Il racconto della domenica

IL DOTTOR FICICCHIA

A Ramacca, parlando del Dottor Ficicchia, i contadini solevano dire: – Almeno ci ammazza gratis!

E non era vero.

Si faceva pagare forse più degli altri medici, in tutte le maniere possibili, se non con denaro sonante.

Appena entrato in una di quelle luride casette dove l’asino, il maiale e le galline contendevano il poco spazio alla famiglia umana, mescolando esalazioni d’ogni sorta che appestavano l’aria, egli cavava fuori il taccuino e vi notava il nome, il cognome, il mestiere dell’ammalato e il nome della moglie e dei figli, quasi dovesse riempire una scheda da censimento, e soltanto dopo aver terminato quest’operazione preliminare, sedeva, tastava il polso, osservava la lingua, chiedeva informazioni. Scritta la ricetta, le rare volte che ne scriveva una, scrollava il capo e aggiungeva invariabilmente:

– La cosa è grave; ma rimedieremo!

Talvolta rimediava come i suoi colleghi, spacciando l’ammalato; spesso però lo guariva, o meglio, lo lasciava guarire, ordinando un po’ d’acqua bollita con lo zucchero e qualche purgante. Questa parsimonia di medicine i contadini la interpretavano a modo loro:

– Il Dott. Ficicchia non è d’intesa col farmacista.

Infatti questi, che non poteva perdonargli il disdegno pe’ suoi intrugli, se ne vendicava chiamandolo: Asino laureato. E vedendolo andare attorno per le visite sul bell’asino di Pantelleria che trottava al pari di un cavallo, gli rideva dietro le spalle, e insinuava che sarebbe stato lo stesso se, invece di andare in persona dagli ammalati, avesse mandato la propria cavalcatura che sapeva di medicina quanto lui e forse anche più di lui.

I contadini, al contrario, portavano il dottore in palma di mano, e si sarebbero fatti squartare per rendergli un servizio. Egli lo sapeva e con questo si consolava di tutte le malignità del farmacista e del collega dottor La Bella che curava i massai grassi e l’aristocrazia, cioè: il Barone, nei pochi mesi che veniva a passare in paese, e il suo amministratore, che faceva il barone tutto l’anno ed era il vero padrone di Ramacca.

Il dottor Ficicchia non serviva solamente da medico pe’ suoi clienti, ma da consultore legale, da avvocato, da uomo di affari, e qualche volta anche da combinatore di matrimoni.

Di estate, la mattina, il vasto cortile della sua casa era pieno di gente; ed egli scendeva giù in berretto e pianelle, con la pipa di terracotta tra i denti, e dava consulti alla lesta, serio, impettito, con un’aria da oracolo che sbalordiva i contadini e li faceva andar via contenti come pasque, già mezzi guariti per la gran fiducia che le insignificanti ordinazioni ispiravano.

Il cortile era ingombro di massi che dovevano servire per la fabbrica della sua casa, e intanto servivano da sedili. Lo stesso dottore sedeva su questo o su quel lastrone, accavalciando le gambe e dondolandole, secondo i casi più o meno gravi, mandando fuori frequenti boccate di fumo sputacchiando tra un’ordinazione e l’altra, accarezzando i bambini, ammonendo le mamme se avevano trascurato i suoi consigli, strizzando un foruncolo, medicando una piaga con certo impiastro di propria invenzione che costava quattro soldi, ma da pagarsi in contanti, perché gli ingredienti bisognava comprarli e venivano da lontano. – Il farmacista per quell’impiastro non si sarebbe contentato neppure d’una lira…. e chi sa che pasticcio avrebbe fatto! – Le povere donnicciole che non avevano nemmeno quei quattro soldi, portavano due uova fresche. Il dottore se li metteva in tasca rassegnato. Meglio di niente!

Sbrigate le consultazioni mediche, cominciava quelle intorno agli affari.

– Per la querela? Verrò io stesso dal pretore.

– Per la citazione del Giudice conciliatore?

Faremo rimandare l’udienza.

