Roberto Piumini “Panegìmo e altri poemi”, Scalpendi Editore

Scalpendi Editore

C’è un luogo felice della letteratura, in cui scrittura poetica e narrazione sono rimaste unite. Lì, la voce (fiato/ suono/corpo/ritmo) non si limita alla cronaca lirica, all’avvenimento del sé, ma racconta storie, allarga il gioco all’avventurosa diacronia del mondo.

Dopo i suoi sonetti (nostrani ed elisabettiani) raccolte di canti, parodie (il Melangolo, Interlinea, Feltrinelli) dopo la traduzione dei Sonetti e di Macbeth di Shakespeare, di Paradiso perduto di Milton, di poemi di Browning, de l’Aulularia con finale apocrifo di Plauto (Bompiani, Einaudi) e i poemi de “Il piegatore di lenzuoli” (Marietti1820) Roberto Piumini propone ai lettori adulti l’oralità ricca e soddisfacente della poesia narrativa.

A Panegìmo, nella prima storia, accade di scrivere una poesia di tre versi, di assoluta perfezione. Per pubblicarla degnamente, intraprende un lungo viaggio, durante il quale i primi due versi perdono tutta la loro bellezza: nel primo caso salvandolo da una condanna a morte, nel secondo facendo innamorare una persona. Panegìmo raggiunge infine le Edizioni Stellari, dove l’ultimo verso incontra l’incresciosa avidità dell’editore, e sacrifica la perfezione che aveva conservato in un ultimo dono. Nel secondo poema, il solitario traghettatore Nemau trasporta di qua e di là del fiume, a lunghi intervalli, una viaggiatrice, diretta ogni volta a nuovi amori. A ogni passaggio, silenziosamente innamorato di lei, il traghettatore vede diminuire in lei la  bellezza, l’entusiasmo e la vitalità: fino a quando, con decisione sapiente ed efficace, lui risolve la questione. Nel terzo poema, uno straordinario mascheraio è ingaggiato da una duchessa per un carnevale, in cui Bamberto cade vittima innocente di un atroce scherzo di cortigiani, ed è condannato alla decapitazione. Nel buio della cella, con l’inconsapevole aiuto del mite carceriere Sciapignac, il mascheraio prepara quello che, insieme a certe cipolle e a un fedele cavallo, lo porterà a salvezza.

Oltre ai tre poemi, il libro propone un particolare gioco. Generoso è il gioco della lettura di poesia, in cui alla vastità-intensità-intimità della parola, risponde, con risonanze, ardimenti e movimenti, la visione di chi legge. A qualcuno piace prendere appunti, scritti a bordo pagina o in spazi tipografici vuoti, su foglietti inseriti fra le pagine, persino in quaderni di lettura, straordinari libri paralleli, preziosi e personali libri-risposta. In questo libro si dà spazio, nelle pagine di sinistra, ad alcuni dei tanti possibili giochi di lettura come la scelta del verso preferito, o meno apprezzato, la modifica, soppressione o aggiunta di un verso, tra quelli della pagina a destra. Lo stesso può farsi per più versi, in libero esercizio del gusto: avendo l’accortezza di accettare la scommessa metrica, rispettando il ritmo in endecasillabi del poema. Al di fuori di questi (o altri possibili) interventi sul testo, lo spazio di sinistra può servire a osservazioni linguistiche, critiche, riferimenti narrativi, notazione di ricordi o sviluppi di fantasia, e così via, in un’agenda operativa, linguistica e emotiva, pagina dopo pagina, del libro. Un’agenda che, oltre ad arricchire il contenuto espressivo del libro coi suoi momenti di gioco e memoria, lo renderebbe enormemente più ricco in quella situazione che, per un libro di poesia, è tra le più preziose: essere prestato, o regalato, a una persona amica o amata.

Roberto Piumini (Edolo, 14 marzo 1947) vive a Milano, è uno scrittore, poeta e autore televisivo italiano. Per adulti ha pubblicato, presso più di 30 editori, racconti, romanzi, raccolte di poesie, poemi, testi di poesia e prosa su illustrazioni e fotografie. Ha pubblicato prose e poesie su riviste letterarie e giornali. Molti suoi libri per bambini e ragazzi, e alcuni di quelli per adulti, sono tradotti in una ventina di lingue. Ha scritto una ventina di libri a quattro mani con altri Autori, per bambini, ragazzi e adulti. Ha scritto una cinquantina di testi di poesia, in scambio con materiali di memoria locale e personale, tradizioni, esperienze, personaggi, disegni, fotografie, di gruppi di bambini, ragazzi e adulti, in varie località italiane. Oltre a permettere esperienze di poesia-presente, e letture molto partecipi della poesia, ha sviluppato questi testi in mostre di lettura nonché elaborazioni teatrali o filmiche. 

Dello stesso autore su tuttatoscanalibri

“Il piegatore di lenzuoli”

Nino De Vita “Cùntura”, presentazione

Prefazione di Raffaele Manica

Cùntura del poeta dialettale Nino De Vita conosce una nuova edizione con Le Lettere e con l’aggiunta di sei nuovi testi che ne arricchiscono la prima per Mésogea, valsa a Nino De Vita il premio Napoli.

