“È ancora possibile la poesia.Poetry Nobel Lectures”, Vallecchi Firenze

Introduzione di Roberto Galaverni

Collana: Vallecchi Poesia diretta da Isabella Leardini

Traduzioni in collaborazione con Dipartimento di Lingue Letterature e Culture Moderne dell’Università di Bologna a cura di Andrea Ceccherelli

Disegni di Simone Cortello Scuola di Grafica d’Arte Accademia di Belle Arti di Venezia

Vallecchi – Firenze

Dal 12 settembre in libreria

A cinquantanni dal conferimento del Premio Nobel per la Letteratura a Eugenio Montale, vengono raccolte per la prima volta in un unico volume le Nobel Lectures dei grandi poeti insigniti del Premio dal 1975 ad oggi. 
I discorsi pronunciati dai vincitori del Nobel rappresentano un genere unico nel panorama della letteratura: gli autori premiati con il massimo riconoscimento mondiale sono chiamati a offrire in poche pagine una sintesi evocativa della propria poetica, ma soprattutto avvertono la responsabilità di concentrare, con onestà e precisione, la conoscenza maturata in una vita sul gesto e sul senso dello scrivere, sulla responsabilità politica e storica che esso porta con sé. I più grandi poeti della nostra epoca hanno lasciato al Premio parole che sapevano destinate a restare, in cui è racchiusa la loro visione come prezioso insegnamento, eredità concreta della loro poesia; ma nello stesso tempo parole che in una rara occasione del presente sarebbero state ascoltate, evidenti narrazioni di una storia di cui essi avevano il compito di essere limpidi testimoni.

Come scrive Roberto Galaverni nell’introduzione:

«in quello che si può considerare il più ristretto ed esclusivo dei generi letterari – il discorso del Nobel: non più di uno all’anno, e per quanto riguarda la poesia ancor meno – di regola l’argomentazione parte dal basso e da dentro: vicende private intrecciate con quelle pubbliche, la storia di una vocazione, il rapporto sempre misterioso e insondabile tra le vicissitudini personali e la creazione poetica, la natura della poesia. Questi discorsi sono tutti diversi, ma battono anche sugli stessi temi, finendo così per corrispondersi intimamente


E i temi sono relazione tra etica ed estetica, tra impegno verso la realtà e immaginazione poetica, rapporto tra io e noi, tra io e altro, tra individuo e specie, tra retaggio e innovazione, tra tradizione e talento individuale, la lingua della poesia, i processi creativi, la collocazione non solo fisica e storico-geografica, ma mentale e fantastica del poeta. Una simile corrispondenza di motivi non esclude in alcun modo la varietà di questi discorsi, che presentano molte sorprese, se non altro perché ogni autore affronta l’occasione a modo proprio.

«È ancora possibile la poesia? si era chiesto giusto cinquant’anni fa Eugenio Montale. Le poetesse e i poeti raccolti in questo volume ci hanno detto che sì, è ancora possibile. E lo hanno fatto chiedendosi non solo o tanto se la poesia sia ancora possibile, ma se sia possibile di per sé, in assoluto, nel suo confronto con la realtà della vita.»

I testi qui raccolti sono una risorsa inestimabile per i lettori delle maggiori voci della letteratura contemporanea, ma anche per chi cerca orientamento nel processo creativo; essenziali e profondi strumenti di conoscenza e riflessione.

