Hans Tuzzi, “Colui che è nell’ombra”, recensione di Alberto Genovese

“Varianti”, Torino, Bollati Boringhieri, 2024, br., 176 p., 16 €.

La poetica di questo romanzo, intendo il pensiero e la weltanschauung che sostanziano un’opera di narrativa, sta in buona evidenza sia nell’esergo (“Vada ciascuno in traccia di colui che è nell’ombra”, ma di questa ombra ne parleremo oltre) sia in due righe che si leggono nella prima pagina: <<Era un’altra Italia – era un altro mondo. E a descriverlo oggi, è difficile crederlo>>. L’altra Italia sono gli anni Trenta (<<quando ancora esistevano un Re divenuto Re Imperatore e una Consulta Araldica, e un nuovo Impero, benché in cartapesta>>). L’altro mondo, o meglio il mondo altro, è il mondo dell’anima, la terra natìa intesa come luogo in cui lo spirito si è formato, il focolare dei ricordi dove brillano le ultime faville di un mondo arcaico e fiabesco. Questa patria delle radici è il Friuli, e innominato scenario della vicenda è un borgo contadino. Là sorge, collinosa e inquieta, una villa nobiliare, dove i fatti del romanzo hanno il loro inizio, con una data da calendario (il 12 ottobre 1937: vano sfruculiare internet, nulla di memorabile accadde quel giorno) e avranno un loro epilogo ai nostri giorni, con una farsesca palingenesi. C’è da dissentire, e felicemente, con l’autore quando protesta la difficoltà di credere oggi nella rappresentazione che si può dare di quel piccolo mondo antico: al contrario, esso rivive in pagine di memorabile incanto. Qualche esempio:

<<(…)chi viveva fra mare e paludi mentre affondava il piede nell’umido spessore dei càrici sentiva di avanzare verso le età quando fiumi e mari erano un’acqua sola e gli antichi dèi camminavano fra i boschi e, chiuso in quell’orizzonte che sapeva avvolgerti, e confonderti, e smemorarti, sapeva dove correvano le nuvole e gli stormi di germani: alle alte vette innevate, dove l’anima soffre meno l’esilio(…)>>.

<<Sin da ragazzo, vagando per i colli boscosi, il mio Plutarco in saccoccia, prestavo ascolto al vento e al silenzio, e nella dolcezza del digradare del verde all’ora che il cuculo canta lontano, e il suo canto     risuona da un colle all’altro, alto oltre il seno della valle, e gli armenti ruminano laboriosi all’ombra  di un folto, e un lieve incresparsi dell’aria pare l’antica voce segreta dell’eterno Pan(…)>>. 

Pronubi la memoria e la nostalgia verso un mondo (<<bello e per sempre perduto… ricco nella sua povertà>>) e una società colti nel loro tramonto, prima che ne andassero smarrite rettitudine e autenticità, la lingua di Hans Tuzzi si dispiega in tutta la sua bellezza elegiaca. Il libro è prodigo di brani come quelli appena citati, e lasciamo ai lettori la felicità di scoprirne altri.
Nonostante l’autore faccia dire a un personaggio del romanzo che Pasolini non gli piace, l’ambientazione friulana della storia, gli ampi scorci dedicati al mondo contadino, i frequenti inserti dialettali rendono inevitabile l’accostamento al poeta di Casarsa, quantomeno nel sentimento di doglianza e di indignazione (si veda il furore dialettico nel capitolo che chiude il romanzo) per la frattura dissipativa e volgare del “moderno” rispetto alla schiettezza e nobiltà dell’”antico”. La distanza da Pasolini è tuttavia altrettanto evidente, e consiste nel valore assegnato al tempo perduto: se lo sguardo di entrambi è affisso al mondo contadino, quello di Pasolini fu antropologico e politico, metafora e filo rosso del suo pensiero protestante. La ruralità friulana evocata in questo romanzo da Hans Tuzzi è invece assente, o del tutto incidentale, nella sua precedente e nutrita bibliografia. Non le è consustanziale.  Posto che Colui che è nell’ombra non risulta ispirato a vicende storiche, la predilezione del Friuli come inedito (per il nostro autore) spazio dell’azione romanzesca sembra dettata più da un’urgenza biografica che da una necessità geografica dell’invenzione. Se tuttavia il debito di ricordi prevale sulla toponomastica, la terra di formazione ha una “resa” arcaica e numinosa che rende incerto il confine fra la necessità e l’invenzione. La magia dell’infanzia e della nascente coscienza dell’uomo-narratore (fosse pure la voce narrante) si è realizzata   in “quel” luogo e non in un altro. Il Friuli diviene allora il focolare dell’anima (l’intraducibile heimat dei tedeschi), la toponomastica del ricordo, cantato con lirica partecipazione da un brano rivelatore della speciale affezione dell’autore per l’età del mito, aurorale provvidenza, Eden pagano da cui l’uomo si è separato:

<<La pietra della mia terra, le pietre: eterne, potenti, contemporanee a ogni età perché racchiudono l’anima del mondo, ne sono la gran madre, sogni degli dèi, non donne né eroi, ma qualcosa di più antico, di precedente le donne e gli eroi, dèmoni primevi, prototipi di umanità che la Natura, trovandoli troppo smisurati, ha abbandonato nel sonno degli evi antichi>>.

