Junio Rinaldi “Un padre, un figlio” recensione di Salvina Pizzuoli

Poche pagine, intense.

La morte vissuta attraverso la sofferenza di un figlio per il dolore che il male infligge sulla carne e sulla mente del padre nella lenta agonia. Parole silenti e pacate attraversano la trasformazione anche fisica della persona che gli è trascorsa accanto e che forse non riconosce più. L’affannarsi insensato per lenirne le pene, insieme al sentimento disarmate del sentirsi impotenti, i ricordi che si alternano con il loro ritmo lento alle realtà degli ultimi giorni, mentre il male incurabile con il suo logorio incessante cancella la vita e crea smarrimento nella mente del malato. Ma quell’uomo sofferente era stato un padre, un uomo, un marito, un combattente in una causa in cui aveva creduto, uno stimato lavoratore e un gentleman d’altri tempi.

Il racconto si apre con il ricordo di una frase dura, definitiva.

In quella frase letta da bambino su un portone di legno di una casa abbandonata, ricomparsa a distanza di cinquantasette anni, quasi un presagio “Vita sei bella, morte fai schifo”.

Si può raccontare un’agonia? Si legge nella pagina di apertura che precede il frontespizio.

Descrivere lo spegnersi di una vita […] Entrare nei dettagli della sofferenza […] Parlare dello sconforto che attanaglia […] Scacciare il tremendo pensiero di non potere fare nulla […] Tutto questo è lecito o è un’oscenità? Sì, si può raccontare un’agonia. Di osceno c’è solo la morte.

E Junio Rinaldi lo ha fatto e lo ha saputo fare con delicatezza, con la tristezza che l’accompagna, con l’amore e la dolcezza nel ricordare momenti di vita nel passato, nel confronto e nella piena consapevolezza del presente, del percorso crudele per accompagnare chi si ama verso la fine della vita.

La sinossi dal Catalogo Manni Editori

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