Nell’intervista di Salvatore Picone (La Repubblica Palermo 31 ottobre 2023) si legge la particolarità di quest’opera:

“Ogni sera Nino De Vita raccontava alla figlia, prima di andare a letto, storie della campagna marsalese dove è nato nel 1950 e dove ha  sempre vissuto, Cutusìu […] da qui ha liberato, con la poesia narrativa, i suoni delle parole antiche ricreando un mondo che non esiste più. Davanti ai suoi occhi il mare di Mozia e le gobbe delle isole Egadi: «Sono cresciuto in campagna – racconta – a casa si parlava il dialetto puro.[…] «Scrivevo molto e raccontavo solo in dialetto. Tanti anni a rammentare il vocabolario della mia infanzia. Ho narrato così i miei primi tredici anni di vita adoperando quelle parole consumate o del tutto sconosciute. Il libro, però, arriverà solo nel 1994». […]Io conservo la Sicilia perché coltivo il mio dialetto annaffiandolo ogni giorno con l’acqua della memoria. Come ho fatto con i racconti raccolti in “Cùntura”, ripubblicato in questi giorni, dopo vent’anni, dalla casa editrice Le Lettere”.

Gli stralci dall’intervista tracciano la storia e le caratteristiche della poesia dialettale di De Vita che affonda la sua motivazione nel profondo interesse coltivato da sempre dall’autore per la tradizione orale siciliana: non un dialetto qualsiasi della Sicilia, ma proprio quello di Cutusio, una lingua che andava a morire ma che per De Vita racchiudeva un mondo da ritrovare nella memoria

Un nuovo stralcio, dalla sinossi presente nella pagina della Casa Editrice fiorentina chiarisce ancora meglio il ruolo svolto dal poeta siciliano nel panorama della letteratura contemporanea e del Novecento:

“Nino De Vita ha cominciato a lavorare ai suoi racconti in dialetto nel lontano 1989 e non ha mai smesso, da allora, di arricchirli e affinarli. I Cùntura sono, per questo, una parte speciale e unica della sua produzione, e l’unico libro dove il racconto scaturisce direttamente dall’oralità. Un ritorno sorprendente alla poesia, maturata nell’arco di più di trent’anni, da parte di una voce tanto appartata quanto essenziale del nostro panorama letterario, che nel corso del tempo ha ottenuto l’attenzione e il riconoscimento di alcuni dei maggiori intellettuali del Novecento come Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Leonardo Sciascia ed Enzo Siciliano” (da Le Lettere)

E di seguito le brevi note biografiche tratte sempre da Le Lettere

Nino De Vita (Marsala, 1950) esordisce, nel 1984, con la raccolta di versi Fosse Chiti, Premio Cittadella, cui fa seguito una trilogia in dialetto siciliano: Cutusìu (Mesogea 2001), Premio Mondello, Cùntura (Mesogea 2003), Premio Napoli, Nnòmura (Mesogea 2005), Premi Salvo Basso e Bartolo Cattafi. Nel 2011, sempre con Mesogea, esce Òmini, Premio Viareggio della Giuria; nel 2015 il romanzetto in versi A ccanciu ri Maria, nel 2017 Sulità e nel 2019 Tiatru. Nel 1996, per l’opera poetica, gli è stato assegnato il Premio Alberto Moravia; nel 2009 il Premio Tarquinia-Cardarelli e nel 2012 il Premio Ignazio. Nel 2020 per Le Lettere è uscita l’antologia Il bianco della luna.

Qui il link ad un filmato su Youtube con alcune poesie lette ed autotradotte dall’autore

Stefania La Via “Persistenze. Parole, memorie frammenti”, Màrgana Edizioni

Recensione di Alberto Genovese

LA SERA SCRIVE CON CORSIVI D’OMBRA

Le Persistenze di Stefania La Via: variazioni sulla meraviglia al tempo del coronavirus

“È del poeta il fin la meraviglia”, ammoniva declamando Giambattista Marini. Ci dissero a scuola ch’era un contorcimento barocco, parole di cicisbei incipriati, e molti della mia generazione si fissarono in quel verso, e ne trassero il pregiudizio d’un poeta perditempo, e che anzi in fondo questa era la sostanza della poesia: una camera di vuote meraviglie di rime e di parole. Il Marini aveva invece colto la missione della parola poetica. Dopo la promessa, non mantenuta (o fummo noi ad illuderci) della scienza di svelarci il Senso delle Cose, ascoltare l’incanto naascosto del mondo ci è più che mai necessario. Nonostante (o giusto per questo) il momento del massimo fulgore tecnologico, in cui l’ultima frontiera è l’ostinazione della Morte, l’umanità sta attraversando il deserto del Nulla. E dunque mai come oggi sentiamo il bisogno di ritornare allo stupore dei primi uomini, e di ricominciare quel viaggio che ci sembrava finito. Ci è buona compagna la poesia contemporanea, che scioltasi dal rigore della rima (che, certo, un suo fascino l’aveva: Mallarmé la chiamava a custodire il santuario della coerenza formale) si è fatta prosa di composta eleganza, celatamente filosofica, se è vero che tenta l’Essere attraverso le sue ombre, gli enti minimi del quotidiano, gli arnesi della vita (è troppo citare la Szymborska?). Sono essi che parlano, il poeta è un ventriloquo, un traduttore talvolta infedele, o perfino ironico, quando occorre smagato. Fatte le debite distinzioni fra poeti e poesia, fra scrittori e scrittura, si può dire che in ambito letterario la poesia stia supplendo a una narrativa che, in generale, si fa sempre più povera in bellezza e in pensiero. Tanto è docile la narrativa alle esigenze massificatrici dell’editoria, quanto riottosa è la poesia, col suo mulino che deve macinare lentamente per macinare fino. 