Che il Friuli sia o meno un’occasione narrativa, si ravvisa con la sua antecedente produzione il punto di continuità: il concetto di “svilimento della grammatica di una civiltà”, espressione molto cara al nostro. Il tema dell’italico declino morale permea, infatti, Colui che è nell’ombra e ne sostanzia l’ultima parte. E si può anzi dire che, pur senza invadere le esigenze della fantasia e della lingua, tale questione, il nostro presente degrado politico e civile, già delineata lungo la serie delle indagini del commissario Melis (2002-2022) e non estranea a Vanagloria (2012), trova qui una sua compiuta enunciazione, come se vi si adempisse a un dovere e si presentasse il conto di un’idea.
Il libro narra le vicende di quattro generazioni di nobili (dal 1937, anno fondativo della narrazione, sino a indeterminati tempi odierni), ciascuna con i suoi scorci d’ombra. Come fosca e con sprezzature gotiche è l’antica dimora di famiglia: una villa secentesca, dove ha luogo per gran parte la storia. La descrizione del palazzo è un pezzo di virtuosismo: oltre a sapienti pennellate di scuro (<<… di notte, nelle notti senza luna, quando le ombre degli alberi correvano lungo la via bianca, e voci misteriose ne percorrevano le fronde, allora la villa, in alto, visibile dopo la penultima curva, appariva davvero pallida come il volto di un morto>>), lo scrittore ci restituisce in poche righe la cupezza dell’edificio, con un lessico allo stesso tempo preciso e immaginifico, accompagnando all’aggettivazione lirica una prosa denotativa, a tratti quasi “tecnica”:

    << …un rettangolo di due piani alti ciascuno quasi quattro metri. La facciata contava due ordini di sette finestre perfettamente simmetriche. All’imponente e severa solennità della struttura esterna l’ampio loggiato centrale scandito da quattro colonne doppie aggiungeva un ulteriore asse di simmetria poiché su di esso poggiava una balconata che si estendeva lungo le tre finestre centrali e in corrispondenza con esso si elevava, dal secondo piano del corpo centrale, in asse con la balconata, una torre a timpano con al centro, in rilievo, lo stemma di famiglia…>>. 

(E vien fatto di pensare alla rapsodica querelle sulla indolenza e sulla spocchia che affliggerebbero gli scrittori quando si tratta di soffermarsi sui manufatti e sulla tecnologia, ovvero di narrare la pragmatica dei dettagli e degli ingranaggi. Ma questa è roba per grandi critici…)
Ai lettori storici di Hans Tuzzi non sfuggirà, già dalle prima pagine di Colui che è nell’ombra, il possibile parallelo con Città di mare con nebbia (2015). Contigua è l’atmosfera di tenebre, diversa è tuttavia la riuscita timbrica: espressionista e immaginifico questo, senza obbligo di realtà; fosco ma incardinato negli eventi storici quello. Salvo due camei di gotico e sapiente bulino: l’infernale figura del “conte Folle“ e il misterioso suicidio della contessa Eleonora. Rimane per entrambi i titoli la fratellanza della lingua alta, che in Colui che è nell’ombra, per effetto del velo nostalgico, vira felicemente verso il lirismo.
Il romanzo si apre con una scena icastica: il conte Costanzo Avogadro, capitano di cavalleria, tornato in licenza dal suolo etiope, si trova dinnanzi il primogenito neonato. Invece di abbracciarlo con cura paterna rivolge all’infante <<uno sguardo di azzurra fermezza distillata da secoli di sangue blu. Uno sguardo spietato sulla natura profonda dell’animale uomo che ha poi attraversato il suo [del padre] intero, breve percorso terreno>>. Sarà il primo anello di una sotterranea lotta di potere fra padri e figli che vedrà coinvolte quattro generazioni, sino al drammatico epilogo, quando si consumerà il lento processo di erosione di una classe sociale a cui la storia ha voltato le spalle, e che con la storia, ovvero con l’aspetto più gaglioffo e reazionario della società italiana di questi nostri ultimi anni, l’ultimo degli Avogadro deciderà di contaminarsi. A sprezzo del vanto di separatezza della stirpe aristocratica dalla canea del soldo borghese e politicante. Così il lettore si spiegherà l’algida accoglienza che il conte Costanzo aveva riservato al suo primogenito (che peraltro lo ricambierà di simmetrica disaffezione), avendo intuito che era il primo pollone della decadenza. È soprattutto attorno a questo Cesare (che genererà un Curzio, che darà vita a sua volta a un Costanzo neonazista, chiudendo il cerchio con la logica degli opposti) che il romanzo prospera di felici invenzioni narrative, popolandosi di personaggi collaterali, sapidi e indimenticabili: Cussistà, un colosso reduce del Vajont, e da allora votato all’accudimento; Adair Macnab, uno scozzese delle terre alte, <<forse non vecchio ma senza età>>, gran conoscitore di cani, in fuga da una colpa antica; Genj di Nutte, seminarista, poi partigiano, poi prete e missionario; un cane eroico e persino un mansueto leone. E segnaliamo al lettore in pectore di questo libro anche una memorabile descrizione di una caccia alla volpe, patetica e cafona imitazione di una nobiltà svanita. La lunga descrizione della scena è un pezzo di ispirato virtuosismo linguistico.
E come sempre, nella bottega di Hans Tuzzi non mancano i tòpoi di conversazioni colte (si veda la disputa sul carattere delle lingue fra il conte Costanzo e un ambasciatore ospite), di note fulminanti, di incisi sapienziali, di simposi e passeggiate colte (ciò che l’autore stesso riassume con una bella locuzione come   <<certe affascinanti ragioni di meditazione>>); e di quell’inserto comico, mai assente,  con il quale asciuga d’improvviso quelle virgiliane lacrymae rerum a cui Tuzzi discretamente accenna in tutta la sua opera, e per pudore sempre tace. E quando, appunto, gli prende la malinconia del mondo, celia: qui racconta di un prelato che <<…pensò che nominare il pelo, e in relazione alla carità, che è femminile, e squisitamente umana, e dunque dagli artisti rappresentata da donna che per natura il pelo lo ha solamente….nominare il pelo non confaceva a un innocente>>.