Aldo Giorgio Salvatori “Il cerchio sacro dei Sioux”, Vallecchi Firenze

Postfazione di Sergio De Caprio

25 luglio 2025

Vallecchi – Firenze

Il Cerchio Sacro è il simbolo più gravido di significati per gli Indiani delle praterie.
I Lako­ta-Sioux credettero di perderne la protezione quando, nel dicembre del 1890, il settimo ca­valleria massacrò la tribù di Big Foot a Wounded Knee. Per onorare la memoria dei cadu­ti e ricomporre l’armonia perduta del Cerchio Sacro centinaia di Sioux, nel 1990 insieme a Cheyenne e Arapaho, percorsero a cavallo quasi 300 chilometri tra bufere di neve e tempe­rature glaciali.  Con loro c’era anche l’autore di questo libro, unico giornalista televisivo italiano autorizzato dai Lakota a filmare quell’impresa straordinaria. Ne scaturirono un reportage televisivo per il Tg2 e un saggio, pubblicato da Vallecchi, giunto ora alla sua terza edizione e divenuto un libro di culto per gli appassionati della storia e dei costumi degli Indiani d’America.  
Un libro che non racconta soltanto il glorioso passato dei Lakota-Sioux e la loro stupefacente visione del mondo, ma anche le delusioni, le speranze e le battaglie presenti per favorire la rinascita di un popolo che ha ancora molte cose da insegnare a chi ha trasformato il mondo in un grande supermercato da saccheggiare.

Alla fine, rimane il sussurro di un popolo che l’uomo bianco non ha voluto capire perché troppo diverso, troppo semplice, troppo naturale, in definitiva troppo umano. Dimenticare e «integrare», cioè, diluire, assimilare, questo è il percorso su cui si è sviluppato e si sviluppa il genocidio definitivo dei nativi americani. Per questo la narrazione di Aldo Giorgio Salvatori è un prezioso canto di denuncia, di resistenza, di amore e di testimonianza per una cultura e una storia che non devono finire nell’indifferenza di un’opinione pubblica manipolata e sottomessa dai signori delle banche e delle bombe. Una resistenza difficile, che deve radicalizzarsi su pochi baluardi: mantenere la lingua viva, il cibo, la musica, la danza, l’arte, l’artigianato dei nativi e quelli sì mischiarli e diffonderli in ogni ambiente, in ogni nazione, affinché chiunque si riconosca in quei valori li possa vivere e partecipare. (dalla postfazione di Sergio De Caprio)

Aldo Giorgio Salvatori, giornalista e scrittore, è direttore della rivista Myrrhail Dono del Sud. Per oltre trent’anni ha lavorato in Rai nelle redazioni Ambiente e Cultura del TG2. Suoi articoli sono stati pubblicati su Il GloboPanoramaAironeNatura Oggi. Per i suoi reportage ha ottenuto importanti riconoscimenti, tra i quali il premio Italia Nostra e l’Airone d’Argento di Giorgio Mondadori. Ha insegnato Tecniche della comunicazione di massa, dal 1999 al 2003, nella facoltà di Scien­ze Ambientali dell’Università della Tuscia. È presidente dell’Associazione Italiana Wilderness. Tra i suoi libri ricordiamo Butteri (Sica, 2003), Il patto coi Lupi (Innocenti, 2020), Naufragio nel Contromondo (Solfanelli, 2022), Ladri di Orizzonti (GFE, 2024).

Filippo Nanni “Il ciondolo di Alice”, Vallecchi Firenze

Vallecchi Firenze

In libreria il 30 maggio

Una giovane giornalista trovata morta nella sua casa. Un mistero archiviato troppo in fretta. Ma chi era davvero Alice, oltre il lavoro, oltre la fragilità che tutti fingevano di non vedere?

Un giornalista in pensione, un uomo d’altri tempi, decide di non accontentarsi. Né di quello che è stato scritto, né di quello che è stato taciuto.  Inizia così una lenta, ostinata ricerca tra parole lasciate a metà, ricordi che graffiano, e un piccolo ciondolo che forse nasconde più verità di un’intera redazione.  Con lo sguardo disincantato del cronista di razza e una scrittura nitida e sensibile, Filippo Nanni ci accompagna con passo lieve e profondo in una storia che parla di giornalismo, certo. Ma anche di amore per le cose fatte bene, di solitudine, silenzi e di verità dimenticate.  E di quel filo sottile che unisce chi resta a chi se ne è andato.  E di quella domanda che non smette di bruciare: cosa resta di una vita, quando la notizia svanisce? (Maurizio De Giovanni)

Sul citofono ci sono solo le iniziali: AM. Teresa affonda l’indice prima in modo delicato poi, dopo aver atteso invano una risposta, lo tiene premuto per qualche secondo. Niente. È una torrida serata di agosto, nel piccolo giardino che separa il cancello dal portone della palazzina è scattato l’innaffiamento automatico e qualche piacevole schizzo la raggiunge. Si guarda intorno, la strada è deserta intorno a questo edificio di quattro piani in una tipica periferia romana abbandonata a se stessa. Teresa ha lasciato la redazione con qualche minuto di anticipo dopo aver convocato nel suo gabbiotto a vetri i giornalisti che stavano preparando il tg.

