di Alberto Genovese
Anno straordinario il 1922 per le sorti della letteratura. James Joyce pubblica (a febbraio) Ulisse e Thomas Stearn Eliot (a ottobre) La terra desolata. Proust termina la stesura della Recherche e muore (il 18 novembre) dopo aver completato la correzione della Prigioniera, che uscirà postuma insieme agli ultimi due volumi (La fuggitiva e Il tempo ritrovato) fra il 1923 e il 1927.
Questa triade di scrittori è accomunata (se non si vuol credere, e non lo si deve, a una astruseria di calendario) dalla cesura senza ritorno dall’Epoca Bella, il cui tramonto venne segretamente profetizzato dal naufragio del Titanic, teorizzato da Spengler (il suo Untergang des Abendlandes furivisto sempre in quell’annus mirabilis che fu il 1922), concretato da un colpo di pistola a Sarajevo, seguito da un quinquennio di sinistro tuono di cannoni. Scriverà Churchill nel 1921: «Il vecchio mondo, nell’ora del suo tramonto era bello a vedersi».
Dopo il sanguinoso letargo della civiltà nelle trincee del primo conflitto mondiale, nulla poteva essere più come prima nella coscienza ferita degli uomini, e nell’arte, che sommamente la rappresenta. Quel 1922 non fu dunque l’editto di un dio bizzarro. Sarebbe andato bene anche qualche anno prima (Ezra Pound, con i suoi Poems del 1921) o qualche anno dopo (nel 1924 esce Der Zauberberg di Thomas Mann). Il 1922 è il segnacolo, nel mondo della letteratura, dell’avvento di un’altra epoca e di altri libri, libri che discesero come un Orfeo, dopo l’ennesimo scacco della ragione, nell’inferno della storia dell’uomo per portare alla luce il senso del suo esservi, il miracolo doloroso della sua autocoscienza. Quella lira ebbe molti e diversi toni, ma tutti, allora, nel 1922 e dintorni, cantarono la cosmogonia del Tempo.
Secondo un collaudato canone commerciale, si preferisce celebrare non l’apparizione di un’opera (che a ben vedere può essere incerta o discussa) ma il dì natale, o quello estremo, di un autore. Quindi nel novembre del 2022 è caduto l’anniversario della morte di Proust. Un secolo, ma la Recherche (per eponimia con il suo autore) non li dimostra. Si staglia come una fortezza inviolata dai molti, circondata dalle possenti mura delle sue quattromila pagine. Chi può dire di averla letta per intero? Ben pochi. E questo è un bene? In un certo senso sì, perché ne ha evitato la banalizzazione, il vile commercio nei conciliabili intellettuali, l’esausta reiterazione delle traduzioni; e per contro ha alimentato il rispetto che incute il lavoro immenso toccato per destino a un solo uomo, la stupita ammirazione di quello che lo spirito umano può in un corpo già fiaccato, che scrive, in lunghe notti insonni, “al raggio crepitante di una luce fulva”, un romanzo “che metterà a soqquadro i destini della letteratura”). Infine, la conferma dell’aura di sacralità di ogni libro. Perché questo è sicuro: la Recherche è la bibbia del romanzo del Novecento, i Veda della nostra letteratura. Passando dinanzi alla Recherche, questo “mausoleo di incomparabile fasto, edificato per sorvegliare la scienza delle sensazioni e degli attimi”, è come se ci si segnasse laicamente, ed è inevitabile che il pensiero corra ad essa, quasi inciampandovi, per un riflesso che suscitano le opere possenti, per comparare qualità e grandezza, se ve ne sono, di ciò che è venuto dopo. La Recheche è percolata nella nostra cultura, si è persino incistata nei modi di dire («Ah sì, il passato, certo mia cara, cosa vuoi, vado alla ricerca del tempo perduto…», dice all’amica l’iconica casalinga di Voghera). E in questo senso si può dire che sì, tutti abbiamo letto la Recherche, anche quelli di noi che non hanno nemmeno iniziato o portato a termine l’impresa, o che ne hanno una sommaria conoscenza. I grandi libri ci fanno coscienti delle domande che ci abitavano, senza che ne avessimo coscienza, già prima del loro apparire; e dopo essere stati pubblicati, avendo dato parola a quelle domande, noi ne reclamiamo l’uso comune, perché la materia da cui l’autore li ha tratti, con arte e con fatica, essendogli preesistente, appartiene a tutti. Non c’è usucapione nella cultura.