La voce narrante del romanzo è quella di un giovane, Ménico, che diverrà amministratore della proprietà degli Avogadro. Il conte Costanzo, giudicando imminente la guerra e presentendo la sua morte, gli intima un giuramento: che continui a vegliare sulla casa e di <<restare per sempre vicino alla mia famiglia. Capisci? Per sempre! Giura!>>. Sarà questo “per sempre” che consentirà a Menico di continuare a narrare la sorte degli Avogadro e della loro dimora oltre i confini biografici che gli sarebbero consentiti. Il conte Costanzo esigerà che si sottoscriva fra loro anche un patto sovrumano: <<chi di noi primo trapasserà il confine tra ciò che chiamiamo Vita e ciò che chiamiamo Morte, il secondo giorno di novembre successivo alla dipartita, essendo esso il giorno della festività dei Defunti, allorché incerti si fanno i confini e i varchi sono aperti, egli, Corporeo o Incorporeo, comparirà allo Stipulante sopravvissuto per rivelargli il mistero che tutti ci attende>>. Lasciamo ai lettori di sapere se questo avverrà o meno, e sotto quale fattispecie. Resta singolare l’artificio narrativo di concedere alla stessa voce narrante di un vivo di continuare a raccontare ciò che accadrà dopo la sua morte cosicché, morendo all’autore, dà all’autore la libertà di muoversi e trapassare i muri dello spazio e del tempo della narrazione.
Ma chi è Colui che è nell’ombra, come recita il titolo dell’opera? È il tenebroso committente di un esoterico gioco divinatorio che si nasconde nei simboli di un mazzo di dieci carte di sapienziale fattura? E quale Ombra lo cela?  O forse che il Male, come Ménico intuisce in un sogno, non è allo stesso tempo la persona e la cosa che la abita?  Il soggetto, che reclama la cerca di Colui, è egli stesso Colui, nonché egli stesso l’inconsapevole ricetto, cioè l’Ombra, della delittuosa sostanza che si è insinuata sin dall’inizio dei tempi nella nostra coscienza. Di fronte alla vastità di una simile questione e alla sua occulta pervasività nella vita individuale e nella Storia, la letteratura può metterne in scena l‘inquietudine, bisbigliare suggestioni e indizi, come Mènico in un suo caliginoso sogno (di sogni ne farà due, uno da vivo e uno da morto):

<<E io adesso intuivo cos’era il Male: era un’ombra, una macchia dalla quale non potevi non essere contaminato. Vittima o oppositore, entrava in te, era in te, ti costringeva a pensarlo, a saperlo presente, a scendere sul suo terreno. E il suo segno era una cupa, indefinita paura>>.

La paura che nessuno possa dirsi innocente sino in fondo (“Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi ti potrà resistere?”, già declamava il salmista) afferra anche Ménico, con uno sgomento cosmico:

<<Quali animali strisciavano, correvano, volavano in quella notte? Una preghiera contro l’oscurità? Dov’era Dio, in quell’ora? Dove, oltre il buio? Chi difendeva la Casa della Vita? Chi la minacciava?>>.

La risposta che si dà Ménico è il ritorno alla deità classica:

<<No, non mi sovvenne una preghiera al mio Dio, ma i versi venerandi di un pagano: “Verso la metà della notte, quando i cani e gli uccelli tacciono, allora l’uomo memore degli antichi riti, l’uomo che teme gli dèi…”. L’uomo timorato… gli antichi riti…>>,

in assoluta coerenza con la postura linguistica dell’autore, profondamente (e pensiamo orgogliosamente) debitore alla letteratura classica, evidente nella nitida bellezza della frase e nel suono apollineo che illuminano molte pagine di questo Colui, più e meglio di altri suoi precedenti romanzi, essendone questo una sorta di summa.
Né si può trascurare una più alta e definitiva questione che Ménico, voce narrante dall’aldilà, come si è detto, per causa di una promessa e di una carta destinale, rivolge a sé stesso in un soliloquio in cui si danno convegno, fra molti altri, con lampi di parole, il greco dell’eterno ritorno delle cose (per il quale pensiamo che Tuzzi parteggi), Kant, Pascal, Ivan Karamazov… Vale la pena di riportarlo almeno in parte.

