di Flavia Piccinni
«Se vuoi vedere la stella, guarda dove non è. Dove la vedono tutti, lì è più facile che non ci sia, perciò non fidarti né di quello che dicono gli altri, né dei libri, né dei tuoi occhi: niente. Piuttosto vai alla cieca. Il caos è tale e il buio è così fitto che avrai maggiori speranze di riuscire». È questa la bussola da tenere a mente mentre si legge il nuovo libro della senese Silvia Cassioli, classe 1971. “Il figliolo della terrora” (Exòrma, pp. 194) è un libro curioso, dalla prosa piana e suadente, che accompagna il lettore nella storia di tre donne fra di loro molto diverse, che raccontano ognuna i tic del tempo che vivono. Ad aprire la narrazione è forse la più riuscita, Rosina Terrosi, che «nasce nel 1926 a Scòrcina, in provincia di Siena, da una famiglia di povera gente. Lavora come operaia al pelificio Itapel, dove conciano il pelo di coniglio per farci i Borsalino, ai tempi in cui i capelli sono signori cappelli». Ma c’è anche Giglia – che «da quando ha la macchina continua a correre avanti e indietro da Milano a Rondole Maderno. A scuola continuano a bocciarla. È la disperazione della sala insegnanti. Esercita sugli uomini un’attrazione magnetica. Vive per dipingere quadri che però butta via» – e Viola, che «la sera va a dormire col proposito di diventare come San Francesco e lanciare dalla finestra tutti i beni di famiglia» e che, alla fine, viene cambiata da quella realtà fatta di «stragi di Stato, Brigate Rosse, e grandi manifestazioni in piazza. La storia corre da un’altra parte, e lei è stufa di poetesse e petrarchisti». Pagina dopo pagina, “Il figliolo della terrora” si rivela un romanzo denso, che profuma di campi con l’erba nuova e riecheggia di Chianti e di Toscana; una Toscana che esisteva un tempo, e che tutt’oggi continua a resistere e si popola di citte (ragazze), di leggende, di paesi e di vita. Quella vita esplosiva e dirompente che tutto travolge, finanche il lettore che resterà sorpreso dalla lingua e dalla storia firmata da Cassioli.