Gino Scartaghiande “Sonetti d’amore per King-Kong”, Graphe.it Edizioni

Collana Le Mancuspie diretta da Antonio Bux

 pagine 112, 12 euro,

Graphe.it Edizioni 

Un poema d’amore e di morte,

di distacco e di riavvicinamento,

dove la grazia e l’abbandono

si plasmano vicendevolmente

Nel 1977 l’uscita di questo libro rappresentò un punto di rottura nella poesia italiana, data l’audacia espressiva di un poema multiforme che fu subito salutato da molti come un vero e proprio evento. Viene ora riproposta al pubblico l’opera forse dagli esiti più importanti di Gino Scartaghiande.
E non si tratta, per l’appunto, di una semplice operazione nostalgica o di un consolatorio omaggio tout court, ma di un vero e proprio riconoscere a questo lavoro una quanto mai attuale vitalità. Difatti, nei Sonetti d’amore per King-Kong, il lettore potrà incontrare una voce dal canto limpido che, seppur poggiando i suoi stilemi sulla lezione dei classici, diventa ancor più ultra contemporanea grazie alle suggestioni del particolare dettato poetico; così come altre volte un incedere più duro e slegato si vedrà aprire ai temi forti della raccolta con suggestioni sempre più imprevedibili.

GINO SCARTAGHIANDE (Cava de’ Tirreni, 1951), vive e lavora tra Roma e Salerno. Laureato in medicina, nel 1977 ha pubblicato Sonetti d’amore per King-Kong (Cooperativa Scrittori, Roma-Milano) a cui sono seguiti altri titoli. Sullo scorcio degli anni Settanta è stato tra i collaboratori di Prato pagano e tra i fondatori di Braci (1980-1984). Intenso il suo sodalizio d’arte e di vita con poeti e artisti operanti a Roma. Sue poesie sono state tradotte in più lingue.

Giuseppe Pitrè “Breve storia del pesce d’aprile”, Graphe.it

Con un saggio introduttivo di Carlo Lapucci e una appendice di Roberta Barbi Illustrazioni a colori

Pagine 95, prezzo 9 euro.

Graphe.it

Alla scoperta di una delle più longeve, simpatiche e misteriose tradizioni italiane (e non solo)

Perché si fanno i pesci d’aprile?

L’autore di questo volumetto decide di andare al fondo della questione, ricostruendo con cura fonti scritte, filastrocche dialettali e testimonianze storico-mitologiche non soltanto italiane, bensì internazionali: sembra proprio che l’origine dello scherzo si perda nella notte dei tempi, benché i suoi effetti siano trasversali (almeno in Europa) negli ultimi due o tre secoli.

A corredare il godibile trattato di Giuseppe Pitrè (pioniere dell’etnologia nazionale, 1841-1916) ci sono due altrettanto autorevoli contributi. L’ampia introduzione di Carlo Lapucci contestualizza l’argomento, con leggerezza, sul piano antropologico. Questa consuetudine del pesce d’aprile sembra andare a braccetto con la mutevolezza della stagione, il cambio d’abito e di generazione: quella nuova, nella tradizione popolare, vien messa alla prova nella speranza che diventi presto abbastanza furba da cavarsela nella vita.

A chiudere il libro una spassosa appendice di Roberta Barbi, che ha raccolto le burle più famose e riuscite di cui si abbia memoria, dal XIII secolo a oggi. Il testo è arricchito da illustrazioni a colori di Antonio Rubino, Dino Aloi, Milko Dalla Battista, Lido Contemori, Carlo Squillante, Gianni Audisio e Gianni Chiostri.

Il più riuscito pesce d’aprile è forse la stessa ricerca dell’origine dell’usanza del pesce d’aprile, alla quale sono stati mandati tanti inutilmente facendoli tornare con un pugno di mosche in mano. Siccome l’origine più che oscura è ignota, ognuno ha sbrigliato la propria fantasia, contribuendo a formare una specie di saga delle origini, che ha confermato come l’elemento fondante logicamente provato di questa tradizione non lo conosciamo, almeno per ora, e temo che difficilmente uscirà fuori. Quest’usanza ha diffusione in gran parte d’Europa e in America, per ora senza che nessuno abbia potuto certificarne ragionevolmente l’origine e di certo si può dire poco. L’espressione “pesce d’aprile” si trova attestata il Italia per la prima volta nel 1875, mentre in Francia si può risalire al 1655. Nelle varie lingue in cui si trova la locuzione le strade della ricerca riconducono alla lingua francese e quindi l’ipotesi più ragionevole è che l’usanza possa aver avuto inizio e abbia ricevuto il battesimo nella terra del poisson d’avril. (dall’introduzione di Carlo Lapucci)

Adelio Fusé “Mosaico del viandante”, Book Editore

“Siamo tutti ologrammi dell’uno plurimo che ha nome Tempo.”