<<E questa immensa Potenza, questo Uno che può far così tanto, come può tollerare il Male, la fame, la malattia, la morte, la sofferenza dell’innocente, del bambino infilzato su una picca, del cucciolo straziato dallo sciacallo? La risposta è una sola: quest’Uno non ha né Bene né Male, è solamente fluire di vite, senza premio o pena che non sia su questa terra, paradiso dei forti, dei violenti. Ma, se così fosse, perché sono qui?>>.

Si capisce che Tuzzi cerca un redde rationem del suo pensiero di uomo, oltre che di letterato, lavorìo inaugurato, con accenti più brillanti, in Vanagloria (2012) e proseguito, più meditabondo, con Nessuno rivede Itaca (2020) e Ma cos’è questo nulla? (2022). 
Anche in questo suo romanzo, Hans Tuzzi si concede volentieri al lessico prezioso, più che in altre sue opere: aucupario, cacume, sollo, schidionato, navalestro, sfaglio, matreggiare eccetera, hanno qui una maliziosa ragione, ovvero quella di antergare, se così si può dire, la cronologia del linguaggio, marezzando la narrazione di termini consonanti con i tempi che vengono narrati. Ciò che si potrebbe altrimenti definire “mimetismo linguistico”, se non fosse che l’autore si contiene nel pigiare il pedale del desueto per non appesantire la fluidità del racconto e non scivolare nel dandismo lessicale. Ma se qualcosa abbiamo compreso leggendo le opere di Tuzzi, c’è anche una sottintesa ragione politico-letteraria nell’uso del vocabolo tramontato: la rivolta contro la disarmante sciatteria della prosa di molti contemporanei.
Si ritrovano in questo romanzo tutti i temi delle altre opere che l’hanno preceduto, quali la poetica, la postura narrativa, il vagabondaggio erudito, il lirismo, il celato sentimento del sole che “risplende sulle sciagure umane”, lo sguardo corrosivo e impotente sulla decadenza e la volgarità dei costumi, la filosofia della storia incarnata nel contrasto delle generazioni. Ma è soprattutto nella lingua che Hans Tuzzi attinge qui il punto più alto della sua produzione: preziosa ed esatta, potente e fascinosa, ordita con la filigrana dei grandi classici, incantevole e a tratti numinosa, essa ci appare, nel presente della nostra letteratura, quasi unica e ultimativa. Anche per questo aspetto, Colui che è nell’ombra si rivela essere il compendio di questo singolare scrittore, silenziosamente protestante, (et pour cause trascurato dai grandi premi), certamente il suo capolavoro. E, quasi fosse un’opera prima, si attende un’opera seconda, per confermarne la grandezza.

Di Alberto Genovese su tuttatoscanalibri:

L’alternativa del cavaliere

Le recensioni di Alberto Genovese

Omaggio a: Hans Tuzzi e l’ultimo Melis “Ma cos’è questo nulla?”

Un secolo di Proust (per tacer degli altri)

Stefania La Via “Persistenze. Parole, memorie frammenti”

Un secolo di Proust (per tacer degli altri)

di Alberto Genovese

 Anno straordinario il 1922 per le sorti della letteratura. James Joyce pubblica (a febbraio) Ulisse e Thomas Stearn Eliot (a ottobre) La terra desolata. Proust termina la stesura della Recherche e muore (il 18 novembre) dopo aver completato la correzione della Prigioniera, che uscirà postuma insieme agli ultimi due volumi (La fuggitiva e Il tempo ritrovato) fra il 1923 e il 1927.

    Questa triade di scrittori è accomunata (se non si vuol credere, e non lo si deve, a una astruseria di calendario) dalla cesura senza ritorno dall’Epoca Bella, il cui tramonto venne segretamente profetizzato dal naufragio del Titanic, teorizzato da Spengler (il suo Untergang des Abendlandes furivisto sempre in quell’annus mirabilis che fu il 1922), concretato da un colpo di pistola a Sarajevo, seguito da un quinquennio di sinistro tuono di cannoni. Scriverà Churchill nel 1921: «Il vecchio mondo, nell’ora del suo tramonto era bello a vedersi». 

    Dopo il sanguinoso letargo della civiltà nelle trincee del primo conflitto mondiale, nulla poteva essere più come prima nella coscienza ferita degli uomini, e nell’arte, che sommamente la rappresenta. Quel 1922 non fu dunque l’editto di un dio bizzarro. Sarebbe andato bene anche qualche anno prima (Ezra Pound, con i suoi Poems del 1921) o qualche anno dopo (nel 1924 esce Der Zauberberg di Thomas Mann). Il 1922 è il segnacolo, nel mondo della letteratura, dell’avvento di un’altra epoca e di altri libri, libri che discesero come un Orfeo, dopo l’ennesimo scacco della ragione, nell’inferno della storia dell’uomo per portare alla luce il senso del suo esservi, il miracolo doloroso della sua autocoscienza. Quella lira ebbe molti e diversi toni, ma tutti, allora, nel 1922 e dintorni, cantarono la cosmogonia del Tempo.