Fra i non molti libri che commemorano questo primo scorcio dell’anno proustiano (che per burocrazia del calendario dovrebbe terminare nel novembre del 2023) mi piace segnalare A Parigi con Marcel Proust. Le stagioni della memoria, di Luigi La Rosa (Giulio Perrone, Roma, 2022, pp. 138, euro 17). Il libro fa parte di una intelligente e nutrita collana – “Passaggi di dogana”- nella quale importanti scrittori, personaggi o artisti vengono raccontati nelle città e nei paesi dove il loro talento ha trovato dimora. Non il genio del luogo ma il luogo del genio. L’autore, siciliano, che si è già cimentato con il genere biografico (l’impressionista Caillebotte e Vincenzo Bellini i suoi recenti soggetti) vive da molti anni a Parigi. Avendo curato per il Touring Club la guida dei luoghi letterari della Ville Lumière ha avuto agio di raccontare la città dove Proust, salvo alcune brevi parentesi, trascorse l’intera sua esistenza. Il pregio del libro consiste nell’originalità della composizione narrativa e nella qualità della scrittura – apollinea e dolente, lirica e tersa. Interpretando con coerenza lo spirito della collana, La Rosa (certo avvalendosi della nota biografia di Painter, a cui salda il debito nella succinta bibliografia) organizza il tour proustiano in cinque tappe, cinque capitoli che portano il titolo delle case in cui visse Proust. E tuttavia en arrière, a ritroso, dall’ultima (44 rue Hamelin, dove visse per pochi mesi e dove morì; “Proust giunge qui sofferente e ammalato – d’ossessione, d’amore, di nostalgia indicibile…”) sino alla prima, quella sita al numero 9 di boulevard Malesherbes, dove trascorse l’infanzia e la prima giovinezza. Fra questi due poli di case (e capitoli del libro) se ne situano altre tre. Quella al numero 45 di Rue de Courcelles, abitata dalla famiglia dal 1900 al 1906, quando il “mago dei ricordi” frequenta la buona società. “Sono anni di scoperta, di fame di vita, che…Proust attraversa animato da una specie di ebbrezza”. In questa abitazione signorile – l’apogeo dei Proust – la morte stende “la tenebra che sta per divorare le molte stanze” della famiglia fra il 1903 e il 1905 (a quegli anni risalgono rispettivamente le morti del padre e della madre). La Recherche nasce in una nuova magione, al civico 102 di boulevard Haussmann. Assediato dai rumori, Proust decide di far tappezzare di sughero le pareti che si affacciano sul viale: il topos più noto della sua vita. Afflitto dall’asma e dall’ipocondria, trova nella scrittura un tormentato sollievo. “Solo dalle righe che gravano come ragnatele sui fogli può sperare salvezza…Tutto gli si chiude intorno come un sarcofago”. Scrive senza risparmiarsi e certo non giova alla sua salute psichica e mentale la necessità di un nuovo trasloco, anzi due. Dopo una parentesi di pochi mesi in rue Laurent-Pichat, trova casa al 44 di rue Hamelin. È l’ultimo atto della vita dello scrittore, che nel libro di Luigi La Rosa viene situato come primo capitolo. Vegliato dalla governante Céleste, riluttante a seguire gli amorevoli consigli del fratello minore, medico come l’augusto padre, Proust muore fra le cinque e le sei del pomeriggio di sabato 18 novembre del 1922.
Dicevamo dell’originalità di questo libro, che non si propone come una biografia (e come potrebbe, dopo Painter e Tadié, e in sole 130 pagine?) ma piuttosto come suggestione dei luoghi e delle memorie che questi custodiscono, fatte vive nelle pagine da una scrittura dall’andamento poetico, con il frequente ricorso a metafore di un certo incanto e a un periodare terso, mai banale. L’invenzione del libro è in quello che viene preannunciato dall’incipit (“Certi libri nascono da una ferita, e sanguinano il loro inchiostro loquace fino all’ultima goccia…anche questo è in qualche misura frutto di un dolore, che collima con i toni tenui dell’alba”), e che si capirà poco dopo. Mentre percorre Parigi alla ricerca delle dimore proustiane per evocarne l’epopea, La Rosa narra a sua volta la propria personale vicenda amorosa: dell’abbandono di Enrico (“…è andato via… ho finto di dormire mentre forzava gli indumenti nella valigia…Non lo chiamerò… mi rimarrà solo… un numero che non sarà mai in grado di cancellare dalla rubrica del telefono… Solo quando mi trovo davanti all’edificio in cui il grande scrittore francese chiudeva la sua esistenza, comprendo che un senso deve pur esserci. Queste pagine sono il tentativo di trovarlo.”), sino all’imprevisto apparire di un Nicolas che preannuncia una nuova stagione di vita. Nel libro si alternano gemellarità amorose, brani di vicende parallele, ricerca e fuga. “…chi è stato Marcel Proust?”, si chiede e ci chiede infine Luigi La Rosa. “Chi si nasconde dietro quello sguardo sospeso? L’opera è forse una delle maniere per raggiungerlo – e ritrovarlo. A voi stabilire se ve ne siano altre”.
Non v’è risposta a simili enigmi che non susciti ulteriori domande.
Le frasi riportate “fra virgolette” sono tratte dal libro di Luigi La Rosa
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