Pagine 112, prezzo 18 euro

Book Editore

 immagini una pianura nella nebbia accoccolata

un lago di ghiacciato candore

un deserto delle stelle lo specchio

una spiaggia fra bagliori a mezz’aria assolati

 eppure il Tempo lí maschera ferma

pausa che non oscilla

ogni impulso e fremito ormai espunti

dal bluff si smuove e ancóra si riaffretta;

 conosci l’illusione che si fa inganno

ma ti serve lo sgomento

l’urto di rimando:

 la revoca della stasi nel ridestarsi

Terzo capitolo – dopo La veglia del sonnambulo (2016) e Tempo ventriloquo (2019) – di una trilogia dell’erranza, Mosaico del viandante mette in scena un tu – il viandante, appunto  meticolosamente seguito nei suoi continui quanto imprevedibili spostamenti e incontri dall’io del poeta. Ne deriva una sorta di diario in seconda persona, nel quale l’io è tutt’altro che assente: l’io e il tu sono ognuno l’ombra dell’altro. 

Il ‘tu viandante’, che evita gli itinerari lineari e precostituiti a vantaggio della pluralità, procede per libere associazioni e diramazioni, sia pure con la preoccupazione di rintracciare un filo conduttore via via che gli episodi-tasselli si accumulano. La sequenza cronologica è sovvertita dalle intromissioni della memoria. Il passato, benché intermittente, una volta recuperato si reclama come presente. L’andare del viandante nello spazio (spiagge solitarie, aree extraurbane con aeroporti e scali ferroviari, città dai grattacieli spettrali, la campagna dell’infanzia, fiumi in secca e altro ancora, sino a una pianura che sconfina nel mare) coincide allora, inevitabilmente, con un nomadismo nel tempo.

Passato, presente e futuro si fondono in un’unica dimensione temporale trasfigurando il reale, peraltro inscalfibile tanto nei suoi mali congeniti (il “dissesto diseguagliato del mondo”) quanto nella cronaca più negativa – la pandemia, l’emergenza climatica, la minaccia nucleare – che si fa Storia e insieme distopia (“il pianeta azzurro a catafascio / rigattieri a raccoglierlo nessuno”).

Protagonista di un viaggio in espansione costante e giocoforza incompiuto, il viandante si imbatte infine in un mosaico raffigurante un suo lontano omonimo, un “rabdomante di sentieri / nella geografia del tempo”. Lì il percorso non si conclude ma si rinnova.

Adelio Fusé (1958) vive a Milano, dove ha lavorato nell’editoria. Ha pubblicato saggi su Sade, Kafka, Sartre, Handke, Eno (Materiali Sonori-Auditorium, 1999), i romanzi North Rocks (Campanotto, 2001), Lastrazione non è la mia passione principale e Le direzioni dell’attesa (Manni, 2018 e 2020). Per Book Editore, dal 2003 al 2019, sono usciti i libri di poesia Il boomerang non tornaOrizzonti della clessidra distesaCanti dello specchio bifronteLobliqua scacchiera, La veglia del sonnambulo (candidato al Premio “Camaiore” e finalista al Premio “Lorenzo Montano”, 2016), Tempo ventriloquo. Collabora con artisti, fotografi e musicisti. Cura una rubrica di musica e poesia sul sito altremusiche.it e scrive per varie riviste. Ha ottenuto un riconoscimento al Premio “Riccione per il teatro” (1981).

Riccardo Renzi “Studi e riflessioni sull’evoluzione del ceto nobiliare tra la fine del medioevo e la prima età moderna”, presentazione

La scelta di Don Chisciotte come immagine di copertina è legata proprio al personaggio che, meglio di ogni altro, rappresenta la crisi identitaria vissuta dalla nobiltà europea tra la fine del medioevo e i primi due secoli dell’età moderna.

La seguente trattazione intende analizzare i costumi, il modo di pensare e il modo di fare della classe nobiliare durante il periodo che va dai primi anni del Cinquecento agli ultimi del Seicento. Dunque, l’evoluzione della presente classe nel suo modo di pensare, di fare e nella relazione con le altre classi. La nobiltà europea subisce una miriade di sconvolgimenti, in questi duecento anni, dovuti all’accentramento del potere statale. Ci si focalizzerà sulla grande abilità di questa classe nel sapersi riadattare ai cambiamenti e agli sconvolgimenti sociali e statali dettati dai tempi.(da Primiceri Editore)

Dall‘Introduzione di Mirko Rizzotto

“Il presente studio di Riccardo Renzi cerca – e vi riesce in modo accattivante e magistrale – di fare luce sul periodo intercorso tra il ‘400 e la fine del ‘600, e sulle vicissitudini della classe nobiliare europea, dei suoi rapporti di forza (o di debolezza) nei confronti delle autorità statali e monarchiche”

