Giuseppe Scaraffia, scrittore raffinato e studioso di letteratura, racconta il servizio militare di molti autori che abbiamo imparato ad amare e a leggere. Attraverso una trentina di esempi, racconta il comportamento di alcuni poeti, scrittori e pensatori che hanno fatto la storia della cultura degli ultimi due secoli: Rimbaud, Nietzsche, Dostoevskij, Proust, Freud, Jarry, Morand, Rilke, Zweig, Thomas Mann, Werfel, Léau – taud, Céline, Savinio, Schnitzler, D’Annunzio, Jünger, Valéry, Fitzgerald, Hemingway, Drieu La Rochelle, Buzzati, Genet, Cioran, Waugh. Un libro sorprendente, un mosaico di ritratti segreti. Un prezioso dizionario di aneddoti e curiosità.(dal Catalogo Neri Pozza)
Ad iniziare dal 1854 con Dostoevskij fino al 1939, scrittori in divisa, patrioti o disertori come Rimbaud o Thomas Mann che si sottrasse volentieri all’obbligo militare o Hemingway, l’autore di Addio alle armi, arruolato nella Croce Rossa o Jean Genet che indossò la divisa francese avendo in odio patria e compatrioti: sono alcuni esempi di una trentina di biografie di scrittori che in modi diversi si trovarono ad indossare una divisa.
“Stile raffinato, talora prezioso, e utilizzo sempre mirato delle citazioni d’autore volta a volta si concentrano su un dettaglio biografico che in realtà è rivelatore di una concezione del mondo e più in generale di una vocazione letteraria” – così scrive Massimo Raffaeli presentando il testo sulle pagine del Venerdì ( 31 marzo 2023).
Un’angolazione diversa da cui guardare alla biografia e al vissuto di grandi autori del ‘900
Brevi note biografiche
Giuseppe Scaraffia, torinese, vive a Roma, dove ha insegnato Letteratura francese presso l’Università La Sapienza di Roma. Ha scritto vari libri sui grandi miti ottocenteschi della seduzione, dalla femme fatale al dandy, su Parigi e sulla Costa Azzurra degli scrittori. Collabora al domenicale del Sole 24 ore, al Venerdí e a Tuttolibri.(da Neri Pozza Autori)
Romana Petri costruisce e decostruisce, sgretola le regole della biografia, evoca e racconta amori, amicizie e sgomenti come dettagli di un appetito d’avventura mai sazio, si muove fra le date e dentro la Storia alla sola ricerca del principe che ha sconfitto la notte ed è entrato volando nell’infinito. (da Mondadori Editore)
L’autrice racconta da varie prospettive, insieme alle donne, agli amori, ai luoghi e ai tempi della storia, la vita di Antoine de Saint-Exupéry e la sua grande passione per il volo e per la scrittura cosa che faceva durante i suoi viaggi tra terra e cielo, disperso durante una missione di guerra aerea sulla Francia il 31 luglio 1944. Il volo, una passione che troverà ampio spazio nei suoi scritti tra i quali, il primo romanzo Vol de nuit (1931), in cui l’azione si attua nel corso di una notte, ma anche Pilote de guerre (1942) testimonianza sulla sfortunata campagna di Francia del 1940, romanzi che non ebbero risonanza ma lo resero famoso fino al più letto in assoluto nel mondo Le Petit Prince,(New York 1943) scritto un anno prima di morire.
Ma chi era l’autore di quel romanzo immortale che tutti più o meno abbiamo letto o che comunque conosciamo per fama?
Questa la domanda a cui risponde il romanzo di Romana Petri che colma i vuoti delle ricerche biografiche del personaggio con l’immaginazione raccontandoci un uomo e la sua grande passione nonché l’amore per la madre Marie Boyer de Fonscolombe, vedova giovanissima del visconte Jean de Saint-Exupéry dal quale ebbe cinque figli e alla quale era particolarmente legato come si evince nella sua ossessiva e fitta corrispondenza con lei.
Il romanzo si apre proprio con una lettera alla madre da Cap Juby, in Marocco, del 27 febbraio 1928, dove dirige una stazione aeropostale, in pieno deserto; altre missive sono presenti più volte nel corso della narrazione:
“vi chiedo scusa per il ritardo, so di avervi abituata ad altri ritmi. Ma qui sono stato io a dovermi abituare. Forse non è il termine giusto, ma non me ne viene un altro. Potrei dire stupore – abituarmi, adattarmi allo stupore –, ma non rende l’idea. Non importa, voi mi conoscete come nessuno”.
firmata Tonio, nome con cui era familiarmente chiamato.