– Per l’atto di vendita presso il notaio? Darò un’occhiata io alla scrittura. Fìdati era un buon uomo: Non-ti-fidare era meglio. Spesso, con certi notai, uno si trova venduto come Gesù Cristo per trenta denari.

– Per quel matrimonio? Bisogna rimediare, dando alla ragazza la casetta. Il torto è vostro, compare.

Qualche volta dava anche torto ai clienti, ma poi faceva in modo che avessero sempre ragione. E il cliente spalancava tanto d’occhi apprendendo che la faccenda era aggiustata proprio come pretendeva lui. Ah, la sa lunga il nostro dottore.

La sapeva lunga davvero. Voleva un servizio e pareva chiedesse un favore. Ne’ suoi viaggi a Caltagirone e a Piazza Armerina non spendeva un centesimo; il mulo di questo o di quel cliente lo portava e riportava comodamente, senza che egli si disturbasse, né per la biada, né per lo stallatico. Il cliente lo seguiva a piedi, stimolando il passo della bestia con una verghettina e con gli arri! arri! che le facevano rizzar gli orecchi e levare più leste le gambe. Intanto il dottore lo svagava così bene col racconto delle proprie e delle altrui faccende, che il povero pedone non si accorgeva della stanchezza e del sudore, e gli restava grato di quelle confidenze e del prestito del mulo, quasi bestia e padrone ricevessero onore, portando e riportando così brava persona.

E nei giorni della vendemmia? Nel cortile e davanti al portone, file d’animali carichi di otri col mosto; e tutti quei contadini affaccendati a scaricarli erano clienti, ai quali il dottore aveva detto sornionamente: a uno a uno.

– Domani, se, non hai nulla da fare, potresti andare a prendermi un carico di mosto a Trizzitello? Viaggio di poche ore.

Il contadino, anche avendo da fare, non voleva dispiacersi il dottore, che gli aveva curato gratis la moglie o il figliuolo spendendovi una buona dozzina di visite.

Così il dottor Ficicchia era servito meglio del barone che doveva pagare le giornate ai contadini nella vendemmia, nella mietitura, nella trebbiatura, al tempo della rimonda degli ulivi per riempire di legna la legnaia.

Il manovale gli acconciava i tetti, gli faceva ogni sorta di riparazioni nella vecchia casa; andava a rizzargli anche i muriccioli in campagna, quando occorreva. Le donne gli filavano il lino e la stoppa per la tela della sua signora, che dava consulti anche lei, quando il dottore non era in casa. E perciò anche la signora aveva cento braccia da aiutarla a crivellare il grano: a dare, un po’ per uno, quattro colpi al telaio nelle giornate d’inverno; a fare il bucato nel cortile con la gran caldaia di rame posta fra i massi, che aspettavano, alla pioggia e al sole, il giorno di essere intagliati pei terrazzini e per le finestre del palazzo da fabbricare, com’ella si compiaceva di dire con grandiosità che imponeva rispetto.

Quei massi di pietra calcarea, quei mucchi di sassi bene allineati torno torno al cortile, rappresentavano altrettante giornate di trasporti a schiena di mulo, con cui i clienti avevano pagato le visite il doppio di quel che valevano!

Ogni volta che il dottore incontrava per una via o in piazza qualche cliente disoccupato, gli si accostava sorridendo, gli domandava notizie della famiglia, gli accennava dalla lontana la cura fatta a’ suoi o a lui pochi mesi addietro, e mostrava di compiacersi grandemente che non c’era poi stata la ricaduta per cui era stato in pensiero. Il contadino ringraziava di tanta premura, si sentiva intenerito, e il dottore, di punto in bianco, gli scaraventava in viso il solito:

– Non hai niente da fare? Fammi un piacere….

Pareva una cosa venutagli in mente lì per lì: invece, prima di uscir di casa egli aveva consultato il famoso taccuino e stabilito anticipatamente chi richiedere di quel piacere, che spesso si riduceva a una, due giornate di lavoro, per le quali gli sarebbe toccato di spendere una diecina di lire.