È a questa corrente – che annovera in Italia i nomi illustri di Antonella Anedda, Vivian Lamarque, Milo De Angelis e molti ancora ancora – che si iscrive la poesia di Stefania La Via (Erice, 1973).  L’autrice intrattiene con la parola uno speciale rapporto di intimità professionale (filologa, archivista, paleografa, insegnante di Lettere, studiosa della poesia contemporanea, animatrice culturale),  divenuto vocazione e destino. Ne dà matura prova al lettore con la sua recente raccolta di poesie: Persistenze. parole, memorie frammenti ( Màrgana Edizioni, Trapani 2021, pp.121, Euro 12).

Divisa in tre sezioni, eponime del sottotitolo, la prima di esse (“PAROLE”) esordisce con l’invocazione “Alla Musa, un ritratto della temperie e degli sfinimenti in cui matura il libro, il 2020: orribile anno di morti, segregazioni e attese: […] giorni bui e ingloriosi […] notizie che ieri ci hanno scosso/il cuore e si avvolgono/alle viscere/dei pesci nelle bancarelle […]. Piuttosto che appendere la cetra ai salici, l’autrice ne ha tratto occasione (“Di me”) per andare alla ricerca della […] smarrita ombra di me stessa./ Oltre la tentazione della fuga/trovare il verbo che costringe al sogno concreto della messa in atto della vita. Pur sogno, la vita esige la veglia per avere dignità di cosciente racconto. Ma come fare poesia (in quei giorni e negli altri)? Di poesia bisogna nutrirsi a lunga scadenza e con pazienza: […]la rumino, la disfo e la rifaccio/nuova […] Nel mio errare di verso in verso/mi perdo in un dettaglio di petalo,/in pozzanghere/in cui si specchia il cielo (“Di verso in verso). L’erranza, cioè l’errare, l’ammettere l’errore come dettaglio del cammino, fissarsi nella consapevolezza che il bello si può cavare fra il fango terrestre e il nitore del cielo. Questo suo itinerario dentro l’arte poetica è motivo ricorrente della prima parte della raccolta, visita nella sua bottega interiore: […]Basta un profumo nell’aria […] un nonnulla […] un vetro che rifulge/un barbaglìo./E’ un attimo, ma ha la potenza /del miracolo[…] (“Alla poesia”).L’ispirazione, sembra dirci, è come lo spirito, che alita dove vuole: […]attratta dal dettaglio di qualcosa/da una persistente permanenza[…] (“Fare una poesia”). Da qui il titolo Persistenze della raccolta: il volto della poesia persiste, non passa, chiede udienza, se ne sta sulla soglia della vita, come il volto sfocato di un importuno dietro il vetro sporco delle nostre distrazioni. “Scrivere è […]tracciare percorsi/per future carovane di pensieri […] l’affastellarsi confuso delle voci/e la paura che tutto sia/invano. L’altra modalità della persistenza è dunque lo stare in continuo ascolto, allorquando scrivere è trascrivere, affinché certe voci che ci chiamano dall’abisso della sonnolenza e della dimenticanza non vadano disperse. In questa accezione la persistenza è l’inverso della “Transitorietà”, persistenza è l’atto poetico mediante il quale le parole vengo sottratte alla fragilità di senso e di tempo dell’esistenza: […] così la vita si protrae nelle parole/che la raccontano, la trattengono/nel perenne dissolversi che è il nostro destino. La mortalità ci assedia, tende agguati ad ogni angolo di gioia […]. Sono questi i versi più rappresentativi e fra i più belli della silloge. Forza icastica e immagine di classicità ha pure “Nostos”: Ci auguriamo un buon ritorno/a noi stessi […] In questo viaggio/la precisione della parola/non è àncora ma remo che costringe/a smuovere acque d’abitudine,/a reinventare il mondo,/è libertà. La missione che l’autrice assegna alla parola è qui il ritorno alla autenticità del discorso e alla sua diurna esattezza, che è il ramo d’oro della ragione critica, condizione necessaria per la discesa notturna nel mondo poetico, là dove “reinventare” è possibile senza smarrirsi. Anche in “Solo la parola” Stefania La Via insiste sul fare poesia come atto etico e trasformativo: Poesia non è un’amena passeggiata/che lascia il mondo così come lo vedi,/piacevole o paurosa foresta di forme […] ma apnea/precipizio/sconquasso […] martello che frantuma il guscio/delle apparenze, delle illusioni/che chiamiamo realtà[…]. Nella wolfiana stanza tutta per sé la poetessa procede sull’orlo di un abisso, che ha l’obbligo di guardare, perché là dove c’è il pericolo del solipsismo possa crescere anche la salvezza dello spirito, a patto che la parola poetica attraversi la Realtà giusto nello […]/ strappo che squarcia la trama  del tessuto/punto di osservazione sul nulla […]. È l’antico gesto con cui i sapienti sollevarono il velo di Maya.