Romana Petri vive a Roma. Tra le sue opere, Ovunque io sia (2008), Ti spiego (2010), Le serenate del Ciclone (2015, premio Super Mondello e Mondello Giovani), Il mio cane del Klondike (2017), Pranzi di famiglia (2019, premio The Bridge), Figlio del lupo (2020, premio Comisso e premio Speciale Anna Maria Ortese-Rapallo), Cuore di furia (2020), La rappresentazione (2021) e Mostruosa maternità (2022). Traduttrice e critico, collabora con “Io Donna”, “La Stampa”, “il Venerdì di Repubblica” e il “Corriere della Sera”. I suoi romanzi sono tradotti in Inghilterra, Stati Uniti, Francia, Spagna, Serbia, Olanda, Germania e Portogallo (dove ha lungamente vissuto).
“Una mattina del 1970 il più importante illustratore italiano, Giorgio De Gaspari, sparisce da Milano senza lasciare traccia. Qualche mese dopo in una sperduta isoletta della laguna veneta un barbone chiede di poter dormire nella barca di un pescatore: si fa chiamare “Giorgio Foresto”. Cominciano così le avventure strampalate di una delle figure artistiche più sfuggenti del ventesimo secolo. Una vita custodita da un mistero non ancora del tutto svelato”(dalla Quarta di copertina Edizioni NPE).
!970 Pellestrina un cordone di terra che fa da barriera alla laguna veneta, qui Giorgio De Gasperi trascorrerà la propria esistenza isolato dal mondo e sconosciuto: quarant’anni vissuti in povertà e nel completo anonimato. Una storia che ha dell’inverosimile e che conferma quanto Pirandello ebbe a dire sulle assurdità vere di cui è costellata la vita, molto più che in un romanzo dove sono verosimili.
È stato il lavoro di ricerca di Giovanni Scarpa, ai tempi un bambino che viveva di fronte alla palafitta abitata dal barbone che scambiava i suoi disegni per cibo e alloggio, ad indagare sull’uomo di cui leggerà la data della morte su un articolo di un amico di De Gasperi giornalista: era il 2012. Dalle sue ricerche ora un libro che racconta il celebre disegnatore milanese, illustratore di libri e riviste e fumettista.
Brevi note biografiche
Giorgio De Gaspari è considerato uno dei maggiori illustratori del Novecento alla stregua di Walter Molino, Hugo Pratt e Aldo Di Gennaro. Nato nel 1927 in provincia di Milano, intraprese sin da subito una brillante carriera artistica negli studi del Corriere, alla Fabbri e alla Mondadori. Sospinto poi da un radicale desiderio di nascondimento, scelse di ritirarsi nell’isola di Pellestrina conducendo una bizzarra vita bohémien sotto lo pseudonimo di Giorgio Foresto, ovvero “Giorgio lo straniero”. Qui, indisturbato e liberato da vincoli lavorativi, realizzò opere maestose, coraggiose, visionarie, molte delle quali sono tuttora nascoste nelle case dei privati. Una vita avventurosa che ancora oggi avvolge di mistero la produzione del più fuggitivo dei pittori.
Un libro, scritto a sei mani da tre prestigiose firme del giornalismo italiano, Manila Alfano, Giorgio Gandola e Stefano Zurlo, che racconta 22 storie di donne, imprenditrici di successo e dai saldi valori. Donne che, dal Nord al Sud del Paese, si distinguono per quello che sono e che fanno, per il modo in cui affrontano le grandi sfide e le vincono, capaci, partendo da zero o quasi, di creare importanti business e aziende, ambasciatrici dell’eccellenza e del Made in Italy nel mondo. (da Wise Society)
“Una marcia in più”: le 22 protagoniste del libro
Queste le meravigliose protagoniste del libro, tutte con alle spalle storie di grande fascino e forza: Marilisa Allegrini (Allegrini vini), Milena Baroni (Mycroclean Italia), Grazia Belloni (Camomilla), Laura Bertulessi (Italtrans), Marina Bonazza De Eccher (Rizzani De Eccher), Alida Catella (Coima Image), Anna Cremascoli (Cliniche Columbus), Franca Mentana (Nanan), Marisa Padovan (Marisa Padovan), Maria Giovanna Paone (Kiton), Mariuccia Rossini (Over), Sara Santori (Conceria Nuvolari),
Adriana Silvia (Sartor Elettrotec), Silvia Scaglione (React4life), Rosi Sgaravatti (Sgaravatti Group), Nicoletta Spagnoli (Luisa Spagnoli), Roberta Tagliavini (Roberta e Basta), Romana Tamburini (Surgital), Tiziana Terenzi (Cereria Terenzi), Paola Veglio (Brovind Vibratori), Daniela Villa (Erbolario), Isolina Zecchin (Spazzolificio Piave).(da Wise Society)
[…] 22 storie di donne, dal Nord al Sud del Paese donne coraggiose che non hanno paura di osare, sfidare i pregiudizi, rompere gli schemi. In una parola innovare. Ritratti che il libro, la cui prefazione è stata curata da Alberto Bombassei, presidente di Brembo, intende raccontare negli aspetti pubblici ma anche e soprattutto in quelli più personali e inediti grazie al racconto delicato, ma allo stesso tempo profondo e mai scontato, di tre prestigiose firme del giornalismo italiano: Alfano, Gandola e Zurlo.
