HANS TUZZI INTERVISTA OTTAVIA NICCOLI autrice del giallo storico “Morte al filatoio” edito da Vallecchi Firenze, in libreria il 9 dicembre

IL LIBRO

La copertina è di Lisa Vassalle

“Un thriller che è un meraviglioso spaccato della Bologna di fine Cinquecento.”

Bologna, 9 novembre 1592: don Tomasso, che dirige l’ospizio di San Biagio, viene coinvolto mentre è al Tribunale del Torrone in una denuncia per diffamazione voluta da Violante, una donna che un libello anonimo accusa di aver avvelenato il marito. Il notaio Martini, inquirente amico del prete, gli chiede in via non ufficiale di prendere informazioni da don Lucio, il sacerdote che ha proceduto al funerale e che for se è stato anche l’amante della donna. Nel frattempo, don Tomasso apprende da due ragazzini rifugiatisi all’ospizio, Ettore e Gian Andrea, che il primo ha appena visto il cadavere di una giovane donna nei sotterranei del filatoio di tal Righi. Il corpo, gettato nel canale, verrà infatti ritrovato di lì a poco. La morta risulta essere una lavorante del Righi, Caterina Pancaldi, e l’esame autoptico dichiara che ha perso da poco la verginità. Partono quindi tre processi: quello per il libello, quello per avvelenamento del marito di Violante e quello per “la putta” trovata nel canale. Mentre si svolgono gli interrogatori, don Tomasso aiutato da Gian Andrea prosegue nella ricerca di ipotesi e indizi per incastrare l’omicida. (da Vallecchi Firenze)

e anche

Brevi note biografiche

Ottavia Niccoli, già docente alle Università di Bologna e Trento, è autrice di saggi su Rinascimento e Riforma editi da Einaudi e Laterza, noti e tradotti a livello internazionale. Questo è il suo esordio come romanziera (da Vallecchi Autore)

L’INTERVISTA di Hans Tuzzi a Ottavia Niccoli

Tu nasci come storica della Riforma e delle sue ripercussioni nella vita italiana del Cinquecento. Intrinseca di Carlo Ginzburg, attenta alla scuola delle Annales, ora esordisci nel genere giallo. Come mai?

Amo moltissimo leggere i polizieschi, che trovo emozionanti (almeno i  migliori), pieni di situazioni variegate, di colpi di scena, ricchi di tocchi ironici e di tracce di vita quotidiana (di nuovo: almeno i migliori), e che quindi non mi annoiano (quasi) mai. Trovo poi che sono anche confortanti, in quanto  di solito finiscono bene, nel senso che la giustizia trionfa e c’è una soluzione che è riconosciuta come VERA. Mentre questo nella vita accade di rado, perché il dubbio, l’incertezza, la delusione sono sempre presenti. Così anche in passato (qualche decennio fa) avevo iniziato un giallo che si svolgeva nel dipartimento in cui all’epoca insegnavo. Sia la vittima che l’assassino che l’investigatore erano miei colleghi, ai quali avevo lasciato nome e cognome reali. Anzi, partecipavo anch’io alla vicenda, ed ero io che trovavo il cadavere; ovviamente dopo i primi capitoli ho lasciato perdere. Ma ora che sono ormai da parecchi anni in pensione, e sento che la voglia di scrivere saggi scientifici declina decisamente, sono ritornata a quella vecchia passione e ho voluto provare. È stato molto emozionante.

Teatro della vicenda è una inedita Bologna negli ultimi anni del XVI secolo. Dico inedita perché ad esempio non sapevo che Bologna fosse allora una città di “vie d’acqua”. Ma perché hai scelto  Bologna?

Perché ci abito, e conosco abbastanza bene gli spazi, le strade, le forme di governo e l’economia della città tra Cinque e Seicento. All’epoca l’industria della seta dava da mangiare a mezza Bologna: erano attivi con vari compiti migliaia di uomini, ragazze e bambini, che lavoravano nei filatoi o in casa propria. E i filatoi utilizzavano grandi macchinari mossi per l’appunto da quelle vie d’acqua. Una di esse, anzi, il canale Fiaccalcollo, scorre tuttora sotto la cantina della casa in cui abito; quando da un buco nel muro l’ho visto correre tumultuosamente e ne ho sentito il rombo, ho deciso che doveva avere una parte importante nel racconto, e così è stato. Sapevo che nell’edificio  – che aveva allora una struttura assai diversa rispetto a quella attuale – era sito all’epoca l’ospizio di San Biagio, un ricovero per i pellegrini, e che all’angolo della strada c’era la spezieria di cui si serviva l’ospizio, e che ora, dopo più di quattro secoli, è la farmacia in cui vado a comprare le medicine. Mi è sembrato anche in questo caso, come tanti anni fa, di essere una testimone degli eventi che raccontavo. Potevo seguire passo passo i personaggi, uno per uno. Diciamo che potevo quasi vederli.

E perché il tuo investigatore è un prete?

Perché avevo deciso che la vicenda aveva il suo fulcro appunto nell’ospizio di San Biagio, e a dirigere un ospizio per i pellegrini poteva ben esserci un ecclesiastico (l’ho chiamato don Tomasso). E dato il contesto storico del 1592 in cui si svolge la storia, e quello dei precedenti decenni, che hanno visto forti tentativi di novità nel mondo della Chiesa e la loro sostanziale sconfitta, potevo facilmente dargli esperienze non lineari e una personalità complessa. Sono proprio alcuni momenti cruciali della sua storia di vita, e le situazioni che ne sono derivate, che gli consentono di arrivare alla soluzione del caso.

Non ha influito nemmeno in minima parte la suggestione di padre Brown, il mite investigatore creato da Chesterton?

No, per nulla, non ci ho affatto pensato (anche se in gioventù ho letto i racconti di Chesterton). Tra l’altro don Tomasso non è affatto mite. Si controlla molto, ma non sempre ci riesce del tutto. Secondo la concezione della medicina del tempo, ha certamente un temperamento sanguigno, e secondo me è anche un po’ collerico.

Chi ha letto i tuoi saggi ritrova qui, ma perfettamente amalgamati nella narrazione, senza nessuna pesantezza erudita, particolari curiosi del tempo. Ad esempio, i medici non toccavano i corpi, che venivano maneggiati da cerusici, cioè barbieri abilitati. Anche la nostra gestualità cambia nei secoli?

Certamente. I gesti sono legati al contesto culturale e politico corrente (infatti ho appena pubblicato un piccolo libro che si occupa proprio di questo tema). Basti pensare a un gesto di saluto fino a due anni fa assolutamente ovvio, come la stretta di mano; secondo alcuni studiosi è possibile collocarne la nascita nei Paesi Bassi di metà Seicento, come segno di solidarietà politica e poi di amicizia e di lealtà. E chissà se questo modo di salutarci sopravvivrà alla pandemia?

Possiamo sperare, noi lettori, che la vita letteraria di don Tomasso non si concluda con “Morte al filatoio”?

Lo spero anch’io. Vedremo!

e anche

la recensione di Salvina Pizzuoli

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