Filippo Nanni è nato a Roma il 2 febbraio 1958. Laureato in Giurisprudenza, è stato vicedirettore di Rainews24 e del Giornale Radio Rai. Giornalista professionista dal 1988, ha seguito da inviato grandi avvenimenti in Italia e all’estero. In Rai dal 1991, ha lavorato anche al Tg3 (Caporedattore Cronaca), a Rai Tre (autore di programmi, tra i quali Ballarò) ed è stato Caporedattore degli Esteri al Giornale Radio). Ha vinto il Premio Cronista 1995. Dal 1999 insegna alla Scuola di giornalismo di Urbino. Tra i suoi libri ricordiamo Sopravvivere al G8 (Editori Riuniti, 2001) e Alle mie spalle – Le notizie in tv (Vallecchi, 2022).

Federico Fellini “Il cavallo in biblioteca”, scritti inediti a cura di Rosita Copioli e con uno scritto di Pietro Citati, Vallecchi Firenze

Gli spot inediti per la promozione della lettura

«Il bell’animale elegante e mansueto
si avvicina ai grandi leggii
e annusa delicatamente i libroni aperti
che vi giacciono sopra,
poi volge con grazia il collo chiomato
verso gli scaffali e lecca appena
il dorso di uno dei tanti libri.»

In libreria il 30 maggio

Vallecchi Firenze

Il cavallo in biblioteca è l’ultimo libro di Federico Fellini: inedito. Contiene i divertentissimi spot per la lettura che scrisse su commissione di un consorzio di editori rimasto fantasma, e che depositò nel marzo 1988 alla SIAE, senza poi realizzarli, come invece accadde per la pubblicità di Campari, Barilla e della Banca di Roma. Ritrovati nell’archivio del Fellini Museum di Rimini, sono diversissimi tra loro per ambienti, invenzioni, paradossi, umorismo, sarcasmo e parodia sociale: come la polemica sull’invasività della televisione, dove Fellini ingaggia un duello scatenato e impari con Berlusconi, che nei suoi canali privati interrompe i film con la pubblicità. «Non si interrompe un’emozione» è il suo slogan. Fellini sfodera le proprie arti/armi: la fantasticheria surreale e fantascientifica, la difesa dell’avventura, della magia, dell’immaginazione e del sapere. Sono quadri memorabili. Ritraggono le famiglie italiane, gli stereotipi, il quotidiano, ma anche i grandi archetipi legati ai personaggi romanzeschi, ai libri, alle biblioteche, alla sapienza autentica. Veri e propri apologhi che rispecchiano la sua invenzione imprevedibile. Appunto quella del cavallo in biblioteca, che dà il titolo al libro, ed è per Fellini il simbolo della libertà e della sua bellezza.

Il cavallo discende da Pegaso alato, il simbolo dell’immaginazione. Non è ciò che i film e i libri trasmettono? Rosita Copioli introduce i testi, li trascrive per la comodità dei lettori, ma li presenta anche nei dattiloscritti originali. Li commenta secondo lo stile de Gli occhi di Fellini (Vallecchi 2020), che Pietro Citati definì «un libro splendido, quasi unico nella saggistica italiana: sottile, profondo, enigmatico». Nello scritto che qui si pubblica, Citati notò, di quegli «occhi», ciò che appare scorrere in questi spot: «ogni sfumatura dell’anima umana, forse ogni sentimento animale, perché Fellini apparteneva – io penso – anche all’amabile e terribile regno degli animali». Il cavallo, appunto: in biblioteca.

