Daniela Alibrandi “I delitti della Vergine”, recensione di Salvina Pizzuoli

Un delitto ambientato alla Fontana di Trevi

È notte fonda nella deserta Piazza Trevi. Un’immagine sconquassa l’armonia dell’idilliaco scenario. Nella vasca galleggia a faccia in giù un corpo sinuoso, nudo e affusolato, dai capelli lunghi e scuri. Com’è giunto quel cadavere nella splendida Fontana di Trevi? Chi ha visto tutto è un clochard ubriaco, ma si è dileguato, lasciando solo bottiglie vuote e il proprio cappotto sdrucito. Sarà il commissario Rosco a dipanare la fitta matassa, ora che è tornato a Roma e cerca di ricostruire la sua storica squadra, mentre è alle prese con la fragile salute della moglie. Intanto nei sotterranei dell’acquedotto Vergine, da cui è alimentata la fontana, si muovono strane e inquietanti presenze, impossibili da individuare (da Morellini Editore)

Fetore, olezzo, cosa c’è di più vero nell’abisso dell’animo umano? Ed è proprio questo effluvio a farmi apprezzare le fragranze che sublimano l’essere, l’odore di puro, di intoccato, di intatto e vulnerabile, il profumo di una vergine…

Il commissario Rosco è a Roma da tre giorni ma la felicità connessa al rientro nel suo precedente commissariato è subito funestata da un nuovo caso che già si presenta difficile: una giovanissima è stata rinvenuta cadavere nella Fontana di Trevi.
In attesa che l’ispettrice Porzi possa raggiungerlo a Roma, esiguo è il nucleo della vecchia squadra, costituito solo da Malvani, “un mago nell’indagare” gli ambienti in cui si muovono gli eventuali sospettati,  e manca anche Loverso, sostituito al femminile dalla nuova allieva agente Licia Germani.
Colpisce subito la struttura del romanzo dove non manca, tratto tipico di molti thriller psicologici della Alibrandi, la “presenza”,  sottolineata dai corsivo, dell’assassino.
E le indagini hanno inizio con vari interrogatori e dei testimoni oculari  e dei tecnici della Fontana relativamente ai lavori in corso. Porzi è stata trasferita temporaneamente e l’allieva agente Germani impara in fretta: il commissario Rosco può quandi lavorare al caso contando sull’intuito prezioso della sua collaboratrice, cui affida l’analisi di alcuni casi insoluti di scomparsa di minori,  tanto più utile proprio per la contingenza che lo turba e non poco: le notizie sulla salute dell’amata moglie.
E l’indagine si accresce di una nuova scomparsa di minore e di un nuovo ritrovamento: Rosco e i suoi collaboratori sono messi a dura prova; ma c’è Roma, protagonista, l’aria di Roma, la luminosità unica, il candore dei monumenti e il profumo della storia, che sa ammaliare e consolare.
E non solo indagini, ma tante notizie storiche accompagnano le ricerche e vi si intrecciano in un ruolo fondamentale per la soluzione:

“questa scala raggiunge lo speco dell’antico acquedotto Vergine. Era stata progettata da Marco Vipsanio Agrippa, genero di Augusto, ma fu inaugurata il 9 giugno del 19 Avanti Cristo, a servizio dell’impianto delle terme di Agrippa in Campo Marzio…”.

E antiche leggende, come quella della fanciulla che indicò “la sorgente d’acqua ai soldati assetati, spiegando il perché la fonte prese il nome di Aqua Virgo”.
Una Roma luminosa e viva cui fa riscontro una città sotterranea che nel buio accoglie efferatezze e morte.
Le felici intuizioni di Porzi e del commissario Rosco porteranno a nuovi interrigatori, nuove ricerche  e conoscenze anche in ambito storico, su Roma antica e le sue acque sotterranee, e alla soluzione dei casi e, come sempre accade nei noir della Alibrandi, il finale è decisamente imprevedibile, giocato sul filo dei secondi e degli inseguimenti, degli incontri fortuiti e dei comportamenti eroici, in un crescendo di suspanse prima dell’agnizione finale.
Un nuovo romanzo che accresce egregiamente la serie con il Commissario Rosco.