Il secondo quadro (“MEMORIE”) di questo polittico è dedicato all’argomento principe della letteratura occidentale (e invero della civiltà dell’uomo): il Tempo, di cui la memoria è manifestazione e occasione ([…]mi sorprendo a pensare/nel languore del pomeriggio), accumulo (Piccoli oggetti inutili, regali/cose passeggere/sparse tracce di noi) e identità ([…]fili che non riusciamo a recidere/ per timore di afflosciarci come pupi). Così nella poesia eponima di questa seconda sezione.  Anche la burocrazia del quotidiano ha la sua voce con le sue diversioni, come in “Estate”: […]ma mi distrae la vita col suo farsi,/l’urgenza del dettaglio, i piatti/sporchi nel lavello, lo schermo accesso/[…]. Il tema del trascorrere del tempo risuona, alluso e trasferito, anche nella possente inerzia della materia: E’ misterioso/ il dolore delle pietre,/quando il mare le avvolge e trascina/le forgia e sminuzza/in frammenti/in cocci/in sabbia (“Il dolore delle pietre”). Pochi, intensi e religiosissimi versi, se si sa coglierne l’accorata trascendenza. In “Stazioni” il tempo viene declinato nella forma del primo amore, quasi una genealogia universale: […]Eravamo/il primo Uomo e la prima Donna/di fronte al primo peccato/e insieme/gli ultimi viaggiatori/in stanca attesa di un treno/ nella stazione deserta. Ultimi di infiniti/altri, i primi dell’indomani […]. Al dominio di questa tematica appartiene pure la poesia “Persistenze,” che esprime, nell’epilogo, il senso del titolo della silloge: C’è stato un tempo in cui parlavo di te […] e non trovavo pace./Ancora oggi è difficile/fare entrare un mondo/dentro un foglio. Dinnanzi alla persistenza dei ricordi (in questo caso di un amore giovanile, ma vale per ogni altro ricordo) e al loro perpetuo presente, la poetessa ha la struggente consapevolezza di un aforisma nascosto nella memoria: solo ciò che passa persiste (tema assai in voga nella ‘poetica delle rovine di Roma’: dal Castiglione  a Giovanni Vitale, a Quevedo e ad altri), e se persiste e si affastella con altre persistenze, non c’è foglio che possa arginarlo. È l’antinomia della parola, che in letteratura resta sempre di necessità un passo indietro rispetto alla vita (infatti, la letteratura è un immenso commento alla vita, e dunque non la precede, perché non vi può essere un commento che venga prima dell’opera, anche quando un romanzo o una poesia sono profetiche, perché il futuro ha bisogno di un presente).  Il titolo della silloge trova poetico compimento almeno in altre due componimenti. “Credere”: Credere/nella precisione acuta dei dettagli/che non mentono e dicono una vita/nella persistenza degli oggetti/che tornano nuovi/nel ricordo, come risorti […] e “1973”: […]E questi versi come impronta digitale/relitti di viaggio/chiosa di un testo disperso/che solo il commento tramanda. Nudità, resistenza.

Il coronavirus è il parnaso del terzo capitolo della silloge. Con saggezza redazionale l’autrice gli assegna “FRAMMENTI” come titolo, e designa ciascuno dei brani che lo compongono con un nudo aggettivo ordinale: dal “frammento primo” al “frammento cinquantunesimo”, quasi improvvisi musicali, ma non sempre brevi, tenuti insieme dal lungo filo di mesi della pandemia. Ricorre più volte l’urgenza della diagnosi poetica per dire il male con l’immagine. Proviamo a compilare un’antologia di queste similitudini di pacificata bellezza, sussurrate nella pazienza dell’attesa. […] La vita – meccanica perfetta – /di cui distratti avevamo dimenticato/l’inarrestabile mistero/si sporge/dalle soglie,/ci fa cenni/da lontano[…] (“fr. primo”). Un nemico invisibile ci sottrae i giorni, li mette/sottovetro […] Come un collezionista/di farfalle/osserviamo la vita da una teca […] (“fr. quarto”). A sera, in un silenzio d’acquario/il condominio è un albergo/di solitudini […] (“fr. venticinquesimo”). […] la linea della libertà/sfuma indefinita, si allontana/si fa miraggio, pulviscolo, amputazione […] (“fr. trentaseiesimo”).  Ad altri frammenti Stefania La Via affida il compito di rispondere a due altre questioni, che allora ci apparvero cruciali (e oggi, le abbiamo dimenticate?): cosa possiamo (potemmo) imparare? Cosa può (poté) fare la parola inerme del letterato? Detto in altro modo: il valore etico ed estetico (non ci turberà il vocabolo, se colto nel senso di restituzione poetica dell’esperienza) di quel tempo, aspetti che facilmente e di necessità si contaminano. Anche qui proponiamo una scelta di brani. L’epidemia come ritiro nella coscienza: E così anche noi abbiamo il nostro deserto/il nostro digiuno di quaranta giorni/per disimparare quanto abbiano bisogno/del superfluo (“fr. ottavo”). La scrittura portata allo scoperto, esperienza di evasione dalla clausura dei corpi: Stendo parole sul davanzale/perché il sole le incendi a poco a poco […] restituisca loro la libertà che a noi è tolta (“fr. undicesimo”). Il desiderio di fuggire verso la luce frustrato dal dominio dell’ombra luttuosa: Come Persefone, regina triste/del regno delle ombre, vorrei trovarmi addosso d’improvviso/la luce a cui appartengo/[…] ma la mente nutre fantasmi/e mi aggiro e vago/persa/in zone imperscrutabili di buio (“fr. trentasettesimo”). Accade però che l’incertezza della memoria che verrà (se la memoria ha un futuro, avrebbe soggiunto Sciascia) diventi consolante curiosità, interrogativo che divaga dal presente: […]In questo momento/sentiamo davvero d’essere/di passaggio, sostanza aerea fatta di parole./ Chissà come ci racconteranno… (fr. ventitreesimo”). Eppure è la parola, la sua ‘estetica’ a essere nutrice della speranza, perché […]per quanto dura il canto/ha tregua il male (“fr. trentaduesimo”); perché la poetessa non rinuncia a gustare gli atomi stessi delle parole, le vocali […] che oscillano tra le labbra/e le fanno vibrare/e poi la morbidezza delle palatali/o sfrigolio lieve delle fricative […] e lasciarmi cullare dalle sibilanti/mentre mi sussurri che mi ami (“fr. quarantanovesimo”); perché le parole, seppure stanno in quei giorni di sciagura, […]nell’abisso dei pensieri […], quasi inaridite dall’incuria di superiori affanni, attingono a una forza segreta che le tramanda, […]come piante ostinate a sopravvivere/per sola memoria d’acqua (“fr. cinquantatreesimo”). È con questo splendido verso che si chiude la raccolta, quasi un inno brevissimo e intenso alla nuda potenza delle parole, un lascito, un pensiero conchiuso e irrisolto, come l’ostinata ‘persistenza’ della Poesia.

