Herbert Clyde Lewis “Gentiluomo in mare”, recensione di Salvina Pizzuoli

Il romanzo riscoperto

[…] Standish era austero di natura. L’educazione gli aveva sbiadito i colori , rendendolo scialbo come una tela grigia. Faceva tutte le cose giuste, ma senza entusiasmo. […] beveva con moderazione, fumava con moderazione e faceva l’amore con sua moglie con moderazione; a dirla tutta, Standish era una degli uomini più noiosi al mondo

Un romanzo breve, pubblicato per la prima volta nel 1937, dimenticato e riscoperto, arrivato fino a noi solo recentemente come racconta Marco Rossari, traduttore e curatore, nella sua interessante postfazione: riscoperto solo nel 2010, a ben sessant’anni dalla scomparsa in giovane età del suo autore, fu infatti ripubblicato in Argentina e da allora il successo non è mancato, quasi a ripagare una vita piena di contrattempi, di scelte poco felici, di debiti e miserie subite dallo scrittore di origini ebraiche, nato a Brooklyn nel 1909, da immigrati ebrei fuggiti in tenera età dalla Russia negli Stati Uniti

“Quando Henry Preston Standish precipitò a capofitto nell’Oceano Pacifico, il sole stava sorgendo all’orizzonte. Il mare era piatto come una laguna, il clima così mite e la brezza così soave che era impossibile non sentirsi pervasi da una sublime mestizia”

Così l’incipit dove il lirismo del paesaggio naturale è estraneo e insensibile alla tragedia umana.

Caduto accidentalmente nell’Oceano durante un viaggio sul piroscafo Arabelle, in transito da Honolulu a Panama, senza la famiglia perché “spinto da una vaga irrequietezza”, il nostro benestante protagonista Standish, trentacinquenne agente di Borsa di New York, mantiene un incredibile sangue freddo, preoccupato di tenere un comportamento adeguato anche nell’increscioso frangente, cruccio che gli ha impedito di urlare per chiedere aiuto, quando lo farà sarà davvero troppo tardi e, nonostante tutto, restare generalmente fiducioso sulla possibilità di essere salvato dall’imbarcazione tornata a ripescarlo. Nelle lunghe ore di attesa, puntino nella vastità dell’Oceano, scorre ricordi, possibilità e aspetti legati al possibile salvataggio, con un senso quasi di vergogna e per essere caduto, anzi scivolato, come uno qualsiasi, senza creanza e per l’inadeguatezza del suo vestiario, vittima del proprio modello di comportamento! Quando stanco e sfibrato anche la fiducia pare abbandonarlo i suoi pensieri convoglieranno sul senso dell’esistenza: “che la vita era preziosa, che tutto il resto -amore, soldi, successo- era una menzogna rispetto al semplice benessere di non morire”

Il romanzo racconta un’esperienza carica di tensione, ciò nonostante la vicenda, così come viene narrata, non può definirsi angosciante perché Lewis sa ben dosarla con una prosa estremamente lineare ed essenziale, con ironia sottile per l’ossessiva ostinazione con cui il personaggio Henry Preston Standish risponde alla circostanza facendo prevalere pensieri e comportamenti da gentiluomo: “il decoro di un uomo era importante tanto quanto la sua vita”. Notevole anche un altro accorgimento narrativo utilizzato dallo scrittore: l’alternare proficuamente la situazione dell’uomo in mare e quella sull’Arabelle; i pochi passeggeri, nove in tutto, alcuni per una serie di malaugurate coincidenze, altri per noncuranza non si accorgono subito della sua mancanza a bordo; l’alternanza della narrazione tra Standish in mare e i passeggeri sull’Arabelle crea uno efficace contrasto tra le due realtà, tra chi è al sicuro e chi è in pericolo di vita, tra chi propende per una scelta suicida e chi attende la salvezza.

“E su quello che in fondo è solo uno scivolone, Lewis costruisce – con un senso dell’equilibrio che ha del miracoloso – un apologo beffardo e una novella perfetta”.( da Adelphi Edizioni)

Hans Tuzzi “Curiosissimi fatti di cronaca criminale”, recensione di Salvina Pizzuoli

I miti ci parlano, e le fiabe, le loro semplici figlie andate fra gli umani per un mondo già vecchio, ma tanto più giovane del nostro, sono vivide gemme di un tesoro nascosto, stelle fiorite di un giardino incantato comune a tutta l’umanità, poesia potente che infonde vita alla parola facendone la radice originaria del mondo in cui ogni cosa trasuda storie e il nome è sortilegio. Le fiabe parlano al cuore, e il cuore è bambino.