Federico Fellini (Rimini, 20 gennaio 1920 – Roma, 31 ottobre 1993) è stato non solo uno dei più grandi registi, ma uno dei massimi artisti del Novecento. Con ciascuno dei suoi film ha dato una rappresentazione memorabile della storia italiana, e più nel profondo, dell’anima umana. Dove – si è chiesto Kundera – dopo Stravinskj, dopo Picasso, si trova un’opera più bella, d’una immaginazione più potente? I suoi film La stradaLe notti di Cabiria8½ Amarcord hanno vinto l’Oscar per il miglior film straniero. La dolce vita ha conseguito la Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1960, 8½ Intervista il Gran Premio del Festival di Mosca rispettivamente nel 1963 e nel 1987. Fellini ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1985, e l’Oscar alla carriera nel 1993.

Rosita Copioli è scrittrice e poeta. Ha pubblicato libri di prosa e saggi, drammi, testi storici, curato e tradotto opere di Saffo, Leopardi, Goethe, Flaubert, Yeats. Fra gli ultimi saggi: La voce di Sergio Zavoli (Vallecchi 2021); Simbolo (Vallecchi 2022); William Butler YeatsOmero in Irlanda (Ares 2024); Acque della magia. Matteo Maria Boiardo e L’inamoramento de Orlando (Metilene 2024). Fra i libri di poesia: Splendida lumina solis (Forum 1979); Furore delle rose (Guanda 1989); Elena (Guanda 1996); Il postino fedele (Mondadori 2008) Le acque della mente (Mondadori 2016); Le figlie di Gailani e mia madre (Franco Maria Ricci 2020); Elena Nemesi (MC 2021); I fanciulli dietro alle porte (Vallecchi 2022). Su Fellini ha scritto dal 1989 e ne ha curato opere e mostre, fino all’ultimo libro Gli occhi di Fellini (Vallecchi 2020). In uscita nel 2025, per Vallecchi I libri di Fellini: un percorso nella sua biblioteca, tra gli autori e i soggetti amati.

Antonella Sbuelz “Il movimento del volo”, Vallecchi Firenze

«Quattro donne forti – colte in fasi drammatiche, cruciali, ma anche di grandi passioni e tensioni ideali – che, ognuna a suo modo, testimoniano l’incrollabile volontà di essere fino in fondo padrone del proprio destino

Vallecchi Firenze


Scegliere, vivere, rischiare, amare. E prendere il volo. 
Dalla Prima guerra mondiale agli anni di piombo, quattro figure femminili ci ac­compagnano lungo il Novecento: storie di donne dentro la Storia, per affermare il diritto al presente e al futuro, alla di­gnità e all’utopia. Rachele, Livia e Anna crescono e matu­rano durante le drammatiche e com­plesse stagioni della grande guerra, del fascismo, della Resistenza e poi della Liberazione, mentre Emma compie la sua scelta nel periodo più cupo della Re­pubblica. Quattro donne forti – colte in fasi drammatiche e cruciali, ma anche di grandi passioni e tensioni ideali – che testimoniano l’incrollabile volontà di es­sere padrone del proprio destino. Volare talvolta richiede sofferenza e sacrificio, talvolta appare impossibile, eppure non ci si deve arrendere mai: è questa è l’e­redità ideale che verrà trasmessa da Ra­chele, Livia, Anna ed Emma alle genera­zioni che guardano al futuro.

Antonella Sbuelz ci trasporta in un viag­gio indimenticabile, dall’esito emble­matico e inaspettato, intrecciando le microstorie con la Storia del Novecento europeo. Un potente affresco narrativo che esplora, interroga, coinvolge e com­muove, riconciliando con la grande tra­dizione del romanzo italiano.

La nota dell’Autrice:

«Raramente a un libro viene offerta l’opportunità di una seconda vita. Ma a volte accade. Ci sono romanzi ultracentenari che continuano a coinvolgerci e a parlarci, mentre altri esauriscono la propria carica vitale molto prima di raggiungere l’adolescenza. Inutile tentare di individuare i motivi di fugacità o longevità di un’opera. Nessun romanzo è orfano: ogni storia è figlia del proprio tempo, ma a volte intercetta tensioni etiche e slanci civili che tendono a farsi universali. Il movimento del volo venne pubblicato dall’editore Frassinelli nel 2007: 17 anni, 7 romanzi, 5 raccolte poetiche, molti racconti e una ricerca di dottoratofa. Accolto con attenzione dalla critica, il libro ricevette il Premio Biblioteche di Roma, il Premio Città di Predazzo e il Premio Caterina Percoto, risultando finalista al Rhegium Julii e al Domenico Rea. Ma c’è altro, e forse conta di più. A questa storia devo l’esordio dei miei incontri con i ragazzi e le ragazze: venni infatti invitata a portare la Storia e le microstorie de Il movimento del volo nelle scuole superiori di tutta Italia e cominciai a dialogare con migliaia di studenti e studentesse. Fu l’inizio di un’esperienza appassionante, che da allora non si è mai interrotta. Anzi, è andata crescendo, ha preso slancio, ha ampliato i propri orizzonti: gli inviti a parlare con ragazzi e ragazze mi stanno conducendo ormai anche in Austria, Germania, Croazia, Svizzera, Ungheria. Grazie a quegli incontri continuo a sorprendermi, a dialogare con le generazioni più giovani, a cercare riposte alle loro domande, oltre che alle mie. E non smetto di sorprendermi, di emozionarmi, di imparare. Ma tutto è partito da qui, da questo libro. Sono dunque grata ad Alessandro Bacci, Direttore editoriale di Vallecchi, che ha voluto un nuovo volo per Il movimento del volo. A questa edizione ho lavorato in modo importante. Alcune parti sono cambiate in modo significativo. Ma la storia di Rachele, di Livia, di Anna e di Emma – e degli uomini al loro fianco – è rimasta sostanzialmente la stessa, perché si inscrive nella Storia che dalla grande guerra del secolo scorso ci ha traghettati negli anni Duemila. Ora l’affido a lettori e lettrici vecchi e nuovi. Raramente a un libro viene offerta l’opportunità di una seconda vita. Ma a volte accade. E a me pare bellissimo.»

Antonella Sbuelz vive a Udine, dove è nata. Ha condotto studi universitari a Trieste e Verona, conseguendo un Dotto­rato in Letteratura Moderna presso l’Uni­versità di Losanna. È autrice di romanzi, racconti, raccolte poetiche e saggi. Alle sue opere, tradotte in molte lingue, sono stati assegnati numerosi premi, tra cui il Premio Fiuggi Storia, il Biblioteche di Roma, il Camaiore, l’Alda Merini, il Rhe­gium Julii, il Colline di Torino. Svolge un’intensa attività culturale pres­so Scuole e Istituzioni italiane e stranie­re, continuando a dialogare con ragazze e ragazzi: grazie a loro, non smette di sor­prendersi e imparare.  Tra i suoi ultimi romanzi, Questa notte non torno (Feltrinelli, 2021; Premio Cam­piello Junior, Premio Selezione Strega Ragazzi e Ragazze), Il mio nome è A(n) sia (Feltrinelli, 2023) e Mariam (Vallecchi, 2023, Premio Palmastoria).

Ottavia Niccoli “Morte al filatoio”, recensione di Salvina Pizzuoli

Protagonista della vicenda, che si dipana tra il lunedì 9 novembre 1592 e il giovedì 19 novembre dello stesso anno a Bologna, è don Tomasso che dirige l’ospizio di San Biagio, un antico ospedale ridotto a ricovero. Lo anima amor di giustizia, anche se terrena e quindi imperfetta e non uguale per tutti, tanto da voler trovare, lui prete, gli autori di tre terribili omicidi.

Una figura di religioso che, a detta della stessa autrice nella Nota conclusiva, è assai improbabile a quei tempi per quel che sappiamo, i preti della piena Controriforma erano piuttosto differenti, anche per questo cattura: per essere uomo di fede e di carità, per la sua strenua e caparbia lotta contro i soprusi e le angherie che i deboli subivano nel contesto sociale di quel preciso periodo storico. Il lettore è così trasportato nella Bologna del tempo che si anima e rivive colorandosi tra le pagine ora seguendo i tragitti a piedi di don Tomasso lungo le strade della città, nel traffico di carretti, cavalli, lettighe, ora entrando con lui nelle case dei ricchi e degli indigenti, nei luoghi di lavoro e di produzione come il filatoio o le botteghe artigiane o dentro le stanze del Torrone dove si amministra la giustizia degli uomini e dove si recava di frequente sostituendo il ministrale del quartiere, pigro e inattivo, che avrebbe dovuto assolvere al compito di denunciare ogni reato.