I versi di Stefania La Via narrano l’epica del vivere quotidiano, della burocrazia dei giorni e della ricerca dell’oscura sostanza delle cose, riuscendo a far convivere l’immediatezza dell’emozione con la ruminazione del pensiero. La sua parola poetica cammina sempre accanto alla ricerca di senso e alla contemplazione del mistero della sua assenza, evocata nei dettagli della realtà, raccontati con un verbo immaginativo e quieto, con una mediana e ricercata altezza di tono. La sua prosa ha gli occhi virginali del fanciullo ma la mente inquieta dell’adulto. Se è vero che la poesia, all’attuale stato del suo cammino, esige l’ordinario e il pensiero, l’ombra del disadorno e la luce icastica che l’oltrepassa, ebbene, sono elementi, gli uni e gli altri, che s’incontrano come frequenti segnacoli lungo questa raccolta. E badi il lettore ad ascoltare il consiglio velato dell’autrice, e a leggere i suoi versi nelle ore serotine, perché La sera scrive con corsivi d’ombra […] (“Via Giudecca”).

Di Alberto Genovese su tuttatoscanalibri

L’alternativa del cavaliere

Hans Tuzzi e l’ultimo Melis: Ma cos’è questo nulla?

Un secolo di Proust (per tacer degli altri)

Andrea Ravazzini “Fiamma Lucente e Residui di Marea. Frammenti”, presentazione

Transeuropa Edizioni

“Fiamma Lucente e Residui di Marea. Frammenti” è una silloge che raccoglie in ordine cronologico una selezione di componimenti poetici, in versi liberi, da me composti ed elaborati nel corso di un breve periodo di tempo durante l’anno 2023.
Le influenze più significative che hanno improntato in modo preponderante lo stile di composizione dei frammenti e dei componimenti derivano dalla lettura di classici italiani, come
Ungaretti e Pavese, di poetesse della corrente confessional (Sexton, Plath), di Pessoa, ma in particolare dalla lettura dell’opera poetica di Antonia Pozzi e di Cristina Campo.
Le poesie raccolte hanno un carattere intimista-ermetico, senza enfasi su prolissità, retorica e tecnicismi eccessivi, ma invece risultano tese a valorizzare la singolarità della minima parola nella sua densità di senso e di significato profondo.
Affrontano variate tematiche legate ai sentimenti che costellano il mondo dell’interiorità e ai moti dell’animo umano, tra cui la condizione di gettatezza e di angoscia esistenziale, la tristezza esistenziale, la fiamma della speranza e della vita, il potere della poesia e della parola.
La speranza, la parola, la poesia -che sono doni, quindi che richiedono di stare in attesa affinché possano essere ricevuti e germogliare in frammenti-, vengono lette in termini pozziani come ancore di vita a cui aggrapparsi, poiché donano senso e salvezza.