Mi è sembrato di trovare in queste parole la chiave di  lettura di questo conte che si sa da subito, scorrendo semplicemente l’ elenco dei personaggi, tanti, che lo popoleranno, che non è solo un racconto “giallo” : quattro le morti efferate, in cui le date giocano un ruolo importante, giochi di corrispondenze che riportano ad altri avvenimenti, personaggi e luci e scale luminose, bambini, animali parlanti, ingredienti di una magnifica fiaba dentro la quale solo un cuore bambino può trovare la soluzione e salvare il mondo dall’ingiustizia di coloro che il cuore bambino lo hanno perduto.

Una fiaba, sì, un conte philosophique, compagine narrativa spesso utilizzata, che mi ha richiamato altre opere magistrali, in cui ho visto molte consonanze, soprattutto nella denuncia di un declino della società.

Una storia il cui contenuto non è da sintetizzare, ma gustare sì: citazioni, caratterizzazioni linguistiche, tra usi e costruzioni, richiami storici, ma soprattutto la forza della parola che narra, che sa ammaliare e coinvolgere, l’atmosfera che sa creare, come solo una pagina di letteratura può fare.

Eclettico Tuzzi, è riuscito ancora una volta a sorprendere!

Si apre in una fredda mattina del 21 gennaio del 1960 con la prima delle morti, incredibili e impressionanti proprio perché inspiegabili nella loro esecuzione e nei confronti del personaggio “Perché quel morto, oltre che assurdo, era stato importante, da vivo. E rischiava d’esserlo ancora di più ora che era morto”. E un simbolo siglato nel sangue “Sul battente di una porta erano raffigurate due serpentine parallele, separate da una fitta serie di tratti orizzontali, uno sopra l’altro, come tanti pioli”.

E ancora: una testa troncata di netto e niente sangue; e ancora, in una stanza chiusa dall’interno: il delitto, quello che ha tutte le caratteristiche del mistero, quello che mente umana non può concepire e risolvere

«La casa, chiusa dall’interno con la serratura di sicurezza, tant’è che si dovette entrare da una portafinestra dell’attico…»

«Aperta o chiusa?» abbaiò il Questore.

«Chiusa, i pompieri dovettero forzarla. La casa, dicevo, chiusa dall’interno, non presentava tracce di lotta o di sangue, il che, per  uno morto a quel modo…»

«Appunto, certo. Non c’era nemmeno sangue sui vestiti».

L’ambientazione storica è ricca della cronaca italiana di quegli anni, così come le asserzioni e le notazioni, spesso amare e presenti nel tessuto narrativo, che concludono le vicende.

L’unica era sperare nel lento bovino opaco oblio italico. Ma, per il momento…[…] e nessuno seppe interpretare in modo convincente quel simbolo misterioso: due serpentine parallele separate da una fitta serie di tratti orizzontali, uno sopra l’altro, come tanti pioli. Così misterioso che a oggi nessuno è riuscito a forzarlo.

Un messaggio ampio e articolato raggiunge il lettore: come in tutte le fiabe che si rispettino, non è mai unico o univoco ma si presta a più chiavi di lettura.

Dal Risvolto di copertina

“E forse alle galassie, nell’Italia di fine gennaio 1960, gli inquirenti dovrebbero guardare per risolvere un delitto inspiegabile, anzi:  impossibile. Al quale ne segue un altro, simile. Per entrambi, testimoni affermano di avere  visto in cielo strane luci. Mentre i giornali si buttano sul possibile avvistamento di «marziani», gli inquirenti devono attenersi alla realtà fattuale delle cose. E l’unica sgradevole ipotesi logica è il coinvolgimento di apparati dello Stato. Nel primo delitto, i Carabinieri. Nel secondo, la Polizia. Chiamati però alla massima collaborazione dai competenti Ministeri. Intanto il gatto Miao e l’uccellin Belverde rivelano al bimbo Agostino che, negli antichi giorni del mondo…”

“Tuzzi ci regala una storia vorticosa e onirica, esilarante e fiabesca, enciclopedica e grottesca, un avvincente insieme di toni e di stile ordito con l’autorevole maestria che lo ha reso uno tra gli scrittori, e i giallisti, più amati del nostro Paese”.(da Bollati Boringhieri)

La Quarta di copertina

su tuttatoscanalibri: Tutto Tuzzi

Alberto Genovese “L’alternativa del cavaliere”, recensione di Salvina Pizzuoli

Prefazione di Hans Tuzzi

Un racconto originale, gradevole, raffinato, denso di considerazioni, che prende le mosse da un modo di dire, un’affermazione in dialetto siciliano di cui poi indaga le origini e le possibili ragioni, tra divagazioni e sottigliezze frutto di una ponderata conoscenza e riflessione sulla lingua e soprattutto sul dialetto “ricchezza del nostro passato, nascosto come polvere sotto il tappeto”, “tesoro di saggezza e fantasia”.