Daniela Alibrandi è nata a Roma e ha vissuto negli Stati Uniti. Nella vita professionale si è occupata di scambi culturali nell’ambito del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea. L’autrice ha pubblicato sedici romanzi, cinque edizioni inglesi e un’antologia. Della sua vasta produzione ricordiamo: I delitti del Mugnone (Morellini Editore, 2024), Delitti sommersi (Morellini Editore, 2023), Viaggio a Vienna (Morellini Editore, 2020), Una morte sola non basta (Del Vecchio Editore, 2016), la pluripremiata Trilogia Crimini del Labirinto (Delitti fuori orario, Delitti Negati e Delitti Postdatati), I Misteri del Vaso Etrusco, Nessun segno sulla neve e Il bimbo di Rachele (Edizioni Universo), Quelle strane ragazze, Un’ombra sul fiume Merrimack e l’antologia I doni della mente. I suoi scritti sono spesso ospiti di testate giornalistiche nazionali e di rubriche letterarie televisive e radiofoniche della RAI. Alcune sue edizioni italiane figurano nelle biblioteche di Harvard e di Yale e nella Public Library di New York. Nel maggio 2024 è stato ufficializzato il suo stile come MultiDimensionCrime. L’autrice ha ottenuto numerosi premi letterari nazionali, tra cui il Premio Poliziesco Gold 2020 e il Premio Women Art Week 2022 alla carriera letteraria.

Vari dei romanzi citati nella biografia sono recensiti su tuttatoscanalibri

Cristina Cassar Scalia “Delitto di benvenuto”, presentazione di Salvina Pizzuoli

Einaudi

Noto, Natale 1964, un nuovo commissario, Scipione Macchiavelli romano, e un nuovo protagonista, dal nome impegnativo, come quello dei suoi fratelli che paiono tutti “usciti da un libro di storia dell’Impero Romano”,  per una tradizione di famiglia cui il padre, Cesare, manco a dirlo, tiene molto.
 Arriva a Noto a Natale, dal commissariato “Via Veneto” di Roma che ha diretto negli ultimi quattro anni: un trasferimento di cui sa le motivazioni, una comunicazione scritta a cui è costretto a rassegnarsi.
Effetto di una condotta che gli ha fruttato un soprannome, il Paparazzo, legato a quella Via Veneto, a pochi passi dal suo commissariato, di cui è “assiduo frequentatore” attratto dalla dolce vita romana “celebrata dal cinema e dai rotocalchi”.

Questi gli ingredienti relativi al protagonista e personaggio principale del nuovo romanzo della Scalia. L’ambientazione e la scelta datata non sono certo casuali: siamo nella “Provincia babba” che significa “ingenua, priva di malizia” senza organizzazioni mafiose. “Un’ingiuria che in questo caso diventa un complimento”; ma in questa provincia sonnolenta, come recita il titolo “Delitto di benvenuto”, il nuovo commissario, subito dopo il lungo viaggio da Roma, si trova a dover dirimere una strana matassa di fatti, spesso complicati o chiariti dalle voci e dai pettegolezzi,  le cui notizie “nel giro di due ore” riescono a  circolare per il paese, che sa tutto di tutti, del presente e del passato, e sui quali costruisce ipotesi e conseguenze. Un paese accogliente dove prima la scomparsa del direttore della banca Trinacria e poi la scoperta del suo cadavere stanno turbando le festività natalizie.
Ma non è solo, nell’inchiesta Macchiavelli potrà contare sulla presenza e l’apporto di due funzionari locali, il maresciallo Calogero Catalano e il brigadiere Francesco Mantuso nonché sull’intuito di un’affascinante farmacista, e sul compagno di studi, ora giudice giovane e stimato a Siracusa, Giuseppe Santamaria “amico leale dal primo giorno del primo anno alla facoltà di Giurisprudenza, che avevano frequentato all’università La Sapienza. Insieme a Primo Valentini, anche lui collega di studi, era uno dei piú cari amici del commissario”.
Un bel quadro della vita di provincia siciliana negli anni ’60, con i suoi valori atavici ancora imperturbati e Noto con i suoi palazzi, la sua nobiltà fatta di principesse e notabili, provincia chiacchierona e bellissima, regina del barocco con le sue chiese e le sue architetture.
Un nuovo protagonista che sa di esordio in una nuova serie? Dalla lettura così parrebbe…
Un nuovo personaggio, da conoscere più a fondo e a cui affezionarsi, come con Vanina che tanto spazio ha occupato nei gialli della Scalia e nel cuore dei lettori.

Cristina Cassar Scalia “Delitto di benvenuto”, nei commenti di Mar

della stessa autrice su tuttatoscanalibri

Sabbia nera

La logica della Lampara

Il talento del cappellano

L’uomo del porto

La salita dei saponari

La carrozza della santa

Il Re del gelato

La banda dei carusi

Il castagno dei cento cavalli

Scalia, De Cataldo, De Giovanni, Tre passi per un delitto

Le stanze dello scirocco

Hans Tuzzi “Colui che è nell’ombra”, recensione di Salvina Pizzuoli

Bollati Boringhieri

Ah, sì, ora posso ben dirlo: vi è qualcosa di nostalgicamente incantevole in una società che svanisce, almeno quanto disgusta una società che decade.

Si apre con Costanzo Il Sidi e si chiude con Costanzo il Duende, in mezzo ai quali la storia trascorre con Cesare e con Curzio: passaggi generazionali, chi li racconta?