Che importava? Non pagavano in contanti; questo pei contadini equivaleva a non pagare nulla. E ripetevano in buona coscienza:

– Almeno ci ammazza gratis!

La reputazione del dottor Ficicchia fu un po’ scossa durante il colera del sessantasei. Arrivavano brutte notizie da Palermo, da Catania, da Messina: la gente moriva come mosche. Si sapeva di certa scienza che la macchina per buttare il veleno era già arrivata al Pretore e al Maresciallo dei carabinieri. Solamente il Parroco non s’era ancor messo d’accordo col Maresciallo, col Pretore e col dottor La Bella intorno al numero delle morti che dovevano accadere in Ramacca. Si sapeva, anche di certa scienza, che il dottor Ficicchia aveva risposto al pretore: – Avvelenate me, se volete! Io non ci metto le mani nell’assassinare la povera gente!

E così non se ne faceva nulla. La macchina, dicevano, rimaneva incassata tuttavia in Pretura o nella caserma dei carabinieri, non si sapeva precisamente dove, era certo però che un giorno o l’altro la cosa doveva accadere, per ordine del governo, per scemare la troppa popolazione. E Garibaldi intanto aveva assicurato che non ci sarebbe stato colera dopo la rivoluzione! Che poteva farci il povero Garibaldi? Vittorio Emanuele voleva così perché gli altri governi gli forzavano la mano. Anche il Papa faceva buttare il colera ne’ suoi Stati, ed era ministro di Dio!

Il cerchio dei paesi infestati si stringeva attorno a Ramacca. La povera gente si rassegnava alla fatalità del male, pur cercando di prendere tutte le precauzioni, tappando usci e finestre, chiudendosi in casa all’avemaria, non uscendo prima che il sole fosse alto e avesse disperso il veleno.

– Dottore, voi non ci abbandonerete! – si raccomandavano sottovoce.

Il dottore, per non compromettersi, rispondeva con una stretta di spalle; a quattr’occhi messo tra l’uscio e il muro, si lasciava anche scappare di bocca:

– Fossi medico io solo qui!

Lo diceva senza malignità, forse; ma i contadini si sussurravano da un orecchio all’altro quelle parole, e guardavano in cagnesco il dottor La Bella che si prestava a dar la mano al Pretore, al Maresciallo, al Parroco, quantunque confortati dal pensiero che il dottor Ficicchia non li avrebbe abbandonati.

Una mattina però furono atterriti, apprendendo che il dottore e la sua signora erano partiti alla chetichella per Trizzitello, e avevano messo tanto di catenaccio alla porta di casa.

Non c’era più dubbio: quello era il segnale che il domani la macchina del veleno avrebbe cominciato a funzionare. Le Autorità s’erano già messe d’accordo: un centinaio di morti, né uno di più, né uno di meno! Il Parroco, pover’uomo, aveva fatto quel che aveva potuto. Si riferivano le parole della discussione, quasi Pretore, Parroco e Maresciallo avessero discusso in piazza alla presenza di tutti. Il più accanito era stato il Pretore, che avrebbe voluto almeno almeno duecento morti, scellerato! per ingraziarsi il governo e ottenere una promozione. Al dottore La Bella venivano pagate dieci lire per morto. Almeno il dottor Ficicchia era scappato in campagna! Se n’era lavate le mani.

Per fortuna del dottor Ficicchia, e più del La Bella che passò dei brutti quarti d’ora, a Ramacca non avvenne neppure un solo caso di colera. E quando il dottore tornò in paese, dopo un paio di mesi di assenza, a coloro che gli rimproveravano la sua scappata, rispondeva con un sorrisetto malizioso, scrollando la testa, o brontolando fra’ denti:

– Se non me ne fossi andato!

E da lì a poco i contadini si ripeterono sotto voce:

– Se non se ne fosse andato lui!

Si era saputo, di certa scienza, al solito, che all’ultimo il dottor La Bella non aveva voluto assumere da solo la responsabilità dell’eccidio, e per questo Ramacca non aveva avuto colera. Il dottor Ficicchia, scappando, aveva salvato il paese!