 Ma cos’è una lingua?

“La lingua è il ritratto di un popolo dipinto con il pennello delle parole”

Così viene compiutamente definita in questo racconto-saggio, stimolante e stuzzicante, che scorre e piacevolmente mi cattura in questo viaggio nelle mie radici.

Tra digressioni linguistiche dialettali, perché si sa “non è dei meridionali andare in medias res”, in una forma narrativa che utilizza e finge una risposta epistolare, la spiegazione di un detto che affonda le sue origini nel contesto storico della Sicilia di fine Ottocento. Il professor Henner Gut, docente di Filologia Romanza ad Heidelberg, indirizza ad uno studioso di tradizioni popolari in Sicilia un quesito relativo ad un modo dire di cui si è persa traccia scritta. Lo studioso risponderà in modo ampio e articolato relativamente ad una tradizione orale che si ambienta tra le antiche mura di un “baglio”, la fattoria fortificata che occupava un lato dell’ampio possedimento fondiario; protagonisti un maturo “cavaliere” ovvero il padrone del latifondo cosiddetto dai sottoposti in senso di rispetto, e Crocifissa, la serva tuttofare, la coetanea che ne asseconda dall’età adolescenziale i desideri sessuali, protetti nella parola convenuta di “nostalgia” pensata dal cavaliere: un legame affettivo tratteggiato in modo delicato e sapiente, rappresentando a pieno il vero rapporto che intercorre tra i due protagonisti. Ma non è qui la chiave per comprendere il valore del detto, ma nella consuetudine del cavaliere di giacere con una giovane illibata, in cambio di un compenso ai parenti, per il piacere del “primo sangue”. Proprio da questo incontro sarebbe nato il detto, determinato dall’umiliante, per il cavaliere, disarmonia di coppia, fisicamente male assortita: o futtiri o vasari.

Di tutto il raccontato il vero fulcro è la lingua: essa è testimonianza che conserva nei modi di dire e di chiamare un patrimonio di tradizioni e il pensiero di un popolo, come dimostrano per altro le altre esemplificazioni presenti come digressioni e, nel caso specifico, o futtiri o vasari contiene  “un ammonimento lapidario e triste […] Apologo, in fondo, della condizione umana, la cui cifra è la pena e la saggezza dell’incompletezza”.

Così la chiusa suggella il contenuto e il suo messaggio.

 

La Quarta di copertina e brevi note biografiche da Manni Editori

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Omaggio a Hans Tuzzi e l’ultimo Melis: Ma cos’è questo nulla?

Ottavia Niccoli “Nel campo degli zingari”, recensione di Salvina Pizzuoli

Vallecchi Firenze

Aprile 1593: cinque mesi dopo gli avvenimenti narrati in “Morte al filatoio”, il protagonista è ancora don Tomasso, secondogenito di una famiglia nobile e prete investigatore, con Gian Andrea , il toso “che solo pochi mesi prima era venuto dalla strada a partecipare alla sua vita”, insieme ad altri personaggi già incontrati e che il lettore ritroverà nuovamente nelle prime pagine che si aprono con l’”umor saturnino” del protagonista; tra questi Sabatina che gestisce da trent’anni insieme a lui le incombenze dell’ospizio che accoglie i pellegrini di passaggio, capace anche di curare gli eventuali malati, come capitava in quegli anni di crisi tra chi, in cerca di lavoro, si spostava di città in città. ma anche vagabondi e ladruncoli che si barcamenavano per sopravvivere.

E la trama si arricchisce di personaggi nuovi e nuovi protagonisti legati alla famiglia d’origine di don Tomasso con cui da tempo aveva rotto i legami. È proprio il conte Ercole che, su consiglio di Sabatina, chiederà a don Tomasso di amministrare come legista il piccolo feudo di Cerreto nell’Appennino bolognese ai confini con il modenese dove si sono verificati degli omicidi e dove potrebbero essercene ancora a causa della presenza di un gruppo di zingari, ma con la segreta convinzione che possa giovare alla sua salute un soggiorno lontano dalla città.

