Editrice Laurum
Un romanzo datato 2003 di una scrittrice non molto conosciuta ma che merita, a mio avviso, di essere sottratta all’oblio e vado a spiegarne le diverse motivazioni.
Il romanzo mi è stato segnalato dall’amico Lamberto Salucco, appassionato e curioso della Firenze scomparsa, che ha dedicato alla ricerca e alla riscoperta tempo, impegno e scritti, nonché tratto la soddisfazione di conoscerne e di averne riscoperto, anche se in parte, i luoghi spariti proprio perché nascosti e ormai invisibili dentro le ricostruzioni e le molte demolizioni al tempo della breve parentesi che vide Firenze capitale.
La donna d’oro propone nelle proprie pagine, sotto forma di romanzo, la descrizione, nata dalla ricerca documentata, di un quartiere del centro storico della città, protagonista anch’esso e sul cui sfondo si sviluppa una storia noir
Il fascino del luogo si lega a molti scritti e a molte opere d’arte, immagini e foto, che ne hanno fermato nel tempo i colori e la bizzarria: il Ghetto.
Nato nel 1571 confinava con il Mercato Vecchio, oggi piazza della Repubblica, ed era delimitato dall’attuale via Roma, via de’ Pecori e via Brunelleschi: un quartiere della città nel quale si accedeva per tre porte. Dal 1750 ne iniziò la chiusura e le famiglie degli ebrei trovarono nuove sistemazioni ad eccezione di quelle più disagiate, ma il quartiere divenne progressivamente dimora della popolazione più povera e ricettacolo di malviventi. La vera ristrutturazione complessiva e profonda avverrà a partire dal 1880.
Breve cronistoria, proprio per risalire al contenuto del romanzo.
Scritto e pubblicato nel 2003 nasce come romanzo storico a trama gialla, opera della giallista Linda Di Martino che aveva pubblicato per il Giallo Mondadori nel 1987 “Troppo bella per vivere” con lo pseudonimo di Drinna Domizia, esordio seguito da altri scritti tra i quali La donna d’oro che nel saggio di Elisabetta Bacchereti *(2015) trova ampia documentazione, l’analisi del contenuto e la novità e l’originalità.
“Il romanzo della Di Martino, con il suo ibridismo postmoderno di modelli narrativi (romanzo storico, noir, Bildungsroman), e il gioco intertestuale e citazionale tra immagini e documenti, se restituisce in una dimensione finzionale i termini della questione fiorentina, tuttavia trascende la contingenza e le circostanze storiche per rappresentare il conflitto insanabile tra esigenze di sviluppo e di modernità, spesso solo mascherati interessi speculativi, e salvaguardia di un patrimonio culturale e storico, difesa o conservazione di un ecosistema naturale o antropico, o urbano. D’altro canto conferma la vocazione della “giallista” fiorentina, del tutto ignorata dalla letteratura critica e dalla storiografia letteraria relative sia al romanzo neostorico sia alla narrativa di genere e di gender, a raccontare il crimine “non come esplosione di follia idiota o crimine organizzato o violenza brutale”, bensì come “manifestazione abnorme della passione dell’animo o della mente”.
La protagonista è una diciassettenne, Lucilla Compagni, e sta per diplomarsi come maestra. È nata e cresciuta nel Ghetto: il padre è mosaicista presso il Regio Opificio delle Pietre Dure, la madre cuce di fino. Per andare a scuola e per le commissioni quotidiane ne attraversa l’intricata topografia e incontra quelli che ne sono gli abituali abitanti: l’ebrea cieca Naomi, la figlia di lei Ruth sua coetanea ed amica, l’orafo Mastrogiudeo, per il quale posa per l’angelo della pala d’altare che sta realizzando, Don Matteo il parroco della Chiesa di San Tommaso, dove Lucilla insegna Catechismo ai bambini cristiani e aiuta quelli ebrei nei compiti scolastici, fino a Carmignate che gestisce lo sfruttamento della prostituzione e la criminalità organizzata dentro e fuori del Ghetto garantendone anche l’ordine interno; solo per citarne alcuni.
È il 1884 e, in base al Progetto di riordino del Rimediotti, è iniziato l’esproprio e l’evacuazione più o meno forzosa degli abitanti in altre zone della città. Anche la famiglia di Lucilla dovrà andarsene entro la fine dell’anno: sono gli articoli del giornalista de La Nazione, che si firma Jarro, che la indurranno a svolgere una vera e propria indagine a confronto tra la realtà e quanto scritto dal giornalista che così tanto scalpore ha suscitato in città. Una verità storica: il giornalista e scrittore Giulio Piccini (1848-1915) aveva pubblicato su La Nazione nel 1881 una serie di otto articoli, che successivamente (1998) saranno raccolti in volume col titolo Firenze sotterranea, divenendo propugnatore del Progetto di Riordino del centro storico di Firenze cui si dimostrarono accesi avversari molti intellettuali e scrittori, fiorentini e soprattutto inglesi, per quello sventramento negativo nel bilancio tra memoria storica e modernizzazione.
Come si legge in uno stralcio dal testo del romanzo in cui l’autrice fa citare Jarro dalla voce della stessa protagonista.
“Io, nata alla fine del 1867, nel cuore di Firenze Capitale, un cuore antico e non vecchio (così dice il babbo) ora che il Ghetto viene minacciato da ogni parte e condannato comunque a non esistere com’era, io ne scopro la singolarità, ne temo la rovina, ne prevedo la nostalgia. Merito o colpa di uno che si firma Jarro”.
Ma la storia si amplia e si tinge di nero.
Mastrogiudeo, diventa personaggio chiave del romanzo: è un giovane orafo cristiano perso d’amore per una giovane zingara ebrea, al punto da abbandonare casa, famiglia e religione, per trasferirsi con lei nel Ghetto. Per dieci anni era vissuta con Mastrogiudeo, che le faceva indossare i più preziosi gioielli destinati alle dame più ricche. Lei, soprannominata la Sunamite che, come si legge nel Libro dei Re, era una vergine di assoluta bellezza, è la “donna d’oro”. Poi nell’inverno terribile del 1834, l’anno del colera, l’aveva perduta per sempre ma, dalla scomparsa di lei, aveva preso con maggiore impegno a operare per il Ghetto e i suoi abitanti e durante l’epidemia e poi durante l’alluvione del 1844, quando l’acqua aveva messo in serio pericolo la stabilità degli edifici. In quella circostanza l’orafo era diventato l’eroe del quartiere, essendo riuscito a far saltare, con l’aiuto di don Matteo, alcune pareti sotterranee e a far defluire l’acqua.
Sarà la nostra protagonista a scoprire le vere ragioni di tanta prodiga generosità che noi non sveliamo per evidenti motivi.
Non ci resta che seguire Lucilla e riscoprire attraverso i suoi occhi di protagonista una parte della Firenze scomparsa in nome di quel “decoro”, come si legge nella targa in alto nell’Arcone di trionfo che affaccia su piazza della Repubblica L’ANTICO CENTRO DELLA CITTÀ DA SECOLARE SQUALLORE A VITA NUOVA RESTITUITO MDCCCXCV (1895) fino alla conclusione inattesa.
*Elisabetta Bacchereti Università degli Studi di Firenze “Linda Di Martino, La Donna d’Oro. Miserie e nobiltà della Firenze perduta”