Curando gratis a questo modo, il bravo dottore si fabbricò il palazzo, come diceva la sua signora, e allargò i limiti del fondo di Trizzitello, che divenne una tenuta. All’ultimo, fino il dottor La Bella dovette riconoscere che il suo avversario era più furbo di lui, e per far bene i propri interessi, sposò una figliuola del collega, quantunque brutta e cieca di un occhio, e andò ad abitare nel palazzo insieme col suocero.

Da quel giorno in poi però il dottor Ficicchia mutò registro nella sua condotta verso i contadini. Tutti i casi di malattia erano gravi. Non si fidava di sé stesso; suo genero ne sapeva più di lui e lo mandava in vece sua. E col dottor La Bella non si canzonava; bisognava pagare, o le citazioni piovevano da tutte le parti quando i contadini non saldavano il conto delle visite. E se i clienti ricorrevano al suocero perché si intromettesse, questi rispondeva secco secco:

– Io non c’entro.

Solamente quando egli era convinto che non ci era proprio da cavare neppure un soldo dalle tasche d’un povero diavolo, riprendeva il metodo antico, e pareva concedesse una grazia, facendosi ricompensare il doppio col solito modo.

Così c’era sempre qualcuno a Ramacca che, parlando del dottor Ficicchia, poteva ripetere come prima:

– Almeno costui ci ammazza gratis!

da Luigi Capuana “Novelle”

Un racconto per il fine settimana

Nel bosco delle streghe

– Ritorna?

– Sì.

– Per sempre?

– Chi lo sa?

– È matto, scusate. Venire a seppellirsi qui!

– Vi è nato.

– Suo padre lo portò via a dieci anni. Che amore può avere al paese?

– Ma, poiché ritorna….

– Per questo, scusate, ho detto che è matto. All’improvviso si sente afferrare dalla smania….

– Da nessuna smania. Tranquillamente arriva, e più tranquillamente potrà ripartire.

Don Matteo Domelli era molto seccato di esser costretto a rispondere alle continue interrogazioni intorno a suo nipote che doveva giungere dall’America. Tutti, amici, conoscenti, sfaccendati volevano sapere: – È dunque vero? – Come mai? – Pare che abbia fatto fortuna. – Per poco o per sempre? – Eh! La terra nativa! – Donde viene? Da Nuova York? Da San Paolo? Da Buenos Aires? Che dirà di questo mondezzaio? Scapperà dopo due giorni!

Non la finivano! E se Don Matteo faceva una spallucciata e rispondeva appena o non rispondeva affatto, malignavano:

– Non è contento che gli piombi in casa il nipote!

– Perché è uno solo. Dovrebbero essere tre!…

Alludevano alle tre figlie nubili del Domelli che secondo le male lingue, minacciavano di spighirgli in casa.

Invece egli non vedeva l’ora che il nipote arrivasse.

– Sarà già partito, è vero, babbo?

– Ha scritto che avrebbe telegrafato da Genova.

– Tu dici che non lo riconosceresti, babbo; ma dai ritratti….

– Ritratti di parecchi anni addietro.

– Dev’essere di umore allegro….

Questo si vedeva dalle lettere che con molta regolarità scriveva da un anno alle cugine, a turno, per non destare invidie.

– Lettere strambe! – esclamava Maria, la maggiore – Senza capo né coda.

– Sembra però, leggendole, di udirne la voce – soggiungeva Cristina.

Sara non diceva niente. E quando Maria e Cristina si divertivano quasi a declamare le lettere del cugino e a commentarle ridendo, ella sentiva dispetto di quella specie d’irriverenza verso l’assente. L’arrivo di una di queste missive era un avvenimento nella famiglia. Per due, tre giorni non si parlava d’altro. Cristina e Maria le comunicavano alle amiche, anche per darsi l’aria che ricevevano lettere dall’America. Sara, dopo che le sorelle e il babbo avevano lette quelle indirizzate a lei, le faceva sparire in fondo a una cassetta del canterano in camera sua. Le ispiravano un sentimento ch’ella stessa non sapeva se fosse di compassione o di pietà.