Ed è proprio nel piccolo feudo che il nostro sacerdote si troverà, alle prese con due delitti, in uno ancor prima di arrivare, ruberie e attentati su cui fare luce. Una matassa ingarbugliata della quale il nostro valente investigatore saprà trovare il bandolo. Ma il lettore sarà catturato non solo dalla figura di don Tomasso e dei suoi collaboratori, ma dagli usi, l’abbigliamento, le feste, le abitudini, i medicamenti di un tempo così lontano ma a cui partecipa trascorrendoci e seguendo i protagonisti nelle loro giornate: scopre così le convinzioni mediche del tempo, come ad esempio i quattro umori del corpo umano, e l’uso dell’iperico per curare l’umor nero oppure le ferite con il bianco d’uovo, e non solo, anche regole, come la certificazione che accompagnava il viaggiatore a comprovare che il luogo di provenienza era immune dalla peste… qualcosa che ci ricorda tempi presenti anche se afflitti da altre pesti! Oppure la festa dei maggi ovvero l’usanza tra la notte del 30 aprile e il 1 maggio di “rizzare pali o giovani alberi sradicati ai quali attaccare fiori e doni per le ragazze”, giusto per citarne alcune spigolando nel testo.

E poi c’è la giustizia e coloro che l’amministrano e coloro come don Tomasso, doctor utriusque iuris, dottore in diritto sia civile che canonico, che si adopera perché essa sebbene amministrata dal potere pubblico, “dai padroni, come si diceva a Bologna”, assomigliasse anche in modo pallido a quella di cui lo stesso don Tomasso aveva definito per Gian Andrea le caratteristiche:

“La Giustizia è una virtù che consiste nel volere fermamente dare a ciascuno ciò che gli è dovuto e nell’agire di conseguenza”

Una definizione che calza a pennello ancora oggi ma che ancora oggi assomiglia pallidamente a quella virtù così semplicemente delineata per un monello di strada.

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“Morte al filatoio”

Hans Tuzzi intervista Ottavia Niccoli

Hermann Hesse “Il canto degli alberi”, recensione di Salvina Pizzuoli

Il testo raccoglie scritti in prosa, versi, racconti in date e periodi diversi con un unico denominatore: gli alberi e la natura in genere.

Titolo originale è Bäume, ovvero Albero.

Gli alberi hanno infatti una loro preminenza nei testi soprattutto nelle pagine in prosa, perché l’autore ha una particolare predilezione per molte specie arboree, li considera infatti “santuari. Chi sa parlare con loro – scrive – chi li sa ascoltare, conosce la verità. Essi non predicano dottrine e precetti, predicano, incuranti del singolo, la legge primigenia della vita” ( tratto da Alberi, il testo che apre la raccolta e che porta la data 1919).

Paesaggi, ricordi, emozioni, ma soprattutto pensieri e riflessioni che lo scrittore presenta in forma di prosa o di poesia percorrono nel tempo i momenti che legano periodi della vita con spettacoli naturali.

Oltre ad essere santuari gli alberi sono amici: ci si rammarica infatti per l’amico abbattuto dal vento, si gioisce per i suoi nuovi germogli, si apprezza la sua forza e la sua resistenza di fronte alle intemperie, si impara o li si vorrebbe imitare nel loro distacco dalla vita e accogliere i consigli che potrebbe dare alleviando i periodi bui.

Il raccordo tra vita dell’uomo e gli alberi in particolare permea tutti gli scritti siano essi in prosa o in poesia.

Colpiscono alcune riflessioni legate alla memoria dei paesaggi “vissuti” per alcuni periodi e che senza alberi sarebbero mutili e non sarebbe possibile ricordarli, collocarli precisamente : “Come resterà più tardi nella mia memoria il paese in cui vivo ora, non lo so, ma non riesco a immaginarmelo senza pioppi, così come non riesco a immaginarmi il Lago di Garda senza ulivi e la Toscana senza cipressi”.

Non mancano i paragoni tra i due cammini, quello dell’uomo e quello della natura: paragoni come nella poesia Quercia spezzata

Mille volte hai sopportato/Finché furono in te tenacia e volontà!/Io ti somiglio, con le mie ferite,

[…]

Paziente metto nuove foglie/Sul ramo spezzato mille volte,/ E a dispetto del dolore resto/ Innamorato in questo pazzo mondo.

E ancora in:

Foglie appassite

Ogni pianta aspira al frutto,/Ogni alba si fa sera,/Nulla dura sulla terra/Tutto muta e fugge via.

Per concludere:

Gioca la tua partita, non fare resistenza,/Lascia che tutto segretamente accada./Lascia che il vento ti porti via/E verso casa ti trascini.