Dalla Prefazione

“Partendo dagli ultimi decenni del medioevo, si cerca di illustrare come e quanto sia cambiato il potere effettivo esercitato dai nobili. Nel giro di duecento anni i nobili si vedono sottrarre la maggior parte dei loro poteri e privilegi. Si passa da una situazione di metà Quattrocento di caos totale, dove i nobili più ricchi erano in grado di armare eserciti paragonabili a quelli del re, ad una di fine Cinquecento, in cui lo stato stava accentrando sempre più i suoi poteri con una pesante mobilitazione di magistrati e di ispettori di giustizia, inviati dal potere centrale nei singoli casi locali. In meno di centocinquanta anni i potenti nobili feudali si trovano a dover far i conti con una drastica riduzione dei loro poteri. È proprio nella prima metà del Cinquecento che i sovrani europei, per ridimensionare il potere della grande nobiltà, cercano di avvicinarla all’ambiente di corte, allontanandola automaticamente dai propri domini. Primi tra tutti i principi rinascimentali italiani.

[…]

Dunque fu proprio in questo momento che la nobiltà si trovò ad affrontare un’ardua scelta, rimanere nei propri possedimenti sapendo di non avere più gli stessi poteri di un tempo, o andare a cercare fortuna a corte, cercando di ingraziarsi il volere del sovrano. L’ambiente di corte presenta due facce, da una parte offre divertimenti e attrattive culturali ai nobili che vi risiedono, dall’altra ogni momento della giornata è scandito da rigidi rituali, che servono a far risaltare la figura del monarca. La corte è ostile, piena di intrighi, cela sempre i reali sentimenti delle persone e qui vige solo il gioco delle marionette e degli specchi. Dunque da una parte offre grandi possibilità di carriera, ma dall’altra può rovinare un individuo con immensa facilità”.

Brevi note biografiche

Riccardo Renzi è nato a Fermo il 2 febbraio 1994. Ha conseguito la laurea triennale in Lettere classiche presso l’Università degli studi di Urbino e la magistrale in Ricerca storica presso l’Università di Macerata. Ha all’attivo numerose pubblicazioni. Per Primiceri Editore ha già pubblicato “Tito Livio, la fortuna del più grande storico romano“, Padova 2021, “Appiano Alessandrino: dall’età classica all’età contemporanea“, Padova 2021 e “Svetonio. Dall’età classica all’età moderna“, Padova 2022.(da Primiceri Editore)

Dello stesso autore su tuttatoscanalibri

“ἀλήθεια”

Cristina Cassar Scalia “Il Re del gelato”, presentazione

[…]

– Ispettore, me lo dice che successe, per cortesia? – Spanò sembrava un buon elemento, ma aveva il vizio di parlare assai.

– Ragione ha, dottoressa, mi scusi, – s’imbarazzò il poliziotto. – La volevo avvertire che mi chiamarono poco fa dalla gelateria di Agostino Lomonaco -. Si fermò un attimo. – Le conosce le gelaterie di Lomonaco, no? Il Re del gelato.

Vanina si sforzò di ricordare, ma no: Catania per lei era ancora un’incognita. – No, non le conosco.

– Non può essere! Manco una? – si stupì l’ispettore. La Guarrasi perse la pazienza.

– Spanò, la vogliamo finire? Mi dice che successe in questa gelateria? (Dal Catalogo Einaudi)

E la Scalia ritorna a raccontare di Vanina e sceglie di farlo a ritroso: è la vice questore Guarrasi prima di “Sabbia nera”, già a Catania da Milano da qualche mese, con gli scatoloni ancora ingombri e da sistemare, l’appartamento a Santo Stefano e la signora Bettina già dedita a riempire con deliziosi manicaretti i vuoti dei fornelli, con amicizie da consolidare e una squadra al lavoro ma ancora in rodaggio e le “catanesate” alla prima stesura.

Fine agosto, un caso, all’apparenza solo una “fesseria”: nel gelato di Agostino Lomonaco, non uno qualsiasi ma “il re del gelato”, il rinvenimento di alcune pasticche provoca la denuncia dei clienti per “avvelenamento”; quando la fesseria si trasformerà in omicidio ecco che per la vice questore aggiunto si aprono le indagini  rese più difficili dalle titubanze e dai tremori del pm dottor Vassalli.

Tra notti insonni, pasti saltati, piste non sempre chiare o addirittura fuorvianti, l’istinto, il buon lavoro di squadra e il metodo investigativo che scava nel passato delle vittime, porteranno la vice questore ad avere ragione di un caso delicato e ingarbugliato da vecchi rancori, rapporti filiali, traffico di droghe e debiti di gioco.