    Secondo un collaudato canone commerciale, si preferisce celebrare non l’apparizione di un’opera (che a ben vedere può essere incerta o discussa) ma il dì natale, o quello estremo, di un autore. Quindi nel novembre del 2022 è caduto l’anniversario della morte di Proust. Un secolo, ma la Recherche (per eponimia con il suo autore) non li dimostra. Si staglia come una fortezza inviolata dai molti, circondata dalle possenti mura delle sue quattromila pagine. Chi può dire di averla letta per intero? Ben pochi. E questo è un bene? In un certo senso sì, perché ne ha evitato la banalizzazione, il vile commercio nei conciliabili intellettuali, l’esausta reiterazione delle traduzioni; e per contro ha alimentato il rispetto che incute il lavoro immenso toccato per destino a un solo uomo, la stupita ammirazione di quello che lo spirito umano può in un corpo già fiaccato, che scrive, in lunghe notti insonni, “al raggio crepitante di una luce fulva”, un romanzo “che metterà a soqquadro i destini della letteratura”). Infine, la conferma dell’aura di sacralità di ogni libro. Perché questo è sicuro: la Recherche è la bibbia del romanzo del Novecento, i Veda della nostra letteratura. Passando dinanzi alla Recherche, questo “mausoleo di incomparabile fasto, edificato per sorvegliare la scienza delle sensazioni e degli attimi”, è come se ci si segnasse laicamente, ed è inevitabile che il pensiero corra ad essa, quasi inciampandovi, per un riflesso che suscitano le opere possenti, per comparare qualità e grandezza, se ve ne sono, di ciò che è venuto dopo. La Recheche è percolata nella nostra cultura, si è persino incistata nei modi di dire («Ah sì, il passato, certo mia cara, cosa vuoi, vado alla ricerca del tempo perduto…», dice all’amica l’iconica casalinga di Voghera). E in questo senso si può dire che sì, tutti abbiamo letto la Recherche, anche quelli di noi che non hanno nemmeno iniziato o portato a termine l’impresa, o che ne hanno una sommaria conoscenza. I grandi libri ci fanno coscienti delle domande che ci abitavano, senza che ne avessimo coscienza, già prima del loro apparire; e dopo essere stati pubblicati, avendo dato parola a quelle domande, noi ne reclamiamo l’uso comune, perché la materia da cui l’autore li ha tratti, con arte e con fatica, essendogli preesistente, appartiene a tutti. Non c’è usucapione nella cultura.

    Fra i non molti libri che commemorano questo primo scorcio dell’anno proustiano (che per burocrazia del calendario dovrebbe terminare nel novembre del 2023) mi piace segnalare A Parigi con Marcel Proust. Le stagioni della memoria, di Luigi La Rosa (Giulio Perrone, Roma, 2022, pp. 138, euro 17). Il libro fa parte di una intelligente e nutrita collana – “Passaggi di dogana”- nella quale importanti scrittori, personaggi o artisti vengono raccontati nelle città e nei paesi dove il loro talento ha trovato dimora. Non il genio del luogo ma il luogo del genio. L’autore, siciliano, che si è già cimentato con il genere biografico (l’impressionista Caillebotte e Vincenzo Bellini i suoi recenti soggetti) vive da molti anni a Parigi. Avendo curato per il Touring Club la guida dei luoghi letterari della Ville Lumière ha avuto agio di raccontare la città dove Proust, salvo alcune brevi parentesi, trascorse l’intera sua esistenza. Il pregio del libro consiste nell’originalità della composizione narrativa e nella qualità della scrittura – apollinea e dolente, lirica e tersa. Interpretando con coerenza lo spirito della collana, La Rosa (certo avvalendosi della nota biografia di Painter, a cui salda il debito nella succinta bibliografia) organizza il tour proustiano in cinque tappe, cinque capitoli che portano il titolo delle case in cui visse Proust. E tuttavia en arrière, a ritroso, dall’ultima (44 rue Hamelin, dove visse per pochi mesi e dove morì; “Proust giunge qui sofferente e ammalato – d’ossessione, d’amore, di nostalgia indicibile…”) sino alla prima, quella sita al numero 9 di boulevard Malesherbes, dove trascorse l’infanzia e la prima giovinezza. Fra questi due poli di case (e capitoli del libro) se ne situano altre tre. Quella al numero 45 di Rue de Courcelles, abitata dalla famiglia dal 1900 al 1906, quando il “mago dei ricordi” frequenta la buona società. “Sono anni di scoperta, di fame di vita, che…Proust attraversa animato da una specie di ebbrezza”. In questa abitazione signorile – l’apogeo dei Proust – la morte stende “la tenebra che sta per divorare le molte stanze” della famiglia fra il 1903 e il 1905 (a quegli anni risalgono rispettivamente le morti del padre e della madre). La Recherche nasce in una nuova magione, al civico 102 di boulevard Haussmann. Assediato dai rumori, Proust decide di far tappezzare di sughero le pareti che si affacciano sul viale: il topos più noto della sua vita. Afflitto dall’asma e dall’ipocondria, trova nella scrittura un tormentato sollievo. “Solo dalle righe che gravano come ragnatele sui fogli può sperare salvezza…Tutto gli si chiude intorno come un sarcofago”. Scrive senza risparmiarsi e certo non giova alla sua salute psichica e mentale la necessità di un nuovo trasloco, anzi due. Dopo una parentesi di pochi mesi in rue Laurent-Pichat, trova casa al 44 di rue Hamelin.  È l’ultimo atto della vita dello scrittore, che nel libro di Luigi La Rosa viene situato come primo capitolo. Vegliato dalla governante Céleste, riluttante a seguire gli amorevoli consigli del fratello minore, medico come l’augusto padre, Proust muore fra le cinque e le sei del pomeriggio di sabato 18 novembre del 1922.