Come tutti gli scritti che riportano emozioni, vanno letti e scoperti un po’ alla volta, anche in momenti diversi.

Ringrazio Luisa, la mia cara amica, di avermi inviato il link al video dove viene drammatizzato il testo Alberi, lettura che mi ha spinto a conoscere tutta la raccolta e a provare a palesarne i messaggi emozionali e permesso indirettamente di cogliere altre sfaccettature dell’autore.

Da Guanda Libri:

[…] Faggi, castagni, peschi, betulle, tigli, querce e molti altri, nella magnificenza della fioritura o con i rami nodosi offerti alle brinate notturne, illuminati dal sole o al chiarore della luna: sono loro i protagonisti indiscussi di questa raccolta. Essi accompagnano lo scrittore, silenziosi e saggi, nel corso della sua vita, segnano momenti precisi, suscitano riflessioni e ricordi, vengono invocati come esseri viventi, come amici.

e anche

Brevi note biografiche

Hermann Hesse nacque nel 1877 a Calw, nel Württemberg. Dopo studi in seminario, presto abbandonati, si dedicò alle più svariate attività. A rivelarlo al grosso pubblico fu, nel 1904, il romanzo Peter Camenzind. Viaggiò in India e si stabilì in Svizzera, dove scrisse negli anni ’20 le sue opere più importanti come Siddharta e Il lupo della steppa. Vinse il premio Nobel nel 1946 e morì a Montagnola (Svizzera) nel 1962. (da Guanda Autori)

Cristina Cassar Scalia “Sabbia nera”, recensione di Salvina Pizzuoli

Testarda, scontrosa, tormentata dalla morte del padre e dalla fine di una relazione difficile; appassionata di vecchi film e amante della buona tavola: il vicequestore Vanina Guarrasi è semplicemente formidabile.

Romanzo vincitore del Premio Sciascia Racalmare 2019 (dal Catalogo Einaudi)

Giovanna Guarrasi, detta Vanina, vicequestore alla Mobile di Catania, fa il suo esordio nel 2018 in Sabbia nera di Cristina Cassar Scalia. E da allora un seguito di casi e di indagini: mi è piaciuto allora incontrarla a ritroso tra le pagine di questo ponderoso poliziesco, così come si è presentata ai lettori per la prima volta, dentro un caso anche stavolta complesso con l’aggravante di essersi svolto ben cinquant’anni prima. Anche nell’esordio la vicequestore non si smentisce, acuta, intuitiva, irrefrenabile per raggiungere quanto prima quel traguardo che agogna con tutta se stessa: assicurare il colpevole alla giustizia.

Non solo un poliziesco, come ormai spesso accade ai romanzi del genere, non solo un caso, non solo un artefice, ma tanti protagonisti ciascuno ben pennellato e riconoscibile negli incontri futuri: il vecchio Patané in pensione ma ancora pieno di sacro fervore, Adriano Calì medico legale e appassionato come Vanina di vecchi film, la giovane e bella Marta, la vicina di casa, la disponibile e ottima cuoca Bettina, Catania con la sua Montagna e le sue strade piene di traffico e la sua cucina dove un posto di rilievo occupano i dolci e le dolcezze impareggiabili, e non per ultima la lingua, le parole particolari del dialetto catanese e la costruzione della frase secondo un’impostazione antica, tipica di una tradizione culturale mediterranea di cui la Sicilia è stata culla e non solo terra di conquista. Ma non mancano gli amori, quelli veri e non dimenticati, da cui fuggire, come ha fatto Vanina che non vuole più soffrire. E quell’atmosfera di mistero e di magia che aleggia, sotteso ad una Terra che il magico ce l’ha nelle viscere.

Un caso complesso apre la serie in una Catania annerita dalla cenere vulcanica della sua Montagna. Un cadavere mummificato viene casualmente trovato in un’ala di una vecchia villa abbandonata dal 1959: una donna, non riconoscibile, la cui storia per essere ricostruita necessita dei ricordi dei superstiti. Casualità fortuite e acume le due forze che porteranno il vicequestore a dipanare una complicata matassa di sordide storie di avidità e di passione, fino a risalire, insieme a Patané, al luogo dove tutto sembra aver avuto inizio: il vecchio bordello “il Valentino” tra colpi di scena e finale inatteso.

della stessa autrice su tuttatoscanalibri:

La logica della Lampara

Il talento del cappellano

L’uomo del porto

La salita dei saponari

Scalia, De Cataldo, De Giovanni, Tre passi per un delitto

Alessandro Barbero “Inventare i libri”, recensione di Salvina Pizzuoli

Alessandro Barbero in questo nutrito saggio “racconta” una pagina, documentatissima e scrupolosa nell’indagine, che definiamo di microstoria dentro cui fanno eco scorci della grande storia.