Della stessa autrice su tuttatoscanalibri:

Sabbia nera

La logica della Lampara

Il talento del cappellano

L’uomo del porto

La salita dei saponari

La carrozza della santa

Scalia, De Cataldo, De Giovanni, Tre passi per un delitto

Le stanze dello scirocco

La seconda estate

Hans Tuzzi “Curiosissimi fatti di cronaca criminale”, recensione di Salvina Pizzuoli

I miti ci parlano, e le fiabe, le loro semplici figlie andate fra gli umani per un mondo già vecchio, ma tanto più giovane del nostro, sono vivide gemme di un tesoro nascosto, stelle fiorite di un giardino incantato comune a tutta l’umanità, poesia potente che infonde vita alla parola facendone la radice originaria del mondo in cui ogni cosa trasuda storie e il nome è sortilegio. Le fiabe parlano al cuore, e il cuore è bambino.

Mi è sembrato di trovare in queste parole la chiave di  lettura di questo conte che si sa da subito, scorrendo semplicemente l’ elenco dei personaggi, tanti, che lo popoleranno, che non è solo un racconto “giallo” : quattro le morti efferate, in cui le date giocano un ruolo importante, giochi di corrispondenze che riportano ad altri avvenimenti, personaggi e luci e scale luminose, bambini, animali parlanti, ingredienti di una magnifica fiaba dentro la quale solo un cuore bambino può trovare la soluzione e salvare il mondo dall’ingiustizia di coloro che il cuore bambino lo hanno perduto.

Una fiaba, sì, un conte philosophique, compagine narrativa spesso utilizzata, che mi ha richiamato altre opere magistrali, in cui ho visto molte consonanze, soprattutto nella denuncia di un declino della società.

Una storia il cui contenuto non è da sintetizzare, ma gustare sì: citazioni, caratterizzazioni linguistiche, tra usi e costruzioni, richiami storici, ma soprattutto la forza della parola che narra, che sa ammaliare e coinvolgere, l’atmosfera che sa creare, come solo una pagina di letteratura può fare.

Eclettico Tuzzi, è riuscito ancora una volta a sorprendere!

Si apre in una fredda mattina del 21 gennaio del 1960 con la prima delle morti, incredibili e impressionanti proprio perché inspiegabili nella loro esecuzione e nei confronti del personaggio “Perché quel morto, oltre che assurdo, era stato importante, da vivo. E rischiava d’esserlo ancora di più ora che era morto”. E un simbolo siglato nel sangue “Sul battente di una porta erano raffigurate due serpentine parallele, separate da una fitta serie di tratti orizzontali, uno sopra l’altro, come tanti pioli”.

E ancora: una testa troncata di netto e niente sangue; e ancora, in una stanza chiusa dall’interno: il delitto, quello che ha tutte le caratteristiche del mistero, quello che mente umana non può concepire e risolvere

«La casa, chiusa dall’interno con la serratura di sicurezza, tant’è che si dovette entrare da una portafinestra dell’attico…»

«Aperta o chiusa?» abbaiò il Questore.

«Chiusa, i pompieri dovettero forzarla. La casa, dicevo, chiusa dall’interno, non presentava tracce di lotta o di sangue, il che, per  uno morto a quel modo…»

«Appunto, certo. Non c’era nemmeno sangue sui vestiti».

L’ambientazione storica è ricca della cronaca italiana di quegli anni, così come le asserzioni e le notazioni, spesso amare e presenti nel tessuto narrativo, che concludono le vicende.

L’unica era sperare nel lento bovino opaco oblio italico. Ma, per il momento…[…] e nessuno seppe interpretare in modo convincente quel simbolo misterioso: due serpentine parallele separate da una fitta serie di tratti orizzontali, uno sopra l’altro, come tanti pioli. Così misterioso che a oggi nessuno è riuscito a forzarlo.

Un messaggio ampio e articolato raggiunge il lettore: come in tutte le fiabe che si rispettino, non è mai unico o univoco ma si presta a più chiavi di lettura.

Dal Risvolto di copertina

“E forse alle galassie, nell’Italia di fine gennaio 1960, gli inquirenti dovrebbero guardare per risolvere un delitto inspiegabile, anzi:  impossibile. Al quale ne segue un altro, simile. Per entrambi, testimoni affermano di avere  visto in cielo strane luci. Mentre i giornali si buttano sul possibile avvistamento di «marziani», gli inquirenti devono attenersi alla realtà fattuale delle cose. E l’unica sgradevole ipotesi logica è il coinvolgimento di apparati dello Stato. Nel primo delitto, i Carabinieri. Nel secondo, la Polizia. Chiamati però alla massima collaborazione dai competenti Ministeri. Intanto il gatto Miao e l’uccellin Belverde rivelano al bimbo Agostino che, negli antichi giorni del mondo…”

“Tuzzi ci regala una storia vorticosa e onirica, esilarante e fiabesca, enciclopedica e grottesca, un avvincente insieme di toni e di stile ordito con l’autorevole maestria che lo ha reso uno tra gli scrittori, e i giallisti, più amati del nostro Paese”.(da Bollati Boringhieri)

La Quarta di copertina

su tuttatoscanalibri: Tutto Tuzzi

Lamberto Salucco “Prontuario semiserio di Digital Marketing”, presentazione

EDIDA

Dall’Introduzione

Anche questo volume, così come quelli dedicati a Microsoft Excel, è nato dalle mie lezioni.