    Dicevamo dell’originalità di questo libro, che non si propone come una biografia (e come potrebbe, dopo Painter e Tadié, e in sole 130 pagine?)  ma piuttosto come suggestione dei luoghi e delle memorie che questi custodiscono, fatte vive nelle pagine da una scrittura dall’andamento poetico, con il frequente ricorso a metafore di un certo incanto e a un periodare terso, mai banale. L’invenzione del libro è in quello che viene preannunciato dall’incipit (“Certi libri nascono da una ferita, e sanguinano il loro inchiostro loquace fino all’ultima goccia…anche questo è in qualche misura frutto di un dolore, che collima con i toni tenui dell’alba”), e che si capirà poco dopo.  Mentre percorre Parigi alla ricerca delle dimore proustiane per evocarne l’epopea, La Rosa narra a sua volta la propria personale vicenda amorosa: dell’abbandono di Enrico (“…è andato via… ho finto di dormire mentre forzava gli indumenti nella valigia…Non lo chiamerò… mi rimarrà solo… un numero che non sarà mai in grado di cancellare dalla rubrica del telefono… Solo quando mi trovo davanti all’edificio in cui il grande scrittore francese chiudeva la sua esistenza, comprendo che un senso deve pur esserci. Queste pagine sono il tentativo di trovarlo.”), sino all’imprevisto apparire di un Nicolas che preannuncia una nuova stagione di vita.  Nel libro si alternano gemellarità amorose, brani di vicende parallele, ricerca e fuga. “…chi è stato Marcel Proust?”, si chiede e ci chiede infine Luigi La Rosa. “Chi si nasconde dietro quello sguardo sospeso? L’opera è forse una delle maniere per raggiungerlo – e ritrovarlo. A voi stabilire se ve ne siano altre”.

    Non v’è risposta a simili enigmi che non susciti ulteriori domande.


Le frasi riportate “fra virgolette” sono tratte dal libro di Luigi La Rosa

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Hans Tuzzi e l’ultimo Melis: Ma cos’è questo nulla?

Daniela Alibrandi “I delitti negati. Nei sacri sotterranei”, recensione di Salvina Pizzuoli

da oggi 9 dicembre in libreria

Un commissario, Riccardo Rosco, è protagonista delle pagine di Daniela Alibrandi che portano il titolo I delitti negati, un’espressione che, oltre al titolo, compare tre volte nel romanzo, lasciando aperta al lettore, soprattutto all’inizio, una duplice interpretazione delle maglie investigative che si andranno via via dipanando.

Un personaggio, quello del commissario che l’autrice tratteggia delineandone, nel corso degli avvenimenti e situazioni, la travagliata personalità: solo al termine il lettore conoscerà i suoi caratteri fisici, poche anche le volte in cui viene indicato con il nome proprio: è schivo, taciturno con una caparbia volontà e capacità di seguire una pista, quella giusta. La sua vita è il suo lavoro, ma solo fino al penultimo caso durante il quale un’ingenuità professionale lo fa destinare ad altra sede. Solo lì, nella distanza, scorge finalmente quanto spazio egli abbia negato a se stesso e alla propria vita di relazione: la moglie, la famiglia, gli stessi collaboratori, la sua squadra che, in questa nuova situazione, sente vicini e ai quali si scopre legato affettivamente.

Troppo preso e forse troppo presuntuoso, ha accolto nella propria vita solo ciò che potesse mettere in luce il suo acume di investigatore, fino a spingersi oltre e mettere a repentaglio anche la propria incolumità. Ma nella distanza, nel cambiamento totale, senza che la sua perspicacia si spenga, sa ritrovare se stesso e i valori dimenticati.

Uomo e commissario, individuo e segugio: caratteristiche che non possono essere separate dalla vicenda perché il nostro protagonista sa indagare e venire a capo di un’intrigata e sordida storia dove Roma e la Città del Vaticano sono protagoniste, ciascuna con la propria bellezza e grandiosità, a volte anche mostruosa, a volte sprezzante e altezzosa, in un contesto storico preciso, gli anni ‘80, quando la risoluzione dei casi si affidava esclusivamente all’ingegno degli investigatori.

E la vicenda scorre in una forma piana e schietta, tra i molti personaggi, i paesaggi e gli ambienti, in questo romanzo ricco di descrizioni e di scorci filtrati dal sentire di chi li guarda e li vive:

Roma, d’estate, d’autunno, di primavera e adesso d’inverno, Roma l’antica, l’infinita, l’impareggiabile. Storia immensa e odore acre di legna bruciata, l’umido del fiume misto al marcio delle foglie cadute dai platani. Un elisir che invadeva le sue vene come un bicchierino di cognac bevuto di mattina.