Sotto quegli scatti di allegria, di buon umore, di gentile malizia, coi quali il cugino Alberto infiorava i larghi fogli azzurrognoli, abbandonandosi, a intervalli, allo sfogo epistolare, Sara intuiva una tristezza, un senso di nostalgia che la vivace prodigalità dei motti, delle bizzarrie, dei capricci non riusciva a celare.

E la inattesa risoluzione del ritorno, dopo tanti anni di assenza, la confermava in questa convinzione. Pensava:

– Chi sa che delusioni ha provate!

In quel mese, il cugino aveva rotto la regolarità del turno nella corrispondenza con le tre sorelle.

A Maria scriveva:

«Finalmente, cara cugina, potrete dire: Ah! È questo il bel cesto?… Che volete? Non posso rimpastarmi per rendermi più aggradevole. Mi sono americanizzato, mio malgrado. Quando l’ascensore mi fa salire rapidamente, al quindicesimo piano, nel mio modestissimo appartamentino, io penso all’impressione che mi farà il salire, a piedi, i venti, trenta scalini di casa vostra. Mi parrà di abitare sottoterra. Al quindicesimo piano! Cioè, una dozzina di volte più in su del campanile della vostra Matrice. Fra le nuvole! (Quasi la mia testa non ci fosse abbastanza!) Affacciandomi alla finestra e guardando giù nella via, che cosa buffa quelle pulci che sembra si rincorrano! E sono uomini, signore, signorine!

«Ebbene, abitando così alto, al terzo se non al settimo cielo – ce ne sarà qualche altro, credo: chi li ha scandagliati e contati? – io non sono ancora diventato un angelo, non mi son visto crescere le ali…. Ma non parliamo di cosa da crescere alle spalle, perché, cara cugina, vedrete che le ali possono accennare a spuntare e poi si arrestano, si atrofizzano… Vuol dire che per trasformarsi in angelo non giova neppure elevarsi fino al terzo cielo! Non è giovato, infatti, alle mie coinquiline del piano di sopra, il sedicesimo: due americane, ossute, stridule, con certi denti – qualcuno legato in oro – e che volevano insegnato l’italiano da me… come se l’italiano fosse roba da esser masticato da quelle bocche!

E a Cristina scriveva:

«…. E ora mi caverò la curiosità che mi son riserbata di appagare coi miei occhi. Siete bruna? Siete bionda? Autentica, certamente. Le tinture, spero, non sono arrivate fino a costì. Maria, lo ricordo, ha capelli nerissimi, a meno che…. Ma no; è assurdo pensare che le sia venuto in testa di mutarli di colore. Voi, allora a tre anni, eravate quasi bionda, ma ora, invecchiando…. Qui si dice pane al pane, e vino al vino… quando non c’è interesse di dire il contrario. Ed io ho scritto la parolaccia: invecchiando, sicuro che essa vi farà sorridere; a vent’anni si è appena giovani.

«Il colore dei miei?… Era… Me ne rimangono così pochi in testa, che da un pezzo non ho voluto accertarmi di che colore siano diventati. E poi, la calvizie è in grande onore. Significa: cervello caldo, attivo. Quasi tutti gli americani son calvi. Preparatevi, dunque, a un disinganno, se i miei ventisette anni vi han fatto credere… prendo le mie precauzioni, per evitarvi intorno alla mia persona quante dispiacevoli sorprese è possibile. Aggiungo: niente barba, come i servitori di grandi famiglie. – Costì non ce ne sono. – Come i nostri contadini di una volta, se non son cambiati. Qui, anni fa, era di moda un ciuffetto di peli al mento, alla Lincoln; ma ormai, quel Presidente è dimenticato; e l’attuale non è riuscito ad imporre i suoi baffi…. Divago, cara cugina. E vorrei dirvi tante cose!… Sarà meglio dirvele a voce, tra poche settimane».