Nel corso degli anni ho tenuto tantissime docenze, in buona parte incentrate sul Digital Marketing, la SEO, il Social Media Marketing, la comunicazione online etc. E in ogni singolo corso ho provato a trasmettere la mia idea di web non esclusivamente tecnica, la mia idea di marketing non esclusivamente finalizzata alle vendite e anche la mia idea di comunicazione non esclusivamente finalizzata al brand.

Sarà per il fatto che non sono un esperto di marketing uscito da Economia e Commercio (e nemmeno un informatico laureato in Ingegneria) ma in genere, quando leggo un manuale scritto da professionisti di un certo settore, mi soddisfa raramente.

Il problema non è praticamente mai la qualità di ciò che viene detto: è pieno di persone competenti e davvero preparate. No, il problema in genere è un altro: detesto il modo verticale in cui si affrontano determinate cose, come se bastasse approcciare un problema complesso in un singolo modo, tenendo conto solamente di un certo aspetto, facendo finta che tutto il resto del mondo non esista, con le formulette magiche.

Le persone che affrontano il marketing digitale sono spesso classificabili in due diverse famiglie. Ci sono quelli bravi negli analytics, che conoscono alla perfezione software magari molto complessi e che passano le giornate fra grafici e tool che fanno sembrare il loro computer un’astronave. E poi c’è la seconda tipologia dove troviamo il classico studioso in parte allergico alla tecnologia, un po’ ancorato al passato e senza grandissime nozioni di come funzioni un server o di cosa sia un protocollo di rete.

Fondamentalmente è la storia della mia vita: troppo “liceo classico” per essere un informatico, troppo tecnico per essere un letterato. E probabilmente proprio questa è stata la mia fortuna. Un approccio un po’ diverso ai problemi relativi al mondo digitale, un modo di pensare che dava soluzioni diverse rispetto a quelle che si aspettava il cliente. In questo prontuario voglio provare a riunire le cose che secondo me sono importanti, quelle che davvero devi conoscere sul Digital Marketing. […]

Dello stesso autore su tuttatoscanalibri

Manabile semiserio di Excel Prima parte per principianti

Manabile semiserio di Excel (Seconda parte)

Strade scomparse di Firenze

Antonio (Nino) Zorco “Ma io in guerra non ci volevo andare”

Fiume-Mülhdorf/Dachau e ritorno (1944-1954)

Introduzione e cura di Diego Zandel. Postfazione di  Roberto Spazzali
pagine 122 prezzo 16 euro

Oltre Edizioni

Antonio Zorco, detto Nino, è l’autore di questo libro di memorie centrate soprattutto sul suo arresto, nell’agosto del 1944, da parte dei tedeschi, sulla sua detenzione ai lavori forzati nel campo di concentramento di Mühldorf dal 9 settembre 1944 al 4 agosto 1945 e sull’immediato dopoguerra, quando, tornato a Fiume, la sua città natale, la trova occupata dalle forze jugoslave e vede i suoi vecchi amici d’infanzia un po’ alla volta andarsene in esilio, chi clandestinamente – come farà una delle sue due sorelle non appena sposata con uno dei suoi migliori amici – chi legalmente, dopo essersi visti espropriare tutti i beni dal potere comunista, chi suicidandosi.

Anni che risultano fondamentali per capire, attraverso le drammatiche vicende personali di un tranquillo uomo qualunque, cosa è successo a Fiume, e nella Venezia Giulia in generale, negli anni della guerra in seguito all’occupazione prima tedesca e poi jugoslava. Quel progressivo sentirsi stranieri in casa propria dove, nel giro di pochi mesi, a prendere il sopravvento in città in maniera del tutto inarrestabile, agli ordini di Belgrado, è altra gente, un’altra lingua e cultura, altri costumi, dando così avvio a un processo di cambiamento radicale dell’humus secolare proprio delle terre istriane e della città di Fiume, da far sentire estranei in casa propria i pochi italiani a cui è capitato di restare.
L’introduzione al libro di Diego Zandel, nipote dell’autore, e la postfazione dello storico Roberto Spazzali, aiutano a contestualizzare le drammatiche vicende personali qui narrate nel quadro famigliare da una parte e storico dall’altra di cui Antonio Zorco è stato, suo malgrado, uno delle migliaia e migliaia di protagonisti.