La cupola di San Pietro sulla destra, maestosa e immensa, brillava in quel momento, colpita dai raggi del sole invernale, che iniziava la sua discesa verso il gelido tramonto. Di fronte le Mura Vaticane, il confine sicuro, il baluardo che assicurava alle anime, anche alle più oscure, la difesa di una cortina impenetrabile.

E, non per ultima, una voce fuori campo.

Compare spesso al termine di vari capitoli con un preciso distacco anche grafico dal testo principale: parole dolorose di peccati e di fede, di volontà di giustizia terrena. Di chi sono?

Salvina Pizzuoli

Dello stesso autore per Ianieri Editore, precedenti edizioni oggi fuori catalogo, anche gli altri due della trilogia :

“Delitti Fuori Orario”  

Delitti Postdatati”.

e sempre su tuttatoscanalibri 

Daniela Alibrandi, Quelle strane ragazze

Daniela Alibrandi, Nessun segno sulla neve

Daniela Alibrandi “Una morte sola non basta”

Daniela Alibrandi “Un’ombra sul fiume Merrimack”

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4 Simonetta Agnello Hornby “Piano nobile

Per la narrativa straniera

1 Ken Follett “Fu sera e fu mattina

2Valérie Perrin “Cambiare l’acqua ai fiori

6Valérie Perrin “Il quaderno dell’amore perduto

8 Michael Connelly” La morte è il mio mestiere

10 Toshikazu Kawaguchi “Finché il caffè è caldo”

Olga Tokarczuk “I vagabondi” recensione di Salvina Pizzuoli

Sono “i vagabondi” i protagonisti di questa serie di storie che vagabondano anch’esse da una all’altra, seguono vie e strade sulle quali andare, sempre in movimento, mai stanziali, senza mai mettere radici. È questo il fil rouge che le collega, a partire dal primo racconto della narratrice da cui si aprono una serie di brevi scorci e di momenti più ampi che regalano al lettore riflessioni, situazioni irripetibili di vite in movimento, perché “nonostante tutti i pericoli – è sempre meglio ciò che è in movimento rispetto a ciò che sta fermo; che il cambiamento è sempre più nobile della stabilità”.

E precisando ulteriormente, la narratrice dà una lettura della vita sedentaria “quella strana vita in cui al mattino si ritorna su quanto si è lasciato incompiuto la sera prima, dove i vestiti s’impregnano dell’odore del proprio appartamento e i piedi infaticabili tracciano sentieri d’usura sul tappeto” una definizione originale nelle metafore, i cui termini sono incisivi e il linguaggio colpisce e chiarisce il sentire, anche per immagini. La narratrice infatti aggiunge suggestione a suggestione quando scrive “evidentemente mi mancava quel gene che fa sì che quando ti trattieni a lungo in un certo luogo ci metti radici […] ma le mie radici erano sempre troppo corte […] non riuscivo a germogliare”. Un linguaggio semplice ma incisivo, altre volte colto, altre dissacrante e dirompente, comunque imprevedibile, caratterizza le pagine del raccontato.

E il viaggio continua facendo incontrare al lettore tanti vagabondi: c’è Kunicki che attende moglie e figlio che, scesi dall’auto al margine di un oliveto in un’isola della Croazia, scompaiono. E il racconto s’interrompe per accogliere nuovi protagonisti, per poi riprendere e concludersi solo in fondo al libro, dopo un intermezzo di altre storie che raccontano luoghi e oggetti e incontri che sono anch’essi “viaggio”, l’aeroporto o il treno dei vigliacchi o i cosmetici da viaggio, ma anche digressioni come per gli assorbenti sulle cui confezioni non ha senso stampare fiori e fragole “perché la carta è stata creata per essere portatrice di idee”. Oppure continuano in un’altra a cui si aggiungono nuovi personaggi come ne I viaggi del signor Blau, confluisce ne Il tendine di Achille cui segue Storie di viaggio in cui si legge “Faccio bene a raccontare delle storie? Non farei meglio a bloccare la mente con una graffetta, tirare le redini ed esprimermi non tramite racconti ma con la semplicità di una lezione”…

Certo, risponderebbe il lettore, una storia resta più impressa di un sermone, ha personaggi in cui immedesimarsi, da amare o respingere.

E il raccontato scorre come le acque di un fiume, come l’Oder con cui si apre il primo viaggio della narratrice, si muove  impetuoso o lento, riceve altre acque. Non è un vero romanzo, secondo i canoni classici, e nemmeno una serie di racconti che si chiudono e si riaprono altrove, è guardare con occhi sempre nuovi, appuntare e proporre queste notazioni a chi insieme a quell’acqua di fiume percorre la corrente con il libro in mano, e ne è catturato, così come dagli incontri stravaganti con persone e situazioni, come con Aleksandra o Eryk, o da tutti gli studi e gli effetti della plastinazione ultimo traguardo della conservazione di un corpo, in uno stupefacente zibaldone che scorre tra riflessioni serie e leggere, perché “Vedere è sapere”

e anche:

Olga Tokarczuk premio Nobel per la Letteratura

André Aciman “Chiamami col tuo nome” e “Cercami” recensioni su mangialibri

 