Il lettore dovrà attendere: la voce narrante si svela lentamente, il lettore ne fa la conoscenza attraverso il raccontato che ha come protagonisti i citati rampolli della casata degli Avogadro, friulana,  a partire dal 1937 ad oggi e ambientata nella loro antica dimora, una solida villa secentesca arredata come molte altre case nobiliari.

La voce narrante comincia a disvelarsi

“Il capitano conte Costanzo Avogadro mi aveva promosso di fatto a suo… servo? No. Ma nemmeno attendente. Suo famulo, ecco. Io avevo diciotto anni, e lui ventinove”.
“In qualità di intendente, mio padre abitava un piccolo appartamento in una delle barchesse. Io ero frutto tardivo del suo matrimonio. Tardivo e infausto, oltreché inatteso. Dopo aver partorito otto anni prima mia fratello, e avere avuto due anni dopo l’aborto spontaneo di una piccina che venne comunque battezzata: Lia, mia madre era morta dandomi in luce al mondo. Mio padre aveva quarantasette anni, quando lei morì, e credo non mi abbia mai perdonato del tutto. Ma era uomo sobrio, di poche parole, e affidò la mia infanzia alla cuoca e alla governante”.
E più avanti
“Mio padre si avviava ormai alla vecchiaia, io mi ero iscritto a Legge e lui lavorava ai fianchi il conte affinché gli subentrassi nelle cure della villa e delle pertinenti proprietà”
Fino al giuramento
“E allora, siamo in guerra. Tempo settimane, mesi forse, ma saremo in guerra. Chi può sapere cosa riserva il futuro? Voglio fare con te un patto analogo, e voglio altresì che tu giuri, sui sacramenti, di restare per sempre vicino alla mia famiglia. Capisci? Per sempre! Giura!”

È col patto siglato con il sangue che compare per la prima volta il nome e il cognome di colui che di fatto non è solo voce narrante ma attraverso gli occhi del quale prende vita nel tempo, si disvela l’esistenza di chi lavorava e viveva in una cornice quasi estranea al mondo reale e dove il rumore di quel mondo arrivava attraverso gli avvenimenti e i fatti che occorrevano ai membri della Famiglia: un mondo schermato, quasi uno specchio in cui quello “fuori” entrava solo a tratti per specchiarvisi con le sue conseguenze, fauste o infauste, con i mutamenti e le riflessioni che se ne determinavano e che la voce narrante sa sottolineare.
Una narrazione lenta, piacevole, come possono esserlo solo i ricordi che sanno indugiare sui particolari, quelli indelebili, nostalgici, rammaricati, in questo memoir la cui conclusione, inattesa, è in effetti imprescindibile, conseguente a un gioco, un gioco delle parti, dove solo il fuoco scioglierà l’incantesimo

vi è qualcosa di nostalgicamente incantevole in una società che svanisce, almeno quanto disgusta una società che decade”.

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Intervista ad Hans Tuzzi (21 ottobre 2024)

Tutto Tuzzi

Daniela Alibrandi “I delitti del Mugnone”, recensione di Salvina Pizzuoli

Morellini Editore

Perché mai nessuno capisce che ho bisogno di questo. Mi guardano, mi sorridono, ma io quando mi avvicino so che voglio una sola cosa da loro. Ho bisogno di rivedere il terrore, la supplica, e strappare il loro sguardo per sempre

“I delitti del Mugnone” di Daniela Alibrandi è un romanzo noir che si distingue per la sua capacità di catturare l’attenzione del lettore fin dalle prime pagine; la trama, come sempre nei suoi romanzi, sa essere avvincente oltre che ben strutturata, sviluppandosi intorno a misteriosi omicidi, conducendo il lettore attraverso un labirinto di indizi, vecchi sospetti e trascorsi e contemporanei delitti ancora senza soluzione o irrisolti.

L’autrice riesce a creare un’atmosfera ricca di tensione e suspense, con descrizioni dettagliate che rendono vividi i paesaggi e le ambientazioni. L’azione si svolge prevalentemente a Firenze dove il commissario Rosco si è fatto trasferire da Roma per sfuggire ai risvolti  negativi delle indagini che nella capitale avevano coinvolto anche la sua famiglia e soprattutto il piccolo Robertino. Ma protagonista è il torrente storico che scorre dai colli a nord di Firenze e scende nella piana ad abbracciare l’Arno in un giallo a tutto tondo dove diversi generi narrativi si coniugano armoniosamente regalando al lettore pagine in cui  ai delitti efferati si affiancano trance de vie, psicologie, rapporti umani, descrizioni di luoghi e panorami, amore, morte, felicità e dolore.  