E a Sara scriveva:

«…. Quando penso che non eravate nata l’anno ch’io lasciai Merenzòla, e che ora avete diciassette anni, mi par di essere un Matusalemme di fronte a voi. Se vi dicessi che voi siete la maggiore curiosità del mio viaggio, non scriverei un’esagerazione. Lo zio lo ricordo benissimo; Maria la riveggo con le vesti corte di quando facevamo il chiasso nell’orto e spesso ci bisticciavamo; Cristina era una naccherina vispa, permalosa, a tre anni. Voi… non vi eravate ancora degnata di venire in questo mondo, e perciò non riesco a figurarmi, in nessun modo, la vostra persona. Ma, dunque, Merenzola è così segregata dalla vita civile da non essere stata mai visitata da un fotografo ambulante? Meglio così, dico ora.

Che dolce rifugio mi parrà! Che pace vi godrò! Voi non sapete affatto immaginare il fracasso di queste infernali città, che ci stordisce notte e giorno! Credo che dovrò rieducare i miei sensi a percepire il silenzio, il beato silenzio della casa, della campagna!

E se mi vedrete rimanere muto, mezzo stordito, non ve ne maravigliate, piccola cugina. Starò ad ascoltar Maria che, mi figuro, deve chiacchierare volentieri, e Cristina, la quale, anche a tre anni aveva una linguetta!… E voi, che, spero, non sarete ritrosa di parlare come siete avara di scrivere. L’ho notato: le vostre lettere non vanno mai più in là delle due paginette! Ma sono carine, deliziose…. Preparatevi dunque a sciogliervi bene lo scilinguagnolo. Mi piace tanto star ad ascoltare!….».

Il signor Domelli – cosa eccezionale in quel grosso villaggio di Merenzòla – aveva fatto educare le figlie nel collegio di Sant’Anna di una città vicina; ma dopo la morte della moglie, le aveva ritirate in casa. La loro istruzione era rimasta a mezzo, né esse avean sentito bisogno di continuarla da loro. Leggiucchiavano, di quando in quando, i romanzi ricevuti in prestito da una delle maestre elementari; spesso, però, meno Sara, preferivano di sentirseli raccontare da una sentimentale amica, invitata a desinare in casa Domelli tre volte al mese.

Maria e Cristina si davano l’aria di signorine tra le ragazze della loro età che non erano state in nessun collegio, tentavano di distinguersene anche nei vestiti; ma non erano arrivate al punto di smettere lo scialle e portare il cappello. In questo avevano trovato ostile la volontà del padre, uomo un po’ all’antica e che voleva fare – come diceva – il passo secondo la gamba.

– Sareste ridicole, tra le vostre pari.

Ora contavano sull’arrivo del cugino, il quale si sarebbe maravigliato di ritrovar tutto immutato in Merenzòla.

– Uno che vien dall’America! Forse non sa neppure che al mondo esistano ancora gli scialli!

– E il babbo dovrà piegare la testa!

Intanto Maria e Cristina si vuotavano il cervello per indovinare la ragione dell’improvviso ritorno del cugino.

– Che ne dici tu, babbo?

– Ma, tra giorni, potrete domandarlo a lui.

– Sarà sincero?

– La curiosità è passata. Per me, potrà arrivare, dimorar qui, a suo piacere, ripartire, e non gli domanderò niente dei fatti suoi. Mi basterà di aver riveduto il figlio del mio povero fratello, che, forse, sarebbe vivo ancora, se non fosse andato a farsi ammazzare dalla febbre gialla colà. Non ne ho saputo niente da tanti anni; credevo morto anche lui.

La curiosità delle ragazze si accrebbe dal giorno che la posta recò un fascio di giornali e due pacchi di libri indirizzati al signor Matthew Storm, presso il signor Matteo Domelli, Merenzòla.

– Chi è costui, babbo?

– Qualche amico di Alberto, suppongo.

– Verrà in casa nostra, babbo?

– Come se a Merenzòla esistesse un albergo! Faremo un po’ di posto anche a lui.