Quella raccontata in “Inventare i libri” ha come tema portante la nascita a Firenze e a Venezia di due tra le prime e più innovative imprese editoriali. Due i protagonisti, i capostipiti, Filippo e Lucantonio che, da appartenenti ad una modesta famiglia che viveva fuori le mura nell’allora “popolo di Santa Maria d’Ognissanti”, diverranno imprenditori: i Giunti, dei quali l’autore ricostruisce il percorso dal 1427 al 1551.

Oggi il cognome è appannaggio di tutti, ma in quel primo scorcio di secolo XV il cognome apparteneva a chi tramandava beni per eredità, gli altri usavano il semplice patronimico. E la storia del cognome Giunti scopriamo nascere da un nome proprio, Bonagiunta, che i toscani avevano accorciato in Giunta. Un nome ben augurale di una “buona aggiunta” che per quel Giunta e la sua discendenza lo è stata davvero. E nello scorrere la storia di Giunta incontriamo cognomi presenti nella grande storia quando l’atto di acquisto della casa è firmato dal notaio che si chiama Amerigo Vespucci, nonno del più famoso navigatore, e solo per citarne qualcuno: incontreremo ser Bernardo Machiavelli che annota di aver comprato da Filippo di Giunta, due volumi, uno di diritto e uno di storia sul quale possiamo tuttora leggere le annotazioni di suo figlio Niccolò; ma anche un altro grande editore, Aldo Manuzio, autore delle aldine, e non mancheranno incontri con scrittori e papi e sovrani del tempo e scontri armati e guerre che segneranno il cammino dei nostri due protagonisti e della loro attività.

E seguendo i capostipiti scopriamo che Francesco fonderà il ramo fiorentino delle edizioni che poi saranno dette giuntine nel 1456 mentre Lucantonio nel 1457 quello veneziano.

È il catasto fiscale prima e il libro della Decima dopo a fornire particolari importanti allo storico: la crescita e i progressi nell’attività, le scelte editoriali dei componenti originari della famiglia che nel tempo si fregerà di un cognome e la cui attività si espanderà non solo in Italia ma diverrà internazionale. E si potrebbe continuare ancora ma sarebbe un vero peccato togliere ai lettori il piacere della scoperta.

“[…] Inventare i libri è al tempo stesso la minuziosa narrazione della vicenda di due “ragazzi di periferia” divenuti imprenditori di successo e l’affresco di un’epoca straordinaria, in cui guerre e pestilenze decidono le sorti degli uomini, eppure i più grandi artisti del Rinascimento – come il Pollaiuolo, alla cui bottega Filippo Giunti apprende la tecnica della fusione dei caratteri mobili – danno vita alle loro opere immortali, e i libri stampati salvano dall’oblio i classici greci e latini e consentono alle nuove idee di porre le fondamenta del mondo che conosciamo”.(dal Catalogo Giunti)

e anche

Alessandro Barbero, nato a Torino nel 1959, è professore ordinario presso l’Università del Piemonte Orientale a Vercelli. Studioso di storia medievale e di storia militare, ha pubblicato fra l’altro per l’editore Laterza libri su Carlo Magno, sulle invasioni barbariche, sulla battaglia di Waterloo, fino a LepantoLa battaglia dei tre imperi (2010). È autore di diversi romanzi storici, tra cui: Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle gentiluomo (Premio Strega 1996), Gli occhi di Venezia (2011) e Le ateniesi (2015), editi da Mondadori. Per Sellerio ha pubblicato Federico il Grande (2007, 2017), Il divano di Istanbul (2011, 2015) e Alabama (2021).( da Giunti Autori)

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La battaglia di Campaldino

Ottavia Niccoli “Morte al filatoio”, recensione di Salvina Pizzuoli

Protagonista della vicenda, che si dipana tra il lunedì 9 novembre 1592 e il giovedì 19 novembre dello stesso anno a Bologna, è don Tomasso che dirige l’ospizio di San Biagio, un antico ospedale ridotto a ricovero. Lo anima amor di giustizia, anche se terrena e quindi imperfetta e non uguale per tutti, tanto da voler trovare, lui prete, gli autori di tre terribili omicidi.