I personaggi, così come la nuova squadra con cui si trova a lavorare il commissario, sono ben delineati e nello stesso tempo la loro complessità li rende interessanti, vecchi e nuovi; non mancano infatti piacevoli collaborazioni con chi aveva scelto di abbandonare la squadra e Roma per tornare a lavorare a Napoli, forse rimpiangendo battibecchi e screzi sebbene in un rapporto di vera cooperazione e fiducia con il diretto superiore: quella Gisella Porzi, già incontrata e felicemente ritrovata anche nelle pagine di questo nuovo e difficile caso fiorentino. Le loro interazioni, i loro dialoghi, le supposizioni, la ricerca di indizi e il gioco che si crea tra loro, contribuiscono a mantenere alto il ritmo del racconto. Uno degli aspetti più riusciti del libro è la capacità dell’autrice di intrecciare elementi di introspezione psicologica con la narrazione del crimine, offrendo al lettore una prospettiva approfondita sulle motivazioni e sui conflitti interiori dei protagonisti. Questo aggiunge una dimensione ulteriore alla storia, rendendola non solo un giallo avvincente ma anche un’esplorazione delle sfumature dell’animo umano. Per non parlare, cosa che infatti non farò, del finale, non solo non previsto, ma soprattutto rocambolesco e denso dentro un’ agnizione completa e complessa ma anche ricca di prospettive future.
“I delitti del Mugnone” è un romanzo che merita sicuramente di essere letto da chi ama il genere noir e non solo. Daniela Alibrandi dimostra di avere una penna abile e sensibile, capace di creare storie che lasciano il segno. Se cercate una lettura intrigante con una buona dose di suspense e profondità psicologica, questo libro potrebbe fare al caso vostro.

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“Quelle strane ragazze”

“Nessun segno sulla neve”

“Una morte sola non basta”

“Un’ombra sul fiume Merrimack”

“Il bimbo di Rachele”

“I misteri del vaso etrusco”

Daniela Alibrandi in Racconti racconti racconti: corti, con brivido, fantastici

Gabriella Genisi “Pizzica amara”, recensione di Salvina Pizzuoli

Genisi, in un giallo sconvolgente e quanto mai attuale, ci racconta il Salento oscuro delle superstizioni e delle notti della taranta; a farci da guida una carabiniera indimenticabile, che rompe e ribalta tutti i canoni della scena noir. (da Rizzoli Libri)

Pubblicato nel 2019 ha per protagonista una giovane maresciallo dei carabinieri, Francesca Lopez, detta Chicca.  Salentina, bella e caparbia, ha lottato per farsi spazio in un ambiente maschile, meritando un avanzamento di grado a seguito delle sue indagini su rifiuti tossici. Un nuovo caso, ancora più intrigato l’attende dopo la profanazione di una tomba e la sparizione del cadavere.

Nel corso dell’ndagine oltre alla maresciallo saranno coprotagonisti la sua squadra, Lecce e le sue bellezze architettoniche e le sue atmosfere e i suoi segreti, come le acque del fiume sotterraneo che l’attraversa, il Salento magico in un’accezioner ampia, non solo paesaggistica legata al sole e al mare, ma a un territorio che cela misteri, con le sue superstizioni, connivenze e collusioni, retaggi di un passato che pare sepolto ma ancora convive nella vita quotidiana. Elementi spesso fraintesi o considerati folklore: le macare, la taranta e le tarantate, i “segni” premonitori, bagaglio culturale interiorizzato che si confonde e si compenetra tra superstizione, religione, magia, medicamenti.

Si apre già con uno di questi elementi e con la titolazione del primo capitolo che, come i successivi, riporta i versi di Vittorio Bodini

[…] Un moscone nero, svolazzando, continuava a sbattere testardo contro il vetro. Luci amise la tazzina sul tavolo e aprì la finestra, ma l’insetto invece di uscire volò dentro casa. Non riuscendo a scacciarlo e avvertendo il cupo presentimento di qualche sventura imminente, la donna si fece il segno della croce tre volte e recitò un’Ave Maria, poi sospirò, richiuse la finetsra e si guardò attorno.

Il presentimento di Lucia si materializza nella profanazione della tomba di famiglia da cui il cadavere del figlio è stato trafugato. Ma è solo uno dei casi inspiegabili che si succederanno nel tempo: il cadavere di una giovane donna incinta ritrovato da un pescatore in una zona balneare a dieci chilometri da Lecce; segni particolari: biondissima e con un tatuaggio abraso non totalmente con un simbolo dentro un carchio. E dopo quasi un mese un’altra giovane, Federica Greco, ritrovata impiccata ad un albero. Segni particolari: lo stesso tatuaggio.

E così tra ricerche e indagini, emerge lentamente un mondo sommerso celato da una patina di solidità economica e potere, mali antichi e nuovi, traffici, discariche abusive, Xylella, droga, immigrazione, rituali tra esoterismo e occulto dove il Male opera all’ombra di perbenismi e dipendenze.