Antonio Zorco, detto Nino, era nato a Fiume nel 1925 da genitori istriani di Visignano d’Istria. Renitente a qualsiasi leva,  nel 1944 venne arrestato dai tedeschi e costretto, come civile, a entrare nell’organizzazione di lavori forzati Todt in Germania, nel campo di concentramento di Muhldorf, dove restò fino alla fine della guerra e da dove tornò con mezzi di fortuna e malato in Italia, nell’agosto del 1945. L’occupazione di Fiume da parte delle truppe titine ritardò il suo ritorno a casa. Quando gli fu possibile, scoprì la città svuotata di amici e parenti, di tanti fiumani, e abitata da gente proveniente dalle più diverse parti della ex Jugoslavia, condizione che lo fece sentire – come ha scritto nel suo diario – “uno straniero a casa propria”. Due volte fece richiesta alle autorità jugoslave di andare in Italia: gli vennero negate. Lavorò per tutta la vita come tecnico nella raffineria di Fiume, dove morì nel 2003.

Roberto Ochi “Raccontami una storia”, presentazione

Raccontami una storia è imparare a credere, come da bambini sapevamo fare. È ricordarsi. È imparare ad ascoltare, a fare attenzione. È imparare a guardarsi allo specchio, a sorridersi, a piacersi. È imparare a scrivere la propria storia, rileggendola ogni sera, innamorandosi di essa per sempre. (la sinossi da BRÈ Edizioni)

Ho pubblicato la mia prima raccolta di poesie dal titolo “Raccontami una storia” anche se a me piace molto di più chiamarle storie brevi.

“Raccontami una storia” è la riposta ad una domanda: chi sono io?

Era il 2013, primavera, e io mi ero perso. Ero come un “risvegliato” che si trova di traverso in autostrada. È in confusione, non sa dove sta andando e non sa bene chi è. Si rende solo conto che lì non può restare e che deve spostarsi in fretta per salvarsi.

Era il 2013, primavera, e io fortunatamente non ero distante dal casello. Sono uscito da quell’autostrada e mi sono ricordato dello scrivere.

Lo scrivere mi ha salvato. Mi ha donato la capacità di disegnare la mia autostrada fatta di domande, elenchi, verbi.

“Raccontami una storia” sono io che imparo a raccontarmi bene, a vedermi bene, a non litigare con lo specchio, e infine, a piacermi.

“Raccontami una storia” sono io che rileggendomi mi perdono, lascio andare e mi innamoro di tutte le mie storie.

Roberto Ochi

La raccolta è suddivisa in tre sezioni di trentatré poesie ciascuna, “per immaginare e sentire”: Brevi Storie, Storie Note, Storie Amare.

La raccolta si apre con

Chi sono io?

Io sono il figlio di un tempo breve. Sono il punto

interrogativo. Sono l’ascolto, l’attenzione. Io sono

la consapevolezza.

Io sono il dire grazie e il chiedere scusa. Io sono

la gentilezza.

Io sono il silenzio al cospetto di nostra Madre

Natura. Io sono l’acqua e la terra.

Io sono l’abbraccio e il sorriso, la bellezza che

servo ai miei occhi. Io sono la compassione.

Io sono ciò che ricordo, ciò che resta, tutto ciò

che non ho perso. Io sono lo scrivere.

Io sono tutte le mie storie

Spigolando

Il sapere della lentezza

Dove corri mondo?

Ed è vero che bisogna correre?

Sedotto dal vento

Ho assaggiato la velocità

Il cambiamento sempre

Ma tutto questo

Sa di una menzogna

Che divora tante cose

Io voglio credere nella lentezza

Nel sapere delle piccole cose

Io voglio danzare

In un tempo lento

Attento

L’inizio di una bella storia

Quale è il tuo giorno preferito?

Il lunedì

Perché si ricomincia

È sempre un nuovo inizio

la Quarta di copertina

Brevi note biografiche

Roberto Ochi è nato a Parma il 25 Aprile 1982. Prima di arrivare a scrivere Raccontami una storia è andato nella direzione opposta. È divenuto ragioniere e si è laureato in economia. Ha consegnato fiori e ha danzato. Lavora presso un istituto di credito e pratica Yoga il lunedì. Tutto questo per arrivare fino a qui.

Un secolo di Proust (per tacer degli altri)

di Alberto Genovese

 Anno straordinario il 1922 per le sorti della letteratura. James Joyce pubblica (a febbraio) Ulisse e Thomas Stearn Eliot (a ottobre) La terra desolata. Proust termina la stesura della Recherche e muore (il 18 novembre) dopo aver completato la correzione della Prigioniera, che uscirà postuma insieme agli ultimi due volumi (La fuggitiva e Il tempo ritrovato) fra il 1923 e il 1927.