Erano lontane dall’immaginare che quello fosse lo pseudonimo letterario del cugino, e che i cinque volumi ben rilegati, con in testa dei frontespizi il nome di Matthew Storm, rappresentavano la sua produzione di quegli ultimi anni, quando egli era riuscito a farsi la bella fama di piacevolissimo narratore di Storielle – Littles storys – piene di brio, di fantasia, di umore esotici, da non tradir affatto l’origine italiana dello scrittore.

Da qualche tempo in qua, un’intima crisi era accaduta nell’animo di Alberto Domelli. Non poteva dirsi stanchezza; piuttosto aspirazione a qualcosa di meno materiale di tutto quel che lo circondava. E da questo sentimento, vivissimo e insoddisfatto, provenivano le briose littles storys dove la immaginazione prendeva il sopravvento su la realtà, non con lo scopo di alterarla, ma di smascherarla, perché niente egli giudicava più falso e più ipocrita di quella realtà tra cui le vicende della vita lo avevano condotto ad aggirarsi quasi sperduto.

Ammirava assai gli uomini americani; le donne – almeno le molte che aveva potuto conoscere da vicino, le altre che si era ingegnato di studiare a una certa distanza – le donne americane gli erano divenute odiose, insopportabili. E per ciò, da due anni, si era sentito spinto verso le cugine sodisfacendo con quelle lettere a un bisogno di arte, e a uno sfogo di sentimenti.

Giacché, con pochissime modificazioni, le Lettere alle Cugine, attribuite a uno dei personaggi delle sue storielle, erano state prima pubblicate in rassegne illustrate, ottenendo un gran successo, e poi raccolte in volume.

Maria e Cristina, pensando a uno dei tanti scherzi del cugino, avevano ceduto alla curiosità di disfare i pacchi dei libri, ed erano rimaste deluse.

– Sono scritti in lingua turca! – aveva detto, scherzando, Don Matteo, che, come le figliuole, non sapeva una parola d’inglese.

Soltanto Sara aveva provato il desiderio di sfogliare uno dei volumi, precisamente il quarto, ed era rimasta commossa di vedere in capo di quelle lettere i nomi di Mary, di Christina e di Sarah facilmente riconoscibili. My little Sarah! Quante volte c’era? Cinquanta volte; le aveva contate. E tenne per sé la scoperta, quasi un dolce segreto, anzi, un dolce mistero, di cui avrebbe chiesto spiegazione al cugino appena arrivato. Che significava quel little? E perché ai nomi di Mary e di Christina era premesso invece My dear?

Ed ecco, finalmente, una sera il promesso telegramma da Genova:

Arriverò domani.

Quantunque da una settimana la casa fosse preparata a riceverlo, insieme col creduto suo amico Storm, pel quale era stata preparata alla meglio una camera, il telegramma produsse un po’ di tramestìo. Don Matteo aveva raccomandato alle figlie:

– Molta pulizia! Molta pulizia!

E la casa era stata ridotta uno specchio, per quel che permetteva un’abitazione di Merenzòla. Don Matteo si era occupato specialmente a far ripulire quella specie di giardinetto, o di orto, che la circondava.

Il ritorno del figlio di Domelli, come lo chiamavano i merenzolesi, era un grande avvenimento. Infatti, una folla di curiosi, donne, ragazzi, ne attese l’arrivo all’entrata del viale alberato che precedeva le prime case.

Don Matteo e Maria gli erano andati incontro con quella carcassa postale, la quale assumeva superbamente il nome di vettura – corriera, smentito dai due ronzini che la trascinavano giù, da Merenzòla alla stazione ferroviaria, e da questa su, su per i cinque chilometri di stradale, con il sacco della posta e qualche raro passeggero.

Attendevano da un’ora l’arrivo del treno.

Per farsi riconoscere Alberto, dal finestrino, prima che il convoglio si fosse fermato, chiamò: «Zio! zio!», salutando con gesti affettuosi anche la cugina.

Egli si accorse della penosa sorpresa provata da quei due dopo che era sceso dal vagone.