Un anno difficile quello dell’ultimo scorcio di secolo, in cui si alternano cattive stagioni e magri raccolti, dove alla carestia si aggiungono le intemperie. Un mondo di miseria, di sfruttamento, di abiti logori, di putti e tose strappati alla loro infanzia, di morti ammazzati, di torture, di pratiche magiche come “la calamita battezzata, la brocca piena d’acqua, il setaccio con le forbici” pratiche vietate ma restie ad essere abbandonate dentro un presente e un futuro incerti, dove don Tomasso continua le sue indagini e non si arrende e cerca risposte, sentendo montare dentro di sé un’ansia forte di averla vinta sull’ingiustizia e sulla violenza, che non avvertiva contraria al suo stato di prete.

A fargli compagnia un tosetto malandrino, vivace, intraprendente, curioso che collaborerà con lui rivelandosi spesso un prezioso aiutante per ascoltare e riferire, alla ricerca di fondamentali indizi rivelatori, spesso da interpretare e talvolta anche fallaci.

Brevi note biografiche

Ottavia Niccoli, già docente alle Università di Bologna e Trento, è autrice di saggi su Rinascimento e Riforma editi da Einaudi e Laterza, noti e tradotti a livello internazionale. Questo è il suo esordio come romanziera (da Vallecchi Autore)

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IL LIBRO

La copertina è di Lisa Vassalle

“Un thriller che è un meraviglioso spaccato della Bologna di fine Cinquecento.”

Bologna, 9 novembre 1592: don Tomasso, che dirige l’ospizio di San Biagio, viene coinvolto mentre è al Tribunale del Torrone in una denuncia per diffamazione voluta da Violante, una donna che un libello anonimo accusa di aver avvelenato il marito. Il notaio Martini, inquirente amico del prete, gli chiede in via non ufficiale di prendere informazioni da don Lucio, il sacerdote che ha proceduto al funerale e che for se è stato anche l’amante della donna. Nel frattempo, don Tomasso apprende da due ragazzini rifugiatisi all’ospizio, Ettore e Gian Andrea, che il primo ha appena visto il cadavere di una giovane donna nei sotterranei del filatoio di tal Righi. Il corpo, gettato nel canale, verrà infatti ritrovato di lì a poco. La morta risulta essere una lavorante del Righi, Caterina Pancaldi, e l’esame autoptico dichiara che ha perso da poco la verginità. Partono quindi tre processi: quello per il libello, quello per avvelenamento del marito di Violante e quello per “la putta” trovata nel canale. Mentre si svolgono gli interrogatori, don Tomasso aiutato da Gian Andrea prosegue nella ricerca di ipotesi e indizi per incastrare l’omicida. (da Vallecchi Firenze)

e anche

Brevi note biografiche

Ottavia Niccoli, già docente alle Università di Bologna e Trento, è autrice di saggi su Rinascimento e Riforma editi da Einaudi e Laterza, noti e tradotti a livello internazionale. Questo è il suo esordio come romanziera (da Vallecchi Autore)

L’INTERVISTA di Hans Tuzzi a Ottavia Niccoli

Tu nasci come storica della Riforma e delle sue ripercussioni nella vita italiana del Cinquecento. Intrinseca di Carlo Ginzburg, attenta alla scuola delle Annales, ora esordisci nel genere giallo. Come mai?

Amo moltissimo leggere i polizieschi, che trovo emozionanti (almeno i  migliori), pieni di situazioni variegate, di colpi di scena, ricchi di tocchi ironici e di tracce di vita quotidiana (di nuovo: almeno i migliori), e che quindi non mi annoiano (quasi) mai. Trovo poi che sono anche confortanti, in quanto  di solito finiscono bene, nel senso che la giustizia trionfa e c’è una soluzione che è riconosciuta come VERA. Mentre questo nella vita accade di rado, perché il dubbio, l’incertezza, la delusione sono sempre presenti. Così anche in passato (qualche decennio fa) avevo iniziato un giallo che si svolgeva nel dipartimento in cui all’epoca insegnavo. Sia la vittima che l’assassino che l’investigatore erano miei colleghi, ai quali avevo lasciato nome e cognome reali. Anzi, partecipavo anch’io alla vicenda, ed ero io che trovavo il cadavere; ovviamente dopo i primi capitoli ho lasciato perdere. Ma ora che sono ormai da parecchi anni in pensione, e sento che la voglia di scrivere saggi scientifici declina decisamente, sono ritornata a quella vecchia passione e ho voluto provare. È stato molto emozionante.

