. Gammarò edizioni (OLTRE)

Nel libro l’autrice affronta il complesso rapporto intercorso tra Ungaretti e le arti figurative cercando innanzitutto di dar conto di una frequentazione e di un’affinità espressiva che trovano la propria ragion d’essere in una ben precisa sensibilità estetica. La pittura, la scultura e l’architettura hanno infatti rappresentato, per Ungaretti, per la sua poetica, non semplici campi di studio e di riflessione, ma veri e propri strumenti per l’elaborazione di una visione del mondo, di una concezione sia tecnica che esistenziale della letteratura, di una pratica poetica che ha costituito le proprie immagini attingendo in primo luogo all’ambito dell’esperienza visiva.

La poesia di Ungaretti è densa di immagini. Di immagini provenienti dalla storia dell’arte e dal paesaggio naturale, ma anche di immagini mentali elaborate, lucidamente, al limite dell’onirico. Immagini evanescenti che in molti casi evocano sentimenti, sensazioni impalpabili e, di contro, immagini che si delineano in modo netto e preciso, in una forma cartesianamente “chiara e distinta”. In questo libro si cerca di non limitare troppo il campo, di non confinare il dato poetico ed esistenziale all’esclusivo punto di vista letterario.

Un approccio esclusivamente letterario rischierebbe infatti di lasciare sullo sfondo proprio l’aspetto più caratteristico del rapporto di Ungaretti con le arti figurative. Rischierebbe di non cogliere tutti i diversi punti di vista che concorrono a fare di tale rapporto un elemento essenziale per il formarsi della poesia ungarettiana, una poesia che si è sempre chiaramente proposta come poesia che nasce dalla vita, dal dato esistenziale.

Laureata in Pedagogia all’Università Cattolica di Brescia e in Lettere all’Università “La Sapienza” di Roma, Carla Boroni è professore associato alla cattedra di Letteratura Italiana Contemporanea (Scienze della Formazione) presso l’Università Cattolica di Brescia. Ha pubblicato articoli per riviste di critica letteraria e diversi libri tra i quali: Dall’Innocenza alla Memoria: Giuseppe Ungaretti (1992), Tra Sette e Ottocento. Momenti di critica e letteratura bresciana (1999) e Giuseppe Ungaretti. Amore e Morte, un percorso lirico (1999). Ha curato la raccolta Le parole legate al ditoi racconti di Enrico Morovich, in due volumi pubblicati nel 2009 (anni 1949-1970) e 2010 (anni 1971-1978). Sul rapporto tra sport e letteratura ha scritto Lo sport nella letteratura del Novecento. Il mondo dello sport raccontato dagli scrittori (2005) e Gli scrittori italiani e lo sport (2012). Studiosa di fiabe e favole ha prodotto numerosi volumi fra cui Favoleggiando (2006), Fiabe & favole golose (2009), I mestieri delle favole (2010). Per Vannini editore ha diretto la collana “Didattica e Letteratura”. Negli ultimi anni ha pubblicato Paralipomeni (2016), Appunti per il mio Novecento. Figure, percorsi e temi della letteratura italiana (2016) e Scuola e letteratura (2017). Per la casa editrice Gammarò, nella collana “Maestri e altre storie” diretta con Francesco De Nicola, sono usciti Letteratura fra i banchi di scuola (2018); Figure bresciane nella letteratura tra Otto e Novecento (2019) e Le nostre Favole (2020).

Nella copertina particolare da Gino Bonichi (Scipione), Ritratto di Ungaretti, 1930 ca., Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna