Omaggio a

“Curzio Malaparte, vita e morte di un capitano di sventure”, di Diletta Pizzicori

Immaginiamo un ragazzino imberbe e bellissimo, vividi occhi neri e capelli luccicanti di brillantina. La divisa militare lo fa sembrare più giovane dei suoi sedici anni, ma lo sguardo è quello di un condottiero: determinato, impavido. Appartiene a qualcuno che ha lasciato la scuola, che è scappato di casa per raggiungere Ventimiglia e quindi la Francia. Qualcuno che si è unito alla Legione Straniera per combattere una guerra che già si preannuncia epica. La Grande Guerra.

Malaparte giovane ufficiale (Foto originale)

Immaginiamoci che quel ragazzo cresca, diventi un indiavolato combattente, quindi un ufficiale del Regio Esercito Italiano e arrivi a comandare un plotone d’assalto a soli diciannove anni. Immaginiamolo lottare, uccidere, restare ferito da una bomba a gas. Immaginiamo, ora, che la salute dei suoi polmoni sia per sempre compromessa a soli vent’anni tanto da essere riconosciuto invalido.

Eppure era qualcuno che aveva profondamente creduto nella guerra, che aveva combattuto per un ideale; adesso, invece, non crede più a niente. Adesso è soltanto arrabbiato, disilluso, cova dentro di sé un furore e un desiderio di rivalsa che non hanno confini.

Sa ciò che vuole e, tra non molto, scoprirà anche come ottenerlo.

Quel giovane scriverà un pamphlet con un titolo al tritolo che gli procurerà molte grane, e poi continuerà a far chiasso per essere notato finché per lui non si presenterà un’occasione d’oro: partecipare a una vera rivoluzione.

Si getterà nella mischia ai tempi della Marcia su Roma, scriverà libri, articoli e manifesti e avrà una sfavillante carriera di giornalista, di scrittore. Ma che dico, sfavillante, meglio eclatante.

Qualcosa scricchiola, però. Lui, che viene da Prato, che si sente toscano fin dentro al midollo, anche se il padre è sassone e la madre lombarda, deve fare i conti con un nome che di italiano ha ben poco: Kurt Erich Suckert. E lui che ha tanto duramente lottato per l’Italia, viene quasi scambiato per uno straniero, e della peggior specie.

La lastra al mausoleo sul monte Le Coste detto Spazzavento che ripota l’orgoglio nel sentirsi pratese

Cambierà, dunque, anche le sue generalità, e non così, tanto per fare, ma con un regio decreto del ’29, smettendo di essere un individuo anonimo, per diventare a tutti gli effetti un mito in tutto il mondo. Da un uomo di trentuno anni, che ha fatto una guerra, innumerevoli duelli, che ha fame di vita, di successo, e di donne, ecco che nascerà Curzio Malaparte.

La sua vita è, di per sé, un romanzo; uno di quelli pieni di colpi di scena, con parecchie avventure, molti cambi di rotta, molto poco romanticismo. Un romanzo che racchiude in sé molte trame e colori: il giallo del processo Matteotti, il nero di un’altra guerra, il rosso di una visione politica differente.

Un romanzo, insomma, controverso, del più controverso – e geniale – intellettuale del Novecento.

Io Malaparte non l’ho mai conosciuto di persona, e ci mancherebbe. Sono nata 33 anni dopo quel 19 luglio 1957, quando lo scrittore si spense dopo una lunga agonia nella clinica Sanatrix di Roma.

Dico lunga agonia, perché furono quattro mesi di interesse mediatico eccezionale per i tempi. Da quando Malaparte era rientrato in Italia dal suo ultimo viaggio in Cina, gravemente ammalato – anche se nessuno usava volentieri la parola “cancro” -, la stampa gli si era gettata addosso come tanti avvoltoi su una carcassa.

Mai, prima di allora, si era visto una folla di giornalisti attendere all’aeroporto uno scrittore, assiepare la sala di aspetto di una clinica, tormentare le infermiere per sapere cosa avesse mangiato, cosa avesse detto. Erano cose che accadevano alle star del cinema, quelle.

Andò avanti così, finché lo scrittore esalò l’ultimo respiro, circondato dai familiari, dopo che una fila lunghissima di personalità politiche e intellettuali si era avvicendata al suo capezzale – senza mancare, ovviamente, di farsi immortalare dai fotografi.

Da quarant’anni teneva in scacco l’opinione pubblica, battibeccava tra le righe dei suoi innumerevoli articoli, scriveva libri che erano stilettate all’addome, non c’era quasi nessuno in Europa – ma anche in Asia e in America – che non sapesse chi fosse Curzio Malaparte e di cosa fosse capace. E ora, di colpo, le luci della ribalta si spegnevano su di lui. L’oblio.

Ho conosciuto Malaparte quando su di lui era già calato il buio. Pure a Prato, la sua città, restano oggi poche tracce di questo intellettuale, coi capelli sempre lucidi di brillantina, che non sorrideva quasi mai nelle foto, sempre impegnato a dimostrare una seria, quasi rabbiosa, concentrazione.

Il mausoleo sul monte Le Coste detto Spazzavento,

Sì, c’è una scuola a lui intitolata, sì, c’è il mausoleo sul monte Le Coste detto Spazzavento, sì, c’è una targa presso la casa dov’è nato, il 9 giugno 1898. Ma quanti lo ricordano davvero?

Mi sono approcciata alla lettura con diffidenza, qualche anno fa, quando lavoravo alla stesura del mio romanzo d’esordio, che sarebbe uscito nel 2021.

Cominciai, dunque, da un suo cavallo di battaglia, Maledetti Toscani, un libercolo uscito nel ’56, che ebbe un incredibile successo. E, devo ammettere, non mi piacque per niente, a parte qualche passaggio qua e là. Leggendolo ebbi come l’impressione che l’autore girasse intorno a un luogo comune, dividendolo in pezzettini sempre più piccoli, senza ricavarne granché.

Così non pensai più a Malaparte; bocciato, archiviato per sempre, pensavo. Fino a qualche mese fa.

Quando ho cominciato davvero a leggere le opere di Curzio Malaparte, l’ho fatto prendendo in mano le sue raccolte di racconti: Donna come me, Sangue, Fughe di prigione. Così, finalmente, ho compreso il successo che quest’uomo aveva avuto, tutte le donne che gli erano morte ai piedi, la casa che si era fatto costruire su uno sperone di roccia a Capri; attraverso pagine profonde, ora cupe, ora luminose, tanto introspettive da essere struggenti, e tanto assurdamente fantastiche da non poter essere che vere.

I dubbi di un’intera generazione, la ricerca delle proprie radici, un rapporto difficile coi propri genitori: c’è tutto in quei racconti e ammetto che, senza proprio aspettarmelo, anche io ho trovato là dentro un po’ di me.

Sono passata poi al divertente e altrettanto assurdo Avventure di un capitano di sventure, praticamente introvabile se non ai mercatini dell’usato. Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti, idem con patatine.

Ho sfogliato con piacere Due anni di battibecco, raccolta di tutti i suoi articoli apparsi su la rivista “Tempo”. Divertenti, cinici, pietosi; assolutamente esilaranti.

Ho letto i celeberrimi La pelle e Kaputt, i due grandi romanzi che lo hanno consacrato, che io non avevo mai letto. Non solo: non li avevo mai visto inseriti in alcuna antologia scolastica dedicata alla Seconda Guerra Mondiale.

In quelle pagine ho ritrovato il suo celebre gusto della provocazione, e mi sono quasi stupita a capirlo, a sposarlo in pieno. Perché, mi chiedo, non si propone ai liceali anche una lettura di Malaparte? Io credo che i giovani lettori troverebbero in lui una penna polemica e dissacrante, ma così a portata di mano. Un modo efficace, allettante oserei dire, per avvicinarsi alla lettura del Novecento.

Perché è davvero difficile non restare folgorati dalla sua scrittura. Persino in Mammamarcia e Io, in Russia e in Cina, entrambi libri postumi, acerbi nella forma, perché non finiti, eppure compiuti nella sostanza, si respira quello stesso cinismo, quella stessa pietà, che è come un filo sottile che lega tutte le opere di Malaparte.

Ecco come si misura la cifra di un grande scrittore: dalla capacità di suscitare forti emozioni anche con la frase più breve, più lapidaria. Si ride e si piange, ci si indigna e ci si trova ad annuire col capo.

Ed è questo, credo, l’intento di Malaparte, il senso di tutte le sue opere: provocare una reazione, suscitare un’emozione. Bella o brutta che sia, verità o bugia, all’autore non importa. Sta al lettore giudicare, lui racconta e basta. Del resto è ciò che dichiarò durante un’intervista:

«Io credo che la funzione dello scrittore sia quella di essere testimone e confessore del proprio popolo e del proprio tempo. Se la gente non vuole che lo scrittore racconti quello che ha visto, la gente non deve fare quello che lo scrittore racconta.»

Filippo Tuena “La voce della Sibilla”, presentazione

“Parigi, 1910. Un ragazzo cammina solitario nel Quartiere Latino:[…]Quel ragazzo si chiama Tom e in quel momento non sa che di lì a poco scoppierà una guerra senza precedenti, che i suoi passi lo porteranno a Londra a scrivere poesie e che in Inghilterra lo aspetta un altro ragazzo, poco più grande di lui, che diventerà il suo migliore amico e il «miglior fabbro» dei suoi versi; non sa, soprattutto, che da tutto questo nascerà The Waste Land, il più visionario poema del XX secolo”.

È la storia di un incontro, della nascita di un’amicizia e di un capolavoro della poesia moderna ad opera di Thomas Stearns Eliot e del “miglior fabbro” , Ezra Pound, cosiddetto per i diversi suggerimenti che Eliot accoglierà di lui. Si conoscono a Londra, entrambi americani e entrambi con un soggiorno a Parigi, entrambi poeti, Ezra già autore di versi innovativi.

Un racconto che si muove tra biografia e romanzo dove non mancano carteggi, brevi poemetti, figure e nomi noti e sullo sfondo l’Europa della guerra e della crisi che l’attraversava.

“La voce della Sibilla è un’opera che piega i confini di biografia e finzione per restituirci il ritratto di uno scrittore in costante lotta con se stesso, introverso e sprezzante, colmo di angoscia e di poesia. La storia di un ragazzo come tanti e dell’incontro che ha cambiato la sua vita e, assieme, la letteratura del Novecento”.(da Il Saggiatore)

e anche

Brevi note biografiche

Filippo Tuena (Roma, 1953) ha vinto il premio Grinzane Cavour con Tutti i sognatori (1999) e il premio Bagutta con Le variazioni Reinach (2005). Il Saggiatore ha pubblicato Memoriali sul caso Schumann (2016), Com’è trascorsa la notte (2017), Le galanti (2019) e Ultimo parallelo (2021).

Ramón Gómez de la Serna “Elogio delle tette”

Reali, immaginate, sognate, ricercate, temute

Prefazione di Leo Osslan

Pagine 168, prezzo 13 euro Fefè Editore, 2022

 “QUESTO LIBRO È UNICO AL MONDO. GLI DÈI LO HANNO ASSISTITO. HA LA DELICATEZZA CHE È MAESTRA DEI GRANDI AMORI”

Contaminato dal Futurismo e precorrendo il Surrealismo, in questo ELOGIO DELLE TETTE nel 1917 Ramón Gómez ribalta le convenzioni letterarie e sociali dando vita a più di cento capitoli brevi originali incisivi, sulle due “cose” che (in parte) governano il mondo. Le protagoniste del libro sono allora: i seni fioriti, i seni di sirena, i seni delle monache, i seni della domenica, i seni alla veneziana, i seni senza punta… in un caleidoscopio di grande efficacia ed eleganza.

“Questo non è un libro pornografico” – scrive Ramón Gómez de la Serna nel prologo alla prima edizione del suo libro, nel 1918. Un secolo dopo queste parole sono del tutto condivisibili, e un’eventuale accusa di pornografia fa sorridere. Mentre invece, sempre ad un secolo di distanza, questo libro potrebbe essere accusato di “scorrettezza politica” rispetto all’attuale mainstream culturale. Ma i possibili dubbi vengono spazzati via o quanto meno passano in secondo piano, quando ci rendiamo conto della consistenza letteraria, della piacevolezza di lettura, della provocatorietà propulsiva, della visionarietà poetica, della creatività fantasmatica di cui questa centuria di racconti è impregnata.

RAMÓN GÓMEZ DE LA SERNA Scrittore, giornalista, aforista, saggista, drammaturgo e biografo spagnolo, estremamente prolifico, della generazione del Novecentismo futurista e sulla strada del surrealismo, inventore del genere della greguería: contrapposizione di idee, caratteri, affermazioni, con cui illuminò il panorama.

I prossimi “Elogi” in uscita in autunno:

• ELOGIO DELL’EBRAISMO di Raffaele Mantegazza

• ELOGIO DELLA LAICITÀ di Maria Mantello

Mario Donnini “Il buio del declino. Muhammad Ali: gli ultimi anni di una Leggenda”, Edizioni Mare Verticale

Mare Verticale Edizioni

pagine 150, prezzo 15,00 euro.

Muhammad Ali a tutt’oggi è considerato il più grande personaggio nella storia mondiale dello Sport. GOAT. The Greatest of All Time. Il più grande di tutti i tempi. Per ciò che ha ottenuto sul ring da pugile ma anche nella vita, col suo impegno pacifista e diretto alla promozione dell’eguaglianza a vantaggio degli afroamericani e idealmente di tutti coloro bersagli di pregiudizi di razza. Muhammad Ali, tra l’altro in questo 2022 ricorre l’80esimo anniversario dalla nascitaè anche boxeur e atleta dalla storia leggendaria e complessa, fino a oggi ampiamente raccontata, dettagliata e mitizzata ma caratterizzata da una sorta di zona tabù, scomoda e da evitare: l’ultima. Quella degli anni del declino da pugile e delle ultime e frequenti sconfitte.

Questo libro vuole accendere un faro, là dove fino a oggi nessuno aveva il coraggio di avventurarsi e osava andare, forse nel timore di sminuire, o rendere vulnerabile il campionissimo. E invece, proprio dal racconto emozionante del suo viale del tramonto, si scopre la grandezza ancora più calda e intima di un uomo straordinario e potente che non sa e non vuole arrendersi. E che, al contempo, in questa dolorosa, ultima parte della sua vita di atleta e personaggio unico, insegna a tutti noi a non arrendersi mai. Colpito ma inaffondabile e, proprio per questo, maledettamente interessante

Addentrarsi nelle pagine di questo libro significa viaggiare in una parte sorprendente e inesplorata dell’umana vicenda di un Grande che, dopo aver vinto, parlato e gridato per tutta la vita, impara alla fine, negli incontri di commiato, a perdere e a tacere, maturando e ingigantendo ancor più la sua scala di valori, l’intensità del suo vissuto e la coraggiosa attitudine a ergersi a modello di vita, sapendo finalmente non solo vincere ma anche in modo sublime mostrarsi ferito ma mai rinunciatario. Colpito e inaffondabile. Segnato è proprio per questo, maledettamente e per sempre, interessante.

Mario Donnini nasce a Gualdo Tadino (Perugia) nel 1965 ed è giornalista professionista dal 1994, anno dal quale inizia a lavorare all’interno della redazione del settimanale Autosprint, che lo vede tuttora in servizio. In veste di scrittore ha dato alle stampe ventinove libri, in gran parte incentrati su argomenti relativi al Motorsport. Con volumi-intervista dedicati a miti dei motori che hanno accettato di raccontarsi a lui, quali Giacomo Agostini, Mario Andretti e Alessandro Zanardi, oltre a ricognizioni narrative sulle leggende di Ayrton Senna e Gilles Villeneuve. La sua parabola narrativa va quindi a toccare le gare più affascinanti e pericolose nel mondo delle quattro ruote e delle due ruote, analizzando a più riprese la Mille Miglia, la 24 Ore di Le Mans e il Tourist Trophy dell’isola di Man. E basandosi sul suo libro “Nuvolari-Il rombo del cigno” il regista Tonino Zangardi nel 2018 gira il film “Quando corre Nuvolari”, avente per protagonista Alessandro Haber.

Marina Cvetaeva “Nemico pubblico”, presentazione

La lettera di Marina Cvetaeva a Berija è introdotta da uno scritto di Ezio Mauro ed è tradotta da Claudia Sugliano.

Una grande poetessa, una vita travagliata, una famiglia epurata dalla polizia del regime: emigrata nel 1922, tornò in Russia nel 1938, dove morì suicida nel 1941 a Kazan’, il marito Sergej Efron, arruolato tra i “bianchi” e spia dell’NKVD (la sigla: Commissariato del popolo per gli affari interni; era la polizia politica dell’Unione Sovietica dal 1934 al 1946, sostituito dal KGB) in Europa, venne giustiziato nel 1941, la figlia, Ariadna, arrestata nel 1939 e condannata ai campi di lavoro, fu riabilitata solo nel 1955.

È il 1939 e Marina scrive a Berija, il capo dell’NKVD ed esecutore delle purghe staliniane. È una preghiera: vuole notizie del marito e della figlia. È la testimonianza di una pagina terribile della storia contemporanea e della tragedia di una donna.

“Il 23 dicembre del 1939, Marina Cvetaeva, la grande poetessa russa, scrive a Lavrentij Pavlovič Berija, guida del ministero degli affari interni dell’Unione Sovietica, capo della polizia segreta. Vuole avere notizie in merito alla sorte del marito, Sergej Efron, e della figlia, Ariadna, arrestati due mesi prima. Con coraggio, la poetessa si erge e difesa della sua famiglia. Russo “bianco”, coinvolto, all’estero, in attività di controspionaggio – compreso l’omicidio della spia dissidente Ignace Reiss – il marito della Cvetaeva sarà fucilato nel 1941. La figlia, riabilitata nel 1955, non rivedrà mai più la madre”( da De Piante Editore)

e anche

Brevi note biografiche

Marina Cvetaeva (1892-1941) è tra le grandi poetesse di ogni tempo. Dal 1922 comincia un difficile esilio in Europa; ritornata in Unione Sovietica nel 1939, assiste all’arresto del marito e della figlia. Messa ai margini dal mondo letterario sovietico, sceglierà di morire, nella tarda estate del 1941. Il suo epistolario costituisce un’opera a parte, di granitica grandezza: tra i suoi interlocutori speciali ricordiamo Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke.

Javier Cercas “Il castello di Barbablù”, presentazione

Il castello di Barbablù è il terzo romanzo con protagonista Melchor Marín, ex poliziotto dal passato tenebroso; appassionato di libri, dopo la morte della moglie, lasciata la divisa, fa il bibliotecario a Gandesa. “Melchor è un personaggio pieno di rabbia, di dolore, di oscurità e di desideri di vendetta, di tutte le cose che ognuno di noi si porta dentro […]Ma è anche vero che Melchor è un personaggio pieno di luce e che, soprattutto in quest’ultima parte, la luce si impone all’oscurità”, dice di lui l’autore in una recente intervista a de Cataldo

La serie fu inaugurata da Terra Alta e seguita da Indipendenza. In questo terzo romanzo Martin si trova costretto a riprendere i panni del poliziotto alla scomparsa della figlia che non lascia traccia di sé dopo aver iniziato un viaggio con un’amica a Maiorca.

“Per Melchor comincia l’indagine più difficile della sua vita, in cui lo seguiranno solo pochi, fidati amici. Violenza, vigliaccheria, abusi di potere sono i tratti oscuri di un nemico dall’apparenza irreprensibile, ma il senso di giustizia di un padre non può arretrare di fronte alla paura”.(da Libri Guanda)

dello stesso autore su tuttatoscanalibri:

“Terra Alta”

Omaggio a Raffaele La Capria

La testimonianza di Giovanna Stanzione, di Egidio Lorito

su

E su mangialibri.com:

99 anni di Raffaele La Capria

e le recensioni ai suoi scritti

Ilaria Tuti “Come vento cucito alla terra”, presentazione

La vicenda si apre a Londra nel quartiere di Witechapel alla data 21 agosto 1914: Cate, “la dottoressa italiana” sta suturando una ferita sul volto di una giovane prostituta in un bordello dei sobborghi della città ed è qui che Flora Murray, anestesista e fisiatra, e Louisa Garrett Anderson, chirurgo, si presenteranno e la inviteranno ad unirsi alla squadra “composta da otto infermiere, quattro ausiliarie e tre dottoresse” con lo scopo di aprire un’unità chirurgica gestita da donne.

Questa è la storia dimenticata delle prime donne chirurgo, una manciata di pioniere a cui era preclusa la pratica in sala operatoria, che decisero di aprire in Francia un ospedale di guerra completamente gestito da loro. Ma è anche la storia dei soldati feriti e rimasti invalidi, che varcarono la soglia di quel mondo femminile convinti di non avere speranza e invece vi trovarono un’occasione di riabilitazione e riscatto.
Ci sono vicende incredibili, rimaste nascoste nelle pieghe del tempo. Sono soprattutto storie di donne. Ilaria Tuti riporta alla luce la straordinaria ed epica impresa di due di loro”
(da Libri Longanesi)

Una storia lontana, vera e poco conosciuta, la storia delle “lady doctors” donne medico, ma destinate, a quel tempo, a curare solo donne e bambini, specializzate pertanto prevalentemente in ginecologia e pediatria; ma con l’inizio della prima guerra mondiale Anderson e Murray, suffragette e membri della principale organizzazione militante che si batteva per il suffragio femminile, fondarono ospedali in Francia e a Londra gestiti esclusivamente da donne medico e da personale femminile dove, nonostante la loro mancanza di formazione e senza precedenti esperienze in medicina militare, intervennero chirurgicamente e curarono soldati feriti e mutilati in guerra.

Il titolo del romanzo parafrasa un verso della composizione, presentata dopo il frontespizio, di Marina Cvetaeva “L’amore è sutura, […] sutura, con cui il vento è cucito alla terra”

dello stesso autore su tuttatoscanalibri:

“Ninfa dormiente”

“Fiore di roccia”

André Aciman “Idillio sulla High Line”, presentazione

Traduzione di Valeria Bastia

I casi della vita: in questo ultimo romanzo Aciman racconta di un incontro fortuito tra Paul, un avvocato, e Catherine, una psicologa, entrambi in età matura, con figli e nipoti e matrimoni più o meno riusciti. Sono stati convocati per far parte della Giuria popolare, un’incombenza non sempre accettata favorevolmente, ma per i protagonisti, colti da un’attrazione spontanea e istintiva, potrebbe rappresentare un’occasione. Dopo le formalità legate ai colloqui in Camera di Consiglio, i due si concedono passeggiate, spuntini insieme e soprattutto colazioni all’aroma di caffè in un bar gestito da un ragazzo napoletano, Pirro, che a Paul ricorda le sue origini italiane. E i due protagonisti si troveranno di fronte ad una scelta: assecondare il proprio sentire o rinunciare ad una possibile pagina felice della loro vita.

“[…]Paul e Catherine coglieranno quella che potrebbe essere l’ultima opportunità di essere felici? Abilissimo cartografo dei sentimenti, André Aciman ha scritto un romanzo sul diritto all’amore, unica forma di resistenza possibile contro lo scorrere del tempo, che è il vero padrone delle nostre esistenze”. (da Guanda Libri)

Dello stesso autore su tuttatoscanalibri:

Mariana

L’ultima estate

Chiamami con il tuo nome e Cercami

Luisa Gianassi “Cammini” Edida, presentazione

In cartaceo e in ebook su Amazon

Presentazione

Cammini di Luisa Gianassi presenta una serie di componimenti articolati in quattro sezioni: Donna, Natura, Pace e Guerra, Attimi.

Il titolo di Cammini si lega all’essere versi nati dal contatto e dall’osservazione della natura trascorrendoci dentro in tutte le stagioni: il Mugello, uno dei paesaggi tra i più compositi e smaglianti della terra toscana, è il territorio in cui l’autrice è nata e vive, tra boschi e fertili pianure, poggi e vette, fossi e ruscelli. Una natura lussureggiante che, se saputa osservare e studiare, sa essere muta maestra, rifugio rasserenante, ritemprante e vitalizzante, con le sue bellezze, con le sue forze, anche feroci e ostili.

Un messaggio di serena energia è infatti quanto si respira tra i versi, un abbraccio che fa bene, soprattutto in situazioni tristi e disperanti come quelle che stiamo attualmente vivendo, nei nostri cammini a volte piani, altre faticosi e impervi, altre di insoddisfacente percorso o inutilmente estenuanti.

Salvina Pizzuoli