E nel frontespizio, la citazioe in dialetto di un antico proverbio salentino

A Ddiu dduma na candila, a llu diaulu ddoi.

Un noir scritto bene, ingarbugliato e ricco di aneddoti e di particolari del territorio, una protagonista tenace e fragile allo stesso tempo, provata dalle indagini e che cercherà di scuotersi con un “salto” liberatorio.

Della stessa autrice su tuttatoscanalibri

Terrarossa

Lo scammaro avvelenato e altre ricette

Le invisibili

Giochi di ruolo

Daniela Alibrandi “Delitti sommersi”, recensione di Salvina Pizzuoli

Un giallo ambientato nelle acque sotterranee di Roma nella primavera del 1985. La caccia a un serial killer è l’occasione per scoprire una Roma sconosciuta e affascinante (da Morellini Editore)

Il Commissario Rosco ritorna nelle pagine di Daniela Alibrandi nel nuovo  poliziesco ambientato in una Roma inusitata e sconosciuta, una Roma sommersa, con laghi sotterranei di acque limpide e cangianti, che pochi conoscono “sotto al traffico della Gianicolense […] la grotta grande misura circa 700 metri quadri e il lago è alimentato da una fonte naturale, […]  Il bacino gigantesco, sormontato da un soffitto altissimo e a volta che non incupiva affatto il colore dell’acqua cristallina, di un azzurro che tendeva al verde. Quasi un topazio incastrato nelle viscere della terra”, ma teatro di violenza e di morte.

Una città sconosciuta ai più, tutta da scoprire tra le pagine che la descrivono anche nei diversi luoghi inimmaginabili sotto la superficie di un  intrigo di strade e di traffico, e di monumenti e chiese.

Non manca nessuno della squadra, tutti pronti a seguire le indagini con il loro amato commissario ora felicemente sposato e padre innamorato del piccolo Roberto.

Ingredienti già interessanti cui si aggiungono vicende personali dei membri della squadra di Rosco, il mondo sordido dell’usura, delle sue vittime e dei suoi carnefici, delitti, morti violente, non sempre imputabili alla stessa matrice, che interverranno a complicare le indagini; un omicida seriale, un maniaco che ha fatto dell’assassinio il proprio personale piacere dentro un perseguito disegno di vendetta, il tutto sottolineato dalle scritte in corsivo che concludono alcuni capitoli e che nel corso della lettura accendono la suspense.

C’è una giustizia che conosco solo io, ed è quella dell’acqua. L’acqua lava, purifica, scioglie e soffoca, ama e odia, in lei tutto si compie, dall’inizio e senza una fine. Fresca, profonda, insospettabile, in lei il giusto rinasce, il colpevole perisce

Ancora una volta l’Alibrandi ha saputo dosare il racconto degli avvenimenti intercalandolo con le vicende umane legate ai diversi personaggi, con l’ambientazione in una città luminosa nella primavera incipiente, una Roma amata e conosciuta anche nei suoi anfratti sotterranei, con la presentazione di protagonisti ben cesellati e nel sembiante e nel carattere. Un mix ben riuscito e accattivante.

Un poliziesco che, come tutti quelli che meritano l’etichetta, vedrà alla fine la soluzione del caso, intricato e sotterraneo come l’ambientazione che lo ospita. E ancora una volta il Commissario Rosco e la vice ispettrice rivivranno lo scontro, in alcuni momenti plateale, tra logica presunzione e intuito. Un nuovo caso che come l’autrice ci ha ormai abituato si conclude in modo inatteso e con un supplemento di verità.

Della stessa autrice su tuttatoscanalibri

“Quelle strane ragazze”

“Nessun segno sulla neve”

“Una morte sola non basta”

“Un’ombra sul fiume Merrimack”

“Il bimbo di Rachele”

Daniela Alibrandi la trilogia ambientata a Roma

“I misteri del vaso etrusco”

Daniela Alibrandi in Racconti racconti racconti: corti, con brivido, fantastici

Herbert Clyde Lewis “Gentiluomo in mare”, recensione di Salvina Pizzuoli

Il romanzo riscoperto

[…] Standish era austero di natura. L’educazione gli aveva sbiadito i colori , rendendolo scialbo come una tela grigia. Faceva tutte le cose giuste, ma senza entusiasmo. […] beveva con moderazione, fumava con moderazione e faceva l’amore con sua moglie con moderazione; a dirla tutta, Standish era una degli uomini più noiosi al mondo

Un romanzo breve, pubblicato per la prima volta nel 1937, dimenticato e riscoperto, arrivato fino a noi solo recentemente come racconta Marco Rossari, traduttore e curatore, nella sua interessante postfazione: riscoperto solo nel 2010, a ben sessant’anni dalla scomparsa in giovane età del suo autore, fu infatti ripubblicato in Argentina e da allora il successo non è mancato, quasi a ripagare una vita piena di contrattempi, di scelte poco felici, di debiti e miserie subite dallo scrittore di origini ebraiche, nato a Brooklyn nel 1909, da immigrati ebrei fuggiti in tenera età dalla Russia negli Stati Uniti

“Quando Henry Preston Standish precipitò a capofitto nell’Oceano Pacifico, il sole stava sorgendo all’orizzonte. Il mare era piatto come una laguna, il clima così mite e la brezza così soave che era impossibile non sentirsi pervasi da una sublime mestizia”

Così l’incipit dove il lirismo del paesaggio naturale è estraneo e insensibile alla tragedia umana.