    Questa triade di scrittori è accomunata (se non si vuol credere, e non lo si deve, a una astruseria di calendario) dalla cesura senza ritorno dall’Epoca Bella, il cui tramonto venne segretamente profetizzato dal naufragio del Titanic, teorizzato da Spengler (il suo Untergang des Abendlandes furivisto sempre in quell’annus mirabilis che fu il 1922), concretato da un colpo di pistola a Sarajevo, seguito da un quinquennio di sinistro tuono di cannoni. Scriverà Churchill nel 1921: «Il vecchio mondo, nell’ora del suo tramonto era bello a vedersi». 

    Dopo il sanguinoso letargo della civiltà nelle trincee del primo conflitto mondiale, nulla poteva essere più come prima nella coscienza ferita degli uomini, e nell’arte, che sommamente la rappresenta. Quel 1922 non fu dunque l’editto di un dio bizzarro. Sarebbe andato bene anche qualche anno prima (Ezra Pound, con i suoi Poems del 1921) o qualche anno dopo (nel 1924 esce Der Zauberberg di Thomas Mann). Il 1922 è il segnacolo, nel mondo della letteratura, dell’avvento di un’altra epoca e di altri libri, libri che discesero come un Orfeo, dopo l’ennesimo scacco della ragione, nell’inferno della storia dell’uomo per portare alla luce il senso del suo esservi, il miracolo doloroso della sua autocoscienza. Quella lira ebbe molti e diversi toni, ma tutti, allora, nel 1922 e dintorni, cantarono la cosmogonia del Tempo.

    Secondo un collaudato canone commerciale, si preferisce celebrare non l’apparizione di un’opera (che a ben vedere può essere incerta o discussa) ma il dì natale, o quello estremo, di un autore. Quindi nel novembre del 2022 è caduto l’anniversario della morte di Proust. Un secolo, ma la Recherche (per eponimia con il suo autore) non li dimostra. Si staglia come una fortezza inviolata dai molti, circondata dalle possenti mura delle sue quattromila pagine. Chi può dire di averla letta per intero? Ben pochi. E questo è un bene? In un certo senso sì, perché ne ha evitato la banalizzazione, il vile commercio nei conciliabili intellettuali, l’esausta reiterazione delle traduzioni; e per contro ha alimentato il rispetto che incute il lavoro immenso toccato per destino a un solo uomo, la stupita ammirazione di quello che lo spirito umano può in un corpo già fiaccato, che scrive, in lunghe notti insonni, “al raggio crepitante di una luce fulva”, un romanzo “che metterà a soqquadro i destini della letteratura”). Infine, la conferma dell’aura di sacralità di ogni libro. Perché questo è sicuro: la Recherche è la bibbia del romanzo del Novecento, i Veda della nostra letteratura. Passando dinanzi alla Recherche, questo “mausoleo di incomparabile fasto, edificato per sorvegliare la scienza delle sensazioni e degli attimi”, è come se ci si segnasse laicamente, ed è inevitabile che il pensiero corra ad essa, quasi inciampandovi, per un riflesso che suscitano le opere possenti, per comparare qualità e grandezza, se ve ne sono, di ciò che è venuto dopo. La Recheche è percolata nella nostra cultura, si è persino incistata nei modi di dire («Ah sì, il passato, certo mia cara, cosa vuoi, vado alla ricerca del tempo perduto…», dice all’amica l’iconica casalinga di Voghera). E in questo senso si può dire che sì, tutti abbiamo letto la Recherche, anche quelli di noi che non hanno nemmeno iniziato o portato a termine l’impresa, o che ne hanno una sommaria conoscenza. I grandi libri ci fanno coscienti delle domande che ci abitavano, senza che ne avessimo coscienza, già prima del loro apparire; e dopo essere stati pubblicati, avendo dato parola a quelle domande, noi ne reclamiamo l’uso comune, perché la materia da cui l’autore li ha tratti, con arte e con fatica, essendogli preesistente, appartiene a tutti. Non c’è usucapione nella cultura.