Andrea Ravazzini

Primo canto nel buio

Dello stesso autore su tuttatoscanalibri

Naufragi di paesaggi interni. Frammenti

Guido Gozzano “… ma lasciatemi sognare”

Poesie – La via del rifugio – I colloqui

A cura di Maria Teresa Caprile

Presentazione di Francesco De Nicola, Saggio introduttivo di Vincenzo Gueglio

Gammarò/Oltre edizioni

Con Guido Gozzano comincia all’inizio del Novecento una stagione del tutto nuova per la poesia italiana, non più scritta da nobili chiusi nelle loro biblioteche come Leopardi e Manzoni o da professori eruditi come Carducci e Pascoli e neppure da uomini di mondo in cerca di successo come d’Annunzio. No, Gozzano è un ragazzo di famiglia della buona borghesia che ama la lettura condotta da autodidatta, e che cerca nella scrittura di esprimere i suoi stati d’animo: spesso combattuti tra il desiderio della vita semplice in una natura ancora non intaccata dagli uomini e la sua insoddisfacente condizione intellettuale; e per uscire da questo perdurante malessere, ravvivato da un tono ironico fino ad allora quasi assente dalla letteratura italiana, non rimane che la fuga nel mondo dei sogni, raccontati con parole e immagini chiare e coinvolgenti. Nella sua breve vita, Gozzano (1883-1916) ha pubblicato solo due raccolte complete di poesie: La via del rifugio (1907) e I colloqui (1911) che qui ora presentiamo affidate alle cure di Maria Teresa Caprile, con un saggio introduttivo di Vincenzo Gueglio e una presentazione di Francesco De Nicola, che precisa le caratteristiche di questa edizione, ricca di note su personaggi, situazioni storiche e vocaboli oggi non più in uso, ma del tutto priva, tranne qualche breve osservazione alla conclusione di ciascun testo, di interpretazione o classificazione delle poesie di Gozzano che ciascun lettore, come ci sembra indiscutibile, valuterà secondo la sua sensibilità e formazione.

Guido Gustavo Gozzano (Torino, 19 dicembre 1883 – Torino, 9 agosto 1916 è stato un poeta e scrittore italiano. Il suo nome è spesso associato alla corrente letteraria post-decadente del crepuscolarismo. Nato da una famiglia benestante di Agliè, inizialmente si dedicò alla poesia nell’emulazione di Gabriele D’Annunzio e del suo mito del dandy. Successivamente, la scoperta delle liriche di Giovanni Pascoli lo avvicinò alla cerchia di poeti intimisti…

Forugh Farrokhzad “Io parlo dai confini della notte”, presentazione

A cura di Domenico Ingenito

Testo a fronte

In un brevissimo arco di vita Forugh Farrokhzad ha lasciato un segno profondo nella cultura non solo del suo paese ma di tutto il mondo: paragonata ad Anna Achmatova e Sylvia Plath, celebrata come una figura di rottura e ribellione, è stata traduttrice e cineasta, ma soprattutto una grandissima poetessa. Letta oggi, nel clima di persecuzione che circonda le donne iraniane impegnate a cambiare le regole del loro mondo, suona come una straordinaria anticipatrice, ma è stata ed è un’artista senza tempo e fuori dal tempo, che ha vivificato la nobilissima tradizione poetica del suo paese raccontando passione e dolore, tormenti intimi e sussulti dell’anima. I suoi versi sono stati a lungo banditi in Iran, pur circolando sempre sottobanco, e sono tuttora fortemente censurati. Questa edizione è la prima al mondo a raccogliere la sua intera opera poetica sia in persiano che in traduzione. (dal Catalogo Bompiani)

Una prima edizione a livello mondiale che raccoglie l’intera opera in versi della poetessa iraniana con il testo in lingua originale a fronte: cinque opere che anche dai titoli sono testimonianza non solo di una situazione al tempo dell’autrice, l’Iran degli scià della dinastia Pahlavi, meno restrittivo nei confronti delle donne di quelli che stiamo attualmente vivendo attraverso le cronache, ma di ribellione e di ricerca di una libertà negata: Prigioniera, Il muro, Ribellione , Una rinascita  scritti tra il 1955 e il 1964 e Crediamo pure all’inizio della stagione fredda pubblicato postumo nel 1974, la libertà più ovvia, quella di esistere come donna e come tale offrire il proprio individuale punto di vista, con un proprio sentire e una propria fisicità, la propria femminilità non riconosciuta ed elusa dentro una visione patriarcale di sudditanza. Una giovane donna coraggiosa come per altro hanno saputo ancora dimostrare e combattere le donne iraniane tra le quali la poetessa è sicuramente un simbolo perché anticipatrice di un riscatto attraverso la sua opera poetica.

«So di non aver fatto nulla di straordinario, se non essere stata la prima donna a muovere un passo per spezzare questa catena di vincoli che legano le donne» ( le parole di Forugh Farrokhzad riportate da Roberto Galaverni nel suo articolo di presentazione del volume su La lettura del 22 ottobre 2023)

Forugh Farrokhzad nasce a Tehran nel 1934 e muore in un incidente d’auto, sempre in Iran, nel 1967. Si sposa giovanissima, poi lascia il marito per dedicarsi interamente alla scrittura e all’arte, sia in patria che in Europa. Nel 1963 scrive e dirige un corto di venti minuti, La casa è nera, ambientato in un lebbrosario, che accende un vivissimo interesse nel mondo cinematografico, mentre le sue raccolte poetiche suscitano scandali ed entusiasmi in un Iran ancora fortemente legato alla tradizione. L’ultimo libro pubblicato in vita, Una rinascita, è considerato un capolavoro del modernismo persiano.