Teatro della vicenda è una inedita Bologna negli ultimi anni del XVI secolo. Dico inedita perché ad esempio non sapevo che Bologna fosse allora una città di “vie d’acqua”. Ma perché hai scelto  Bologna?

Perché ci abito, e conosco abbastanza bene gli spazi, le strade, le forme di governo e l’economia della città tra Cinque e Seicento. All’epoca l’industria della seta dava da mangiare a mezza Bologna: erano attivi con vari compiti migliaia di uomini, ragazze e bambini, che lavoravano nei filatoi o in casa propria. E i filatoi utilizzavano grandi macchinari mossi per l’appunto da quelle vie d’acqua. Una di esse, anzi, il canale Fiaccalcollo, scorre tuttora sotto la cantina della casa in cui abito; quando da un buco nel muro l’ho visto correre tumultuosamente e ne ho sentito il rombo, ho deciso che doveva avere una parte importante nel racconto, e così è stato. Sapevo che nell’edificio  – che aveva allora una struttura assai diversa rispetto a quella attuale – era sito all’epoca l’ospizio di San Biagio, un ricovero per i pellegrini, e che all’angolo della strada c’era la spezieria di cui si serviva l’ospizio, e che ora, dopo più di quattro secoli, è la farmacia in cui vado a comprare le medicine. Mi è sembrato anche in questo caso, come tanti anni fa, di essere una testimone degli eventi che raccontavo. Potevo seguire passo passo i personaggi, uno per uno. Diciamo che potevo quasi vederli.

E perché il tuo investigatore è un prete?

Perché avevo deciso che la vicenda aveva il suo fulcro appunto nell’ospizio di San Biagio, e a dirigere un ospizio per i pellegrini poteva ben esserci un ecclesiastico (l’ho chiamato don Tomasso). E dato il contesto storico del 1592 in cui si svolge la storia, e quello dei precedenti decenni, che hanno visto forti tentativi di novità nel mondo della Chiesa e la loro sostanziale sconfitta, potevo facilmente dargli esperienze non lineari e una personalità complessa. Sono proprio alcuni momenti cruciali della sua storia di vita, e le situazioni che ne sono derivate, che gli consentono di arrivare alla soluzione del caso.

Non ha influito nemmeno in minima parte la suggestione di padre Brown, il mite investigatore creato da Chesterton?

No, per nulla, non ci ho affatto pensato (anche se in gioventù ho letto i racconti di Chesterton). Tra l’altro don Tomasso non è affatto mite. Si controlla molto, ma non sempre ci riesce del tutto. Secondo la concezione della medicina del tempo, ha certamente un temperamento sanguigno, e secondo me è anche un po’ collerico.

Chi ha letto i tuoi saggi ritrova qui, ma perfettamente amalgamati nella narrazione, senza nessuna pesantezza erudita, particolari curiosi del tempo. Ad esempio, i medici non toccavano i corpi, che venivano maneggiati da cerusici, cioè barbieri abilitati. Anche la nostra gestualità cambia nei secoli?

Certamente. I gesti sono legati al contesto culturale e politico corrente (infatti ho appena pubblicato un piccolo libro che si occupa proprio di questo tema). Basti pensare a un gesto di saluto fino a due anni fa assolutamente ovvio, come la stretta di mano; secondo alcuni studiosi è possibile collocarne la nascita nei Paesi Bassi di metà Seicento, come segno di solidarietà politica e poi di amicizia e di lealtà. E chissà se questo modo di salutarci sopravvivrà alla pandemia?

Possiamo sperare, noi lettori, che la vita letteraria di don Tomasso non si concluda con “Morte al filatoio”?

Lo spero anch’io. Vedremo!

e anche

la recensione di Salvina Pizzuoli