Caduto accidentalmente nell’Oceano durante un viaggio sul piroscafo Arabelle, in transito da Honolulu a Panama, senza la famiglia perché “spinto da una vaga irrequietezza”, il nostro benestante protagonista Standish, trentacinquenne agente di Borsa di New York, mantiene un incredibile sangue freddo, preoccupato di tenere un comportamento adeguato anche nell’increscioso frangente, cruccio che gli ha impedito di urlare per chiedere aiuto, quando lo farà sarà davvero troppo tardi e, nonostante tutto, restare generalmente fiducioso sulla possibilità di essere salvato dall’imbarcazione tornata a ripescarlo. Nelle lunghe ore di attesa, puntino nella vastità dell’Oceano, scorre ricordi, possibilità e aspetti legati al possibile salvataggio, con un senso quasi di vergogna e per essere caduto, anzi scivolato, come uno qualsiasi, senza creanza e per l’inadeguatezza del suo vestiario, vittima del proprio modello di comportamento! Quando stanco e sfibrato anche la fiducia pare abbandonarlo i suoi pensieri convoglieranno sul senso dell’esistenza: “che la vita era preziosa, che tutto il resto -amore, soldi, successo- era una menzogna rispetto al semplice benessere di non morire”

Il romanzo racconta un’esperienza carica di tensione, ciò nonostante la vicenda, così come viene narrata, non può definirsi angosciante perché Lewis sa ben dosarla con una prosa estremamente lineare ed essenziale, con ironia sottile per l’ossessiva ostinazione con cui il personaggio Henry Preston Standish risponde alla circostanza facendo prevalere pensieri e comportamenti da gentiluomo: “il decoro di un uomo era importante tanto quanto la sua vita”. Notevole anche un altro accorgimento narrativo utilizzato dallo scrittore: l’alternare proficuamente la situazione dell’uomo in mare e quella sull’Arabelle; i pochi passeggeri, nove in tutto, alcuni per una serie di malaugurate coincidenze, altri per noncuranza non si accorgono subito della sua mancanza a bordo; l’alternanza della narrazione tra Standish in mare e i passeggeri sull’Arabelle crea un efficace contrasto tra le due realtà, tra chi è al sicuro e chi è in pericolo di vita, tra chi propende per una scelta suicida e chi attende la salvezza.

“E su quello che in fondo è solo uno scivolone, Lewis costruisce – con un senso dell’equilibrio che ha del miracoloso – un apologo beffardo e una novella perfetta”.( da Adelphi Edizioni)

Hans Tuzzi “Curiosissimi fatti di cronaca criminale”, recensione di Salvina Pizzuoli

I miti ci parlano, e le fiabe, le loro semplici figlie andate fra gli umani per un mondo già vecchio, ma tanto più giovane del nostro, sono vivide gemme di un tesoro nascosto, stelle fiorite di un giardino incantato comune a tutta l’umanità, poesia potente che infonde vita alla parola facendone la radice originaria del mondo in cui ogni cosa trasuda storie e il nome è sortilegio. Le fiabe parlano al cuore, e il cuore è bambino.

Mi è sembrato di trovare in queste parole la chiave di  lettura di questo conte che si sa da subito, scorrendo semplicemente l’ elenco dei personaggi, tanti, che lo popoleranno, che non è solo un racconto “giallo” : quattro le morti efferate, in cui le date giocano un ruolo importante, giochi di corrispondenze che riportano ad altri avvenimenti, personaggi e luci e scale luminose, bambini, animali parlanti, ingredienti di una magnifica fiaba dentro la quale solo un cuore bambino può trovare la soluzione e salvare il mondo dall’ingiustizia di coloro che il cuore bambino lo hanno perduto.

Una fiaba, sì, un conte philosophique, compagine narrativa spesso utilizzata, che mi ha richiamato altre opere magistrali, in cui ho visto molte consonanze, soprattutto nella denuncia di un declino della società.

Una storia il cui contenuto non è da sintetizzare, ma gustare sì: citazioni, caratterizzazioni linguistiche, tra usi e costruzioni, richiami storici, ma soprattutto la forza della parola che narra, che sa ammaliare e coinvolgere, l’atmosfera che sa creare, come solo una pagina di letteratura può fare.