Per saperne di più sull’Autrice da You Tube

Ingeborg Bachmann “Invocazione all’Orsa Maggiore”, presentazione

Nel cinquantenario della scomparsa

Edizione con testo a fronte a cura di Luigi Reitani

Con una Nota di Hans Höller

Adelphi Editore

In libreria il 20 ottobre

[…] Una poesia multiforme, cangiante, dove classico e moderno si fondono in versi ora audaci e spigolosi ora di chiara musicalità, e lo sguardo della Bachmann si mostra attento a cogliere la violenza della realtà e il dolore, in particolare nei paesaggi italiani, luminosi e arcaici, feriti e vitali, lontanissimi dai cliché della tradizione classico-romantica: «Nel mio paese primogenito, nel sud / mi assalì la vipera / e nella luce l’orrore».(dal Risvolto,  Adelphi Editore)

Adelphi ripropone in una nuova edizione la raccolta di versi “Invocazione all’Orsa maggiore” (1956).

Nata a Klagenfurt in Carinzia, al confine con la Slovenia e l’Italia, visse con dolore l’ingresso delle truppe naziste nella sua città cercando rifugio nei luoghi di origine della famiglia.

Alla liberatoria caduta del regime, nel 1946 si trasferisce a Vienna dove conoscerà Paul Celan, l’amore della sua vita e che tanto spazio occuperà nelle sue opere in poesia e in prosa. Insieme saranno nel Gruppo 47, costituito da giovani letterati e scrittori, leggendo le loro poesie. Un amore travagliato e impossibile. Una nuova fuga nel 1953 la porterà verso l’Italia, prima a Ischia poi a Napoli e infine a Roma, la città che eleggerà a nuova patria e dove comporrà il canzoniere che Adelphi riedita nel cinquantenario della tragica morte della poetessa. Un’edizione speciale, bilingue, con il testo della edizione critica tedesca di Reitani e impreziosita da un importante apparato iconico

“Ingeborg Bachmann si fa portatrice di una moderna poetica del sublime, che riconosce la grandezza dell’uomo nella sfida che egli rivolge alle potenze che lo sovrastano. Se Dio non abita nel mondo e se la storia è visitata dal male, se l’uomo è estraniato da se stesso, spetta al canto poetico testimoniare messianicamente la verità. Il non-rivelarsi di Dio, la sua «presenza-assenza» ― un concetto che lega Ingeborg Bachmann a Simone Weil e a Wittgenstein, e ancora più indietro a Hölderlin ― si rovescia così nella trascendenza mistica della parola. Ogni poesia è in questo senso Anrufung: preghiera, invocazione e chiamata in giudizio al tempo stesso.” (Da Luigi Reitani)

Brevi note biografiche

Ingeborg Bachmann (Klagenfurt, 25 giugno 1926 – Roma, 17 ottobre 1973), scrittrice e poetessa austriaca conosciuta anche come Ruth Keller (pseudonimo). Nel 1953 la raccolta di poesie Il tempo dilazionato ottenne il premio letterario del Gruppo 47. Nel 1956 venne pubblicata la raccolta di poesie Invocazione all’Orsa maggiore, conseguendo il Premio Letterario della Città di Brema. Del 1961 è la premiata raccolta di racconti Il trentesimo anno, e nel 1971 il romanzo Malina. Muore a Roma a causa di un incidente causato da una sigaretta: addormentatasi la sua vestaglia prese fuoco. Portata in ospedale morì successivamente per le complicanze.

Alcuni componimenti della poetessa a questo link

Marco Plebani “Decimo Dan”, presentazione

Edizioni La Gru

La silloge raccoglie le liriche composte in quasi due decenni, dal 1999 al 2021. Si compone di tre sezioni: antimeridiano/Pomeriggio e sera/Notte

Il titolo fa riferimento metaforico al massimo grado delle arti marziali inteso come quel più alto livello di consapevolezza che la poesia fa raggiungere. C’è molto ritmo in Decimo Dan, molta musica, molta creatività. Quello di Plebani è uno stile decisamente anticonvenzionale, tagliente e profondo (da La Gru Edizioni).

Spigolando, alcuni stralci dalle tre sezioni:

Prisma

Esplodono colore e rumore

dei tuoi occhi.

Sotto qualsiasi sole,

dentro qualsiasi notte,

dietro qualsiasi lacrima.

CRONO

Colleziono ricordi per il futuro

IL MARE

Il mare ha bisogno,

il mare non è mai lo stesso,

il mare ha un sogno

custodito nel volteggio delle acque antiche.

Ma una volta,

una volta soltanto,

la mia lacrima ha contenuto il sale degli interi oceani

DESERTO

I venti

invano

cancellano

le orme

che imprimi

sulla mia anima

trasmigrante

verso la linea

di un orizzonte morbido

Brevi note biografiche

Marco Plebani (Jesi, 1978) è un insegnante di Lettere. Ha pubblicato il libro Un giorno qualsiasi (OTMA, 2011).

Cristina Annino “L’udito cronico”, Graphe.it

Ne L’udito cronico, il canto della compianta autrice toscana si contraddistingue per la sua forza impersonale, eversiva, tinta di un sarcasmo pungente, mai banale.