Una figura di religioso che, a detta della stessa autrice nella Nota conclusiva, è assai improbabile a quei tempi per quel che sappiamo, i preti della piena Controriforma erano piuttosto differenti, anche per questo cattura: per essere uomo di fede e di carità, per la sua strenua e caparbia lotta contro i soprusi e le angherie che i deboli subivano nel contesto sociale di quel preciso periodo storico. Il lettore è così trasportato nella Bologna del tempo che si anima e rivive colorandosi tra le pagine ora seguendo i tragitti a piedi di don Tomasso lungo le strade della città, nel traffico di carretti, cavalli, lettighe, ora entrando con lui nelle case dei ricchi e degli indigenti, nei luoghi di lavoro e di produzione come il filatoio o le botteghe artigiane o dentro le stanze del Torrone dove si amministra la giustizia degli uomini e dove si recava di frequente sostituendo il ministrale del quartiere, pigro e inattivo, che avrebbe dovuto assolvere al compito di denunciare ogni reato.

Un anno difficile quello dell’ultimo scorcio di secolo, in cui si alternano cattive stagioni e magri raccolti, dove alla carestia si aggiungono le intemperie. Un mondo di miseria, di sfruttamento, di abiti logori, di putti e tose strappati alla loro infanzia, di morti ammazzati, di torture, di pratiche magiche come “la calamita battezzata, la brocca piena d’acqua, il setaccio con le forbici” pratiche vietate ma restie ad essere abbandonate dentro un presente e un futuro incerti, dove don Tomasso continua le sue indagini e non si arrende e cerca risposte, sentendo montare dentro di sé un’ansia forte di averla vinta sull’ingiustizia e sulla violenza, che non avvertiva contraria al suo stato di prete.

A fargli compagnia un tosetto malandrino, vivace, intraprendente, curioso che collaborerà con lui rivelandosi spesso un prezioso aiutante per ascoltare e riferire, alla ricerca di fondamentali indizi rivelatori, spesso da interpretare e talvolta anche fallaci.

Brevi note biografiche

Ottavia Niccoli, già docente alle Università di Bologna e Trento, è autrice di saggi su Rinascimento e Riforma editi da Einaudi e Laterza, noti e tradotti a livello internazionale. Questo è il suo esordio come romanziera (da Vallecchi Autore)

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Paolo Cognetti “La felicità del lupo”, recensione di Salvina Pizzuoli

“Da qualche parte Fausto aveva letto che gli alberi, a differenza degli animali, non possono cercare la felicità spostandosi altrove […] La felicità degli erbivori invece inseguiva l’erba […] il lupo obbediva a un istinto meno comprensibile. Santorso gli aveva raccontato che non si capiva perché si spostasse, l’origine della sua irrequietezza. Arrivava in una valle, magari trovava abbondanza di selvaggina, eppure qualcosa gli impediva di diventare stanziale […] e se ne andava a cercare la felicità da un’altra parte”.

Mi piace iniziare la presentazione di questo romanzo citandone alcune frasi che trovano posto quasi in chiusura della storia, parafrasano il titolo e offrono una chiave di lettura.

Il protagonista, Fausto, abbandona la città dopo il naufragio di una relazione lunga e importante e rifugiarsi a Fontana Fredda, lontano da Milano e da Veronica, “un posto da cui ricominciare”, tra i sentieri della sua infanzia in cerca della propria strada, lui che sulla carta d’identità alla voce professione aveva con un certo sussiego fatto scrivere “scrittore” e che ora là sui monti fa il cuoco per i gattisti nel ristorantino di Babette.

Personaggi tratteggiati con l’accetta, spigolosi e sfaccettati come la montagna in cui alcuni si sono rifugiati, come lui, e altri che vi sono nati e non se ne allontanerebbero mai: Elisabetta detta Babette che lo accoglie come cuoco nel suo ristorantino, lei che in montagna c’è arrivata, vi si è fermata ma che ora sogna il mare; il vecchio Santorso, protagonista dei luoghi che conosce e ama; Silvia la cameriera nel cui cuore Fausto spera di aver trovato un posto, anche lei inquieta, alla ricerca, con la voglia di ripartire, come al Rifugio Quintino Sella sul Rosa, tra ghiacciai e rocce; la vecchia Gemma anche lei dura e scolpita nella roccia con i suoi ottant’anni, le sue abitudini e i suoi sogni e non per ultimo il paesaggio invernale ed estivo che dà sfoggio di sé nel lussureggiare dei suoi panorami.