 

La vede salire alla stazione di Firenze. Apre la porta scorrevole di vetro, entra nella carrozza e dopo essersi guardata intorno scaraventa lo zaino sul sedile vuoto accanto a quello di lui. Si leva il giubbotto di pelle, posa il libro che sta leggendo (un tascabile in inglese), mette una scatola bianca quadrata nella cappelliera e si accascia sulla poltrona di traverso rispetto a lui, che non può fare a meno di chiedersi come mai quella ragazza così bella abbia quell’aria così cupa.

continua a leggere la recensione di Gabriele Ottaviani da mangialibri

Metà degli anni ‘80, B. in Riviera. “L’ospite dell’estate. L’ennesima scocciatura”. Questo sta pensando Elio, diciassette anni, quando lo vede scendere dal taxi, “camicia svolazzante aperta sul davanti, occhiali da sole, cappello di paglia, pelle ovunque”. Lui è Oliver, ventiquattro anni, ebreo di New York arrivato in Italia per lavorare alla tesi del post dottorato, ospite del padre di Elio, un professore universitario che ogni anno nei mesi estivi offre alloggio nella sua bella villa sul mare a studenti stranieri, in cambio di un po’ di aiuto col suo lavoro e con la corrispondenza.

continua a leggere la recensione di Alessandra Farinola su mangialibri

 

Dello stesso autore su tuttatoscanalibri:

L’ultima estate

Francesco Recami “L’atroce delitto di via Lurcini. Commedia nera n. 3”

 

vai alla recensione di Roberto Iovacchini

leggi l’intervista all’autore  dal Corriere fiorentino

dello stesso autore su tuttatoscanalibri:

Il diario segreto del cuore recensione di Ermanno Paccagnini

e anche:

su mangialibri le recensioni ai romanzi di Francesco Recami

 

 

 

 

Chiara Valerio “Il cuore non si vede” recensione di Susanna Nirenstein da La Repubblica cultura 22 settembre

Il nuovo romanzo di Chiara Valerio

Le metamorfosi di Andrea uomo senza cuore

da Susanna Nirenstein

«Una mattina, dopo sogni inquieti, Andrea Dileva si era svegliato nel suo letto, senza il cuore». Non vi sbagliate, l’incipit è identico a quello de La metamorfosi di Kafka: per chi avesse dei dubbi, eccolo qui: «Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati (ma alcuni traduttori li definiscono inquieti), si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo». In una letterata come Chiara Valerio, la citazione non può essere casuale, è la descrizione realistica di una realtà assurda, di un uomo che si trova a dover affrontare, trasformato, menomato, un nuovo capitolo della vita, breve o lungo che sia. E d’altra parte la fascinazione per Kafka per una quarantenne che dei libri ha fatto la sua passione primaria, è cosa certa: non può essere altrimenti in un’autrice di numerosi romanzi, saggi, soggetti cinematografici, testi teatrali, responsabile della narrativa italiana della casa editrice Marsilio, editor per anni a Nottetempo, direttrice culturale della prima edizione di “Tempo di libri”, la nuova fiera di Milano, e chissà quali altre miriadi di attività di Chiara Valerio ci scordiamo.  Dunque Kafka. Ma le somiglianze tra il capolavoro del maestro boemo e Il cuore non si vede, appena uscito per i tipi di Einaudi, della nostra Valerio, si fermano qui? A prima vista sì. […]

 

L.S.Larson “Igist” un nuovo romanzo e un nuovo modo di leggere recensione di Maria Berlinguer da La Stampa del 13 settembre

L’esperimento di Luke S. Larson

Una app per entrare nel romanzo e parteciparvi come un ologramma

 


Vostro figlio/figlia sta tutto il giorno incollato allo smartphone e non apre un libro neanche se lo pagate? Provate con «Igist». È possibile che cambi idea quando con una speciale app potrà immergersi nella realtà immaginifica del romanzo e trasformarsi in un ologramma, scattarsi dei selfie e interagire con i personaggi. L’idea davvero brillante è di Luke S. Larson, giovane imprenditore e scrittore americano che ha lanciato il suo romanzo di formazione rivolto al pubblico dei ragazzi, già uscito negli Usa con molto successo.
Sul filone degli Harry Potter e di Star Wars Igist narra la storia di Emi, la giovane protagonista che fa di tutto per essere ammessa nella più prestigiosa università: l’Intergalactic Institute of Science and Thecnology (Igist, appunto). Il mondo è in pericolo e la nostra eroina deve trovare l’antidoto per salvarlo. Fin qui niente di straordinario, a parte il fatto che la protagonista del romanzo è una ragazza. […] È il primo romanzo che propone una lettura da realtà aumentata. Acquistando il libro si più scaricare gratuitamente una app che consente al lettore, presumibilmente un ragazzino, di entrare nella trama e interagire con i protagonisti. Una rivoluzione totale nella lettura di un romanzo che presto diventerà una saga.
Appena si apre la app un messaggio ti avverte: «se hai una copia cartacea de libro puoi usare la fotocamera per scansionare le immagini dei capitoli dando loro vita».[…](da Maria Berlinguer La Stampa)