Eclettico Tuzzi, è riuscito ancora una volta a sorprendere!

Si apre in una fredda mattina del 21 gennaio del 1960 con la prima delle morti, incredibili e impressionanti proprio perché inspiegabili nella loro esecuzione e nei confronti del personaggio “Perché quel morto, oltre che assurdo, era stato importante, da vivo. E rischiava d’esserlo ancora di più ora che era morto”. E un simbolo siglato nel sangue “Sul battente di una porta erano raffigurate due serpentine parallele, separate da una fitta serie di tratti orizzontali, uno sopra l’altro, come tanti pioli”.

E ancora: una testa troncata di netto e niente sangue; e ancora, in una stanza chiusa dall’interno: il delitto, quello che ha tutte le caratteristiche del mistero, quello che mente umana non può concepire e risolvere

«La casa, chiusa dall’interno con la serratura di sicurezza, tant’è che si dovette entrare da una portafinestra dell’attico…»

«Aperta o chiusa?» abbaiò il Questore.

«Chiusa, i pompieri dovettero forzarla. La casa, dicevo, chiusa dall’interno, non presentava tracce di lotta o di sangue, il che, per  uno morto a quel modo…»

«Appunto, certo. Non c’era nemmeno sangue sui vestiti».

L’ambientazione storica è ricca della cronaca italiana di quegli anni, così come le asserzioni e le notazioni, spesso amare e presenti nel tessuto narrativo, che concludono le vicende.

L’unica era sperare nel lento bovino opaco oblio italico. Ma, per il momento…[…] e nessuno seppe interpretare in modo convincente quel simbolo misterioso: due serpentine parallele separate da una fitta serie di tratti orizzontali, uno sopra l’altro, come tanti pioli. Così misterioso che a oggi nessuno è riuscito a forzarlo.

Un messaggio ampio e articolato raggiunge il lettore: come in tutte le fiabe che si rispettino, non è mai unico o univoco ma si presta a più chiavi di lettura.

Dal Risvolto di copertina

“E forse alle galassie, nell’Italia di fine gennaio 1960, gli inquirenti dovrebbero guardare per risolvere un delitto inspiegabile, anzi:  impossibile. Al quale ne segue un altro, simile. Per entrambi, testimoni affermano di avere  visto in cielo strane luci. Mentre i giornali si buttano sul possibile avvistamento di «marziani», gli inquirenti devono attenersi alla realtà fattuale delle cose. E l’unica sgradevole ipotesi logica è il coinvolgimento di apparati dello Stato. Nel primo delitto, i Carabinieri. Nel secondo, la Polizia. Chiamati però alla massima collaborazione dai competenti Ministeri. Intanto il gatto Miao e l’uccellin Belverde rivelano al bimbo Agostino che, negli antichi giorni del mondo…”

“Tuzzi ci regala una storia vorticosa e onirica, esilarante e fiabesca, enciclopedica e grottesca, un avvincente insieme di toni e di stile ordito con l’autorevole maestria che lo ha reso uno tra gli scrittori, e i giallisti, più amati del nostro Paese”.(da Bollati Boringhieri)

La Quarta di copertina

su tuttatoscanalibri: Tutto Tuzzi

Alberto Genovese “L’alternativa del cavaliere”, recensione di Salvina Pizzuoli

Prefazione di Hans Tuzzi

Un racconto originale, gradevole, raffinato, denso di considerazioni, che prende le mosse da un modo di dire, un’affermazione in dialetto siciliano di cui poi indaga le origini e le possibili ragioni, tra divagazioni e sottigliezze frutto di una ponderata conoscenza e riflessione sulla lingua e soprattutto sul dialetto “ricchezza del nostro passato, nascosto come polvere sotto il tappeto”, “tesoro di saggezza e fantasia”.

 Ma cos’è una lingua?

“La lingua è il ritratto di un popolo dipinto con il pennello delle parole”

Così viene compiutamente definita in questo racconto-saggio, stimolante e stuzzicante, che scorre e piacevolmente mi cattura in questo viaggio nelle mie radici.