    Fra i non molti libri che commemorano questo primo scorcio dell’anno proustiano (che per burocrazia del calendario dovrebbe terminare nel novembre del 2023) mi piace segnalare A Parigi con Marcel Proust. Le stagioni della memoria, di Luigi La Rosa (Giulio Perrone, Roma, 2022, pp. 138, euro 17). Il libro fa parte di una intelligente e nutrita collana – “Passaggi di dogana”- nella quale importanti scrittori, personaggi o artisti vengono raccontati nelle città e nei paesi dove il loro talento ha trovato dimora. Non il genio del luogo ma il luogo del genio. L’autore, siciliano, che si è già cimentato con il genere biografico (l’impressionista Caillebotte e Vincenzo Bellini i suoi recenti soggetti) vive da molti anni a Parigi. Avendo curato per il Touring Club la guida dei luoghi letterari della Ville Lumière ha avuto agio di raccontare la città dove Proust, salvo alcune brevi parentesi, trascorse l’intera sua esistenza. Il pregio del libro consiste nell’originalità della composizione narrativa e nella qualità della scrittura – apollinea e dolente, lirica e tersa. Interpretando con coerenza lo spirito della collana, La Rosa (certo avvalendosi della nota biografia di Painter, a cui salda il debito nella succinta bibliografia) organizza il tour proustiano in cinque tappe, cinque capitoli che portano il titolo delle case in cui visse Proust. E tuttavia en arrière, a ritroso, dall’ultima (44 rue Hamelin, dove visse per pochi mesi e dove morì; “Proust giunge qui sofferente e ammalato – d’ossessione, d’amore, di nostalgia indicibile…”) sino alla prima, quella sita al numero 9 di boulevard Malesherbes, dove trascorse l’infanzia e la prima giovinezza. Fra questi due poli di case (e capitoli del libro) se ne situano altre tre. Quella al numero 45 di Rue de Courcelles, abitata dalla famiglia dal 1900 al 1906, quando il “mago dei ricordi” frequenta la buona società. “Sono anni di scoperta, di fame di vita, che…Proust attraversa animato da una specie di ebbrezza”. In questa abitazione signorile – l’apogeo dei Proust – la morte stende “la tenebra che sta per divorare le molte stanze” della famiglia fra il 1903 e il 1905 (a quegli anni risalgono rispettivamente le morti del padre e della madre). La Recherche nasce in una nuova magione, al civico 102 di boulevard Haussmann. Assediato dai rumori, Proust decide di far tappezzare di sughero le pareti che si affacciano sul viale: il topos più noto della sua vita. Afflitto dall’asma e dall’ipocondria, trova nella scrittura un tormentato sollievo. “Solo dalle righe che gravano come ragnatele sui fogli può sperare salvezza…Tutto gli si chiude intorno come un sarcofago”. Scrive senza risparmiarsi e certo non giova alla sua salute psichica e mentale la necessità di un nuovo trasloco, anzi due. Dopo una parentesi di pochi mesi in rue Laurent-Pichat, trova casa al 44 di rue Hamelin.  È l’ultimo atto della vita dello scrittore, che nel libro di Luigi La Rosa viene situato come primo capitolo. Vegliato dalla governante Céleste, riluttante a seguire gli amorevoli consigli del fratello minore, medico come l’augusto padre, Proust muore fra le cinque e le sei del pomeriggio di sabato 18 novembre del 1922.

    Dicevamo dell’originalità di questo libro, che non si propone come una biografia (e come potrebbe, dopo Painter e Tadié, e in sole 130 pagine?)  ma piuttosto come suggestione dei luoghi e delle memorie che questi custodiscono, fatte vive nelle pagine da una scrittura dall’andamento poetico, con il frequente ricorso a metafore di un certo incanto e a un periodare terso, mai banale. L’invenzione del libro è in quello che viene preannunciato dall’incipit (“Certi libri nascono da una ferita, e sanguinano il loro inchiostro loquace fino all’ultima goccia…anche questo è in qualche misura frutto di un dolore, che collima con i toni tenui dell’alba”), e che si capirà poco dopo.  Mentre percorre Parigi alla ricerca delle dimore proustiane per evocarne l’epopea, La Rosa narra a sua volta la propria personale vicenda amorosa: dell’abbandono di Enrico (“…è andato via… ho finto di dormire mentre forzava gli indumenti nella valigia…Non lo chiamerò… mi rimarrà solo… un numero che non sarà mai in grado di cancellare dalla rubrica del telefono… Solo quando mi trovo davanti all’edificio in cui il grande scrittore francese chiudeva la sua esistenza, comprendo che un senso deve pur esserci. Queste pagine sono il tentativo di trovarlo.”), sino all’imprevisto apparire di un Nicolas che preannuncia una nuova stagione di vita.  Nel libro si alternano gemellarità amorose, brani di vicende parallele, ricerca e fuga. “…chi è stato Marcel Proust?”, si chiede e ci chiede infine Luigi La Rosa. “Chi si nasconde dietro quello sguardo sospeso? L’opera è forse una delle maniere per raggiungerlo – e ritrovarlo. A voi stabilire se ve ne siano altre”.

    Non v’è risposta a simili enigmi che non susciti ulteriori domande.


Le frasi riportate “fra virgolette” sono tratte dal libro di Luigi La Rosa

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