Abbracciato e baciato lo zio, aveva preso per le mani Maria e l’aveva baciata, dicendo allegramente:

– In America non si può baciare più; ma qui, faccio all’antica, che è la più gentile usanza… Ah! sono il solo viaggiatore che viene a Merenzòla? – soggiunse appena il treno ripartì. – Tanto meglio!… il mio bagaglio? Queste due valigie. I bauli arriveranno domani.

Si vedeva; aveva qualcosa da dire, ed esitava, sorridendo. Ma, appena montati in carrozza, parlò:

– Sai, zio? Io l’ho già scritto alla cugina: ma forse non mi sono spiegato chiaro. Mi trovate, inattesamente, un gobbetto porta-fortuna, è vero?

– Come mai? Tu eri diritto come un fuso! – lo interruppe don Matteo.

– Una trave, che poteva ammazzarmi, mi produsse tale lesione alla spalla sinistra da ridurmi come mi vedete. Non ho voluto sottopormi a un’operazione chirurgica…

Padre e figlia non risposero niente; e don Matteo per sviare il discorso, domandò sovvenendosi:

– E il tuo amico Storm? Sono arrivati libri e giornali diretti a lui.

– Oh! quel matto! – rispose seriamente. – È rimasto a mezza strada; ma verrà; me l’ha promesso.

E riprese:

– Cara cugina, voi e le vostre sorelle non avete sospettato niente quando, nell’ultima mia lettera, vi scrivevo «Non parliamo di cose da crescere alle spalle. Vedrete che le ali possono accennare a spuntare e poi arrestarsi, atrofizzarsi!» Proprio niente? Che diranno Cristina e Sara? E che diranno soprattutto, le pettegoline di Merenzòla? Non m’importa di esse…

La carrozza montava lentamente.

– Io – continuò – son venuto per lo zio, che mi sembra più giovanotto di me, e ne sono lietissimo; e son venuto anche per le care cugine… Sapete che vi siete fatta assai più bella di quanto immaginavo? Oh, come s’invecchia sollecitamente in America! Voi… Permetti, zio, che riprenda con la cugina il tu di quando fecevamo il chiasso nell’orto? E voi, cugina?… Grazie! Il voi cominciava a impacciarmi nelle lettere… Come rimarranno Cristina e Sara sentendosi dare inaspettatamente del tu!

Anche con quella protuberanza alla spalla sinistra, Alberto era un bel giovane; Maria lo pensava. Ma, stando silenziosa, un po’ perché intimidita della presenza del nuovo arrivato, un po’ perché dispiacente di averlo trovato col brutto difetto che lo rendeva ridicolo, riusciva a stento a nascondere la delusione di quel momento. Sentiva ricadere sopra di sé, su le sorelle, su la sua famiglia, insomma, tutte le feroci malignità delle ragazze merenzòlesi, che non si lascerebbero sfuggire l’occasione di ridere alle loro spalle, quasi la disgrazia del cugino le riguardasse in qualche modo.

La carrozza montava ancora più lenta; pareva che le due rozze sonnecchiassero nel trascinarla. Don Matteo si scusava.

– Ma, anzi! Ma, anzi! – diceva Alberto. – È una sensazione nuova per me. Voialtri non potete apprezzarla. Passare dalle corse a rotta di collo – e spesso ci si rompe il collo davvero! – a questa specie di dondolìo, di cullamento che fa sentire un po’ l’ansia dell’arrivo… Ah, che delizia!

– Voi, caro cugino…

– Tu, se non ti dispiace…

– Già… Bisogna abituarsi. Tu parli così per non mortificarci. Ci trovi ancora mezzi selvaggi… Non è colpa nostra. Vedi dove la cattiva sorte ci ha fatto nascere?

Si scorgevano, in alto, quasi affacciate su la roccia, le prime case di Merenzòla, sospese tra cielo e terra, infocate dal sole in tramonto.

– Invidiabile! – esclamò Alberto Domelli.

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da Luigi Capuana “Novelle” ParvaLicetEdizioni