Brevi note biografiche

Paolo Cognetti è nato a Milano nel 1978. Tra i suoi libri: Sofia si veste sempre di nero (minimumfax 2012), Il ragazzo selvatico (Terre di mezzo 2013) e Senza mai arrivare in cima (Einaudi 2018 e 2019). Nel 2021 ha curato L’Antonia su Antonia Pozzi (Ponte alle Grazie). Sempre nel 2021 esce, sia come film-documentario sia in forma di podcast, Paolo Cognetti. Sogni di Grande Nord. Con Le otto montagne (Einaudi 2016 e 2018), che è stato tradotto in oltre 40 paesi e dal quale è stato tratto un film di prossima uscita, ha vinto il Premio Strega, il Prix Médicis étranger e il Grand Prize del Banff. Per Einaudi ha pubblicato anche La felicità del lupo (2021).(da Einaudi Autore)

Daniela Alibrandi “I delitti negati. Nei sacri sotterranei” Ianieri Editore, recensione di Salvina Pizzuoli

da oggi 9 dicembre in libreria

Un commissario, Riccardo Rosco, è protagonista delle pagine di Daniela Alibrandi che portano il titolo I delitti negati, un’espressione che, oltre al titolo, compare tre volte nel romanzo, lasciando aperta al lettore, soprattutto all’inizio, una duplice interpretazione delle maglie investigative che si andranno via via dipanando.

Un personaggio, quello del commissario che l’autrice tratteggia delineandone, nel corso degli avvenimenti e situazioni, la travagliata personalità: solo al termine il lettore conoscerà i suoi caratteri fisici, poche anche le volte in cui viene indicato con il nome proprio: è schivo, taciturno con una caparbia volontà e capacità di seguire una pista, quella giusta. La sua vita è il suo lavoro, ma solo fino al penultimo caso durante il quale un’ingenuità professionale lo fa destinare ad altra sede. Solo lì, nella distanza, scorge finalmente quanto spazio egli abbia negato a se stesso e alla propria vita di relazione: la moglie, la famiglia, gli stessi collaboratori, la sua squadra che, in questa nuova situazione, sente vicini e ai quali si scopre legato affettivamente.

Troppo preso e forse troppo presuntuoso, ha accolto nella propria vita solo ciò che potesse mettere in luce il suo acume di investigatore, fino a spingersi oltre e mettere a repentaglio anche la propria incolumità. Ma nella distanza, nel cambiamento totale, senza che la sua perspicacia si spenga, sa ritrovare se stesso e i valori dimenticati.

Uomo e commissario, individuo e segugio: caratteristiche che non possono essere separate dalla vicenda perché il nostro protagonista sa indagare e venire a capo di un’intrigata e sordida storia dove Roma e la Città del Vaticano sono protagoniste, ciascuna con la propria bellezza e grandiosità, a volte anche mostruosa, a volte sprezzante e altezzosa, in un contesto storico preciso, gli anni ‘80, quando la risoluzione dei casi si affidava esclusivamente all’ingegno degli investigatori.

E la vicenda scorre in una forma piana e schietta, tra i molti personaggi, i paesaggi e gli ambienti, in questo romanzo ricco di descrizioni e di scorci filtrati dal sentire di chi li guarda e li vive:

Roma, d’estate, d’autunno, di primavera e adesso d’inverno, Roma l’antica, l’infinita, l’impareggiabile. Storia immensa e odore acre di legna bruciata, l’umido del fiume misto al marcio delle foglie cadute dai platani. Un elisir che invadeva le sue vene come un bicchierino di cognac bevuto di mattina.

La cupola di San Pietro sulla destra, maestosa e immensa, brillava in quel momento, colpita dai raggi del sole invernale, che iniziava la sua discesa verso il gelido tramonto. Di fronte le Mura Vaticane, il confine sicuro, il baluardo che assicurava alle anime, anche alle più oscure, la difesa di una cortina impenetrabile.

E, non per ultima, una voce fuori campo.

Compare spesso al termine di vari capitoli con un preciso distacco anche grafico dal testo principale: parole dolorose di peccati e di fede, di volontà di giustizia terrena. Di chi sono?

Salvina Pizzuoli

Dello stesso autore per Ianieri Editore gli altri due della trilogia :

“Delitti Fuori Orario”  

Delitti Postdatati”.

e sempre su tuttatoscanalibri 

Daniela Alibrandi, Quelle strane ragazze

Daniela Alibrandi, Nessun segno sulla neve

Daniela Alibrandi “Una morte sola non basta”

Daniela Alibrandi “Un’ombra sul fiume Merrimack”

Daniela Alibrandi “Il bimbo di Rachele”