Paura della solitudine

……… Così
stiamo. Ma a volte
il cane ha gesti indifferenti,
passa con la sua
morte, e non siede.

Questa agile ma sorprendente raccolta di Cristina Annino comparve nella collettanea Nuovi poeti italiani 3 a cura di Walter Siti nel 1984. Mai apparsa di seguito in un volume a sé stante, viene qui riproposta nella sua versione originale. Anche in quest’opera, intitolata L’udito cronico, il canto della compianta autrice toscana si contraddistingue per la sua forza impersonale, eversiva, tinta di un sarcasmo pungente, mai banale. Nella lunga e originale traiettoria compiuta, Annino è difatti sempre rimasta fedele al proprio “fare poesia”, in senso per davvero materico, e in questa silloge ancora una volta la sua scrittura si fonda su una commistione di interessi sia visivi (fu anche originale pittrice) che lirico-musicali, divenendo così un preciso cesello meta-realistico, un patchwork del linguaggio in continua tensione. Si può dunque parlare di poesia pseudo-dadaista, come anche di poesia civile, di un civile però votato al suono, dove il tono affabulatorio e la messa in scena di un irriverente teatrino ritmico-verbale danno vita a una poesia di elementi che giocano in maniera quasi distopica sul tavolo dell’esistenza, in cui l’io (spesso declinato provocatoriamente al maschile) è un automa perennemente in bilico tra evoluzione e disfacimento. Un canto elettrico che sorprende per la sua luminosità prosodica coinvolgendo direttamente il lettore nell’attenzione del mondo tramite l’enunciazione dell’avvenimento, che non è mai qui mera meta-cronaca, bensì concatenazione di possibili realtà, configurazione astrale e terrestre di significato e mistero.

Cristina Annino (pseudonimo di Cristina Fratini, 1941-2022), è stata scrittrice e poetessa. Dopo gli studi in Lettere Moderne a Firenze dove si laureò con una tesi sulle prose di César Vallejo ha frequentato, sempre a Firenze, il Caffè Paszkowski dove entrò in contatto con il Gruppo ’70, fondato nel 1963 da Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti. Esordì nel 1969, pubblicando, con le edizioni Téchne, Non me lo dire, non posso crederci. Nel 1989 si trasferì a Roma e iniziò a dipingere, tenendo mostre collettive e personali in Italia e all’estero. Tra le altre sue raccolte poetiche si segnalano Ritratto di un amico paziente (Gabrieli, 1977), Il cane dei miracoli (Bastogi, 1980), Madrid (Corpo 10, 1987 – ex aequo Premio Pozzale Luigi Russo; poi Stampa 2009, 2017), Casa d’aquila (Levante, 2008), Magnificat (Puntoacapo, 2010 –  premio Lorenzo Montano), Chanson turca (LietoColle, 2012), Anatomie in fuga (Donzelli, 2016), Le perle di Loch Ness (Arcipelago Itaca, 2019) e il postumo Avatar (Avagliano, 2022). È stata anche autrice di due romanzi: Boiter (Forum/Quinta generazione, 1979) e Connivenza amorosa (Greco&Greco, 2017).

A questo link approfondimenti sull’autrice su Graphe.it

Akano Yotsuba “Chiodi battuti”, presentazione

Nel discorso tenuto durante la cerimonia di premiazione alla 34esima edizione del Premio Nuove Voci dello Haiku Moderno (現代俳句新人賞), il vincitore Akano Yotsuba (1977-) ha definito lo haiku «la forma poetica più bella dopo il silenzio», sottolineando con tali parole quanto la brevità (di fatto quasi prossima al silenzio) giochi in esso un ruolo fondamentale.( da I Quaderni del Bardo Edizioni)

A cura di Diego Martina

Cento haiku raccolti nel volume tradotto e curato da Diego Martina per le edizioni I Quaderni del Bardo, la prima opera di Akano Yotsuba tradotta e pubblicata in Italia e presentata in edizione bilingue a Tokyo.

Diego Martina ha studiato lingua e letteratura giapponese e, nell’antologia da lui curata che comprende una scelta dagli ultimi due libri del poeta giapponese, Formica notturna e Macellare, con l’aggiunta di venti testi inediti, fa presente che gli haiku del poeta Akano Yotsuba (Kochi 1977) non hanno la struttura classica del genere ma più moderna .

L’autore della raccolta “Chiodi battuti” ha iniziato a scrivere haiku dal 2011 in occasione di due funesti avvenimenti, il terremoto di Tohoku e l’incidente nucleare di Fukushima: tre versi brevissimi, quasi prossimi al silenzio, eppure in Akano Yotsuba, come chiarisce il curatore nell’Introduzione “questa brevità concisa talvolta considerata il limite intrinseco dello haiku, in quanto difficilmente ciò che è grande riesce a trovare spazio in ciò che è piccolo” è “del tutto azzerato nei componimenti di Yotsuba, dove lo haiku non è più ciò che intende esprimere, quanto ciò che intende indicare. Proprio come nel celebre insegnamento Zen del dito che indica la luna, dunque, lo haiku si fa dito, e nel leggere i singoli componimenti c’è chi scorgerà la luna di volta in volta indicata e chi, per forza di cose, si fermerà a osservare il dito”.