Tra digressioni linguistiche dialettali, perché si sa “non è dei meridionali andare in medias res”, in una forma narrativa che utilizza e finge una risposta epistolare, la spiegazione di un detto che affonda le sue origini nel contesto storico della Sicilia di fine Ottocento. Il professor Henner Gut, docente di Filologia Romanza ad Heidelberg, indirizza ad uno studioso di tradizioni popolari in Sicilia un quesito relativo ad un modo dire di cui si è persa traccia scritta. Lo studioso risponderà in modo ampio e articolato relativamente ad una tradizione orale che si ambienta tra le antiche mura di un “baglio”, la fattoria fortificata che occupava un lato dell’ampio possedimento fondiario; protagonisti un maturo “cavaliere” ovvero il padrone del latifondo cosiddetto dai sottoposti in senso di rispetto, e Crocifissa, la serva tuttofare, la coetanea che ne asseconda dall’età adolescenziale i desideri sessuali, protetti nella parola convenuta di “nostalgia” pensata dal cavaliere: un legame affettivo tratteggiato in modo delicato e sapiente, rappresentando a pieno il vero rapporto che intercorre tra i due protagonisti. Ma non è qui la chiave per comprendere il valore del detto, ma nella consuetudine del cavaliere di giacere con una giovane illibata, in cambio di un compenso ai parenti, per il piacere del “primo sangue”. Proprio da questo incontro sarebbe nato il detto, determinato dall’umiliante, per il cavaliere, disarmonia di coppia, fisicamente male assortita: o futtiri o vasari.

Di tutto il raccontato il vero fulcro è la lingua: essa è testimonianza che conserva nei modi di dire e di chiamare un patrimonio di tradizioni e il pensiero di un popolo, come dimostrano per altro le altre esemplificazioni presenti come digressioni e, nel caso specifico, o futtiri o vasari contiene  “un ammonimento lapidario e triste […] Apologo, in fondo, della condizione umana, la cui cifra è la pena e la saggezza dell’incompletezza”.

Così la chiusa suggella il contenuto e il suo messaggio.

 

La Quarta di copertina e brevi note biografiche da Manni Editori

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Aprile 1593: cinque mesi dopo gli avvenimenti narrati in “Morte al filatoio”, il protagonista è ancora don Tomasso, secondogenito di una famiglia nobile e prete investigatore, con Gian Andrea , il toso “che solo pochi mesi prima era venuto dalla strada a partecipare alla sua vita”, insieme ad altri personaggi già incontrati e che il lettore ritroverà nuovamente nelle prime pagine che si aprono con l’”umor saturnino” del protagonista; tra questi Sabatina che gestisce da trent’anni insieme a lui le incombenze dell’ospizio che accoglie i pellegrini di passaggio, capace anche di curare gli eventuali malati, come capitava in quegli anni di crisi tra chi, in cerca di lavoro, si spostava di città in città. ma anche vagabondi e ladruncoli che si barcamenavano per sopravvivere.

E la trama si arricchisce di personaggi nuovi e nuovi protagonisti legati alla famiglia d’origine di don Tomasso con cui da tempo aveva rotto i legami. È proprio il conte Ercole che, su consiglio di Sabatina, chiederà a don Tomasso di amministrare come legista il piccolo feudo di Cerreto nell’Appennino bolognese ai confini con il modenese dove si sono verificati degli omicidi e dove potrebbero essercene ancora a causa della presenza di un gruppo di zingari, ma con la segreta convinzione che possa giovare alla sua salute un soggiorno lontano dalla città.

Ed è proprio nel piccolo feudo che il nostro sacerdote si troverà, alle prese con due delitti, in uno ancor prima di arrivare, ruberie e attentati su cui fare luce. Una matassa ingarbugliata della quale il nostro valente investigatore saprà trovare il bandolo. Ma il lettore sarà catturato non solo dalla figura di don Tomasso e dei suoi collaboratori, ma dagli usi, l’abbigliamento, le feste, le abitudini, i medicamenti di un tempo così lontano ma a cui partecipa trascorrendoci e seguendo i protagonisti nelle loro giornate: scopre così le convinzioni mediche del tempo, come ad esempio i quattro umori del corpo umano, e l’uso dell’iperico per curare l’umor nero oppure le ferite con il bianco d’uovo, e non solo, anche regole, come la certificazione che accompagnava il viaggiatore a comprovare che il luogo di provenienza era immune dalla peste… qualcosa che ci ricorda tempi presenti anche se afflitti da altre pesti! Oppure la festa dei maggi ovvero l’usanza tra la notte del 30 aprile e il 1 maggio di “rizzare pali o giovani alberi sradicati ai quali attaccare fiori e doni per le ragazze”, giusto per citarne alcune spigolando nel testo.

E poi c’è la giustizia e coloro che l’amministrano e coloro come don Tomasso, doctor utriusque iuris, dottore in diritto sia civile che canonico, che si adopera perché essa sebbene amministrata dal potere pubblico, “dai padroni, come si diceva a Bologna”, assomigliasse anche in modo pallido a quella di cui lo stesso don Tomasso aveva definito per Gian Andrea le caratteristiche:

“La Giustizia è una virtù che consiste nel volere fermamente dare a ciascuno ciò che gli è dovuto e nell’agire di conseguenza”

Una definizione che calza a pennello ancora oggi ma che ancora oggi assomiglia pallidamente a quella virtù così semplicemente delineata per un monello di strada.

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