Il libro, che gode del patrocinio del Poli.Design e del Brand Extension Hub, facenti capo al Politecnico di Milano, è nato dall’incontro proprio di due donne, amiche e imprenditrici: Antonella Di Leo, editore ed amministratore delegato di Wise Society, la community di aziende e persone che da oltre dieci anni si dedica ai temi del benessere, dell’innovazione e della sostenibilità, e Nicoletta Poli Poggiaroni, a lungo a capo della sua storica agenzia Marketing Consultants, che ha voluto tenacemente questo progetto, perché, come lei stessa sottolinea «quello che conta non è solo l’idea ma la capacità di crederci fino in fondo, a maggior ragione in un momento di immense difficoltà come questo, dove non era facile trovare tante protagoniste».[…]
Un ritratto inconsueto di Giuseppe Verdi, benefattore e illuminato imprenditore agricolo; un suggestivo e coinvolgente quadro ambientale e di costume per riscoprire le atmosfere in cui il Maestro vigilava nelle sue proprietà nel piacentino.
Così si legge sulla Quarta di copertina e, in effetti, è sicuramente un aspetto della vita, delle opere e degli interessi del compositore, inserito in un contesto ambientale e storico, mai preso in considerazione.
Originario di Parma, soggiornò infatti per lungo tempo nel comprensorio piacentino dove, tra i caseifici di Piantadoro e Castellazzo (Villanova d’Arda), in veste di agricoltore amava trascorrere nelle sue proprietà occupandosi di agricoltura e, da oculato imprenditore, di allevamenti e di formaggio, quel Grana il cui nome in origine era piacentino, ma anche mantovano, bresciano e cremonese a seconda delle zone di produzione, e che nel 1954 prese il nome con cui lo conosciamo oggi: Grana Padano.
Un libro fatto di documenti e testimonianze che qualificano il Maestro non solo come grande compositore, evidenziando che le sue maggiori opere furono proprio frutto di quelle terre, scritte quasi tutte a Sant’Agata, dove amava passeggiare soffermandosi a discorrere con i conduttori dei suoi caseifici: il Campioli e consorte, gestori del caseificio di Castellazzo, ma anche gli Allegri e i Cavalli a Piantadoro.
Aneddoti e ricordi caratterizzano il lavoro di ricostruzione dei due autori nel periodo di quasi mezzo secolo che vide Giuseppe Verdi vivere e produrre musica e formaggio proprio nel piacentino, agricoltore attento e amante delle sue produzioni che curava personalmente con amore e passione per la terra.
L’arte, i tessuti, i fiori, i vestiti, le sfilate, le case, l’anticonformismo. Gli archivi di Ken Scott si aprono per rivelare il lavoro e la vita di un designer contemporaneo del suo e del nostro tempo. Ken Scott, il “giardiniere della moda”, è stato un personaggio eclettico, un creativo a tutto tondo, pittore, creatore di tessuti, designer, ha portato nel mondo della moda la sua passione per l’arte, per i fiori, per il colore. Pittore, amico di Peggy Guggenheim, nato in America e approdato nel 1954 nella Milano del boom economico, Scott ha rivoluzionato il mondo dei tessuti e l’uso delle stampe nella moda. All’inizio degli anni Sessanta ha rinnovato la moda con le sue stampe a fiori grandi, ripetuti e dai colori accesi, con girasoli, peonie, rose, papaveri e ogni tipo di fantasia floreale. Precursore dell’unisex e delle sfilate happening, i suoi abiti vestivano la nobiltà italiana e il jet set internazionale: da Jacqueline Kennedy a Marisa Berenson e Monica Vitti, tutti avevano nel guardaroba i suoi capi e frequentavano il suo ristorante e le sue case, aperte a feste ed eventi mondani. Ha disegnato di tutto, dai vestiti ai mobili, dai costumi da bagno alle scarpe e alle borse, ai piatti e alle lenzuola, collaborando anche con altre aziende.
Realizzato in collaborazione con la Fondazione Ken Scott, questo volume è la prima monografia esaustiva sulla sua attività e presenta oltre 600 immagini di materiali provenienti dal suo archivio, gli scatti di Guido Taroni e le foto di grandi fotografi internazionali; i testi raccontano l’uomo e il designer attraverso le parole di autori che l’hanno frequentato e conosciuto e di autorevoli firme contemporanee della moda.
Hans Tuzzi ha saputo tratteggiare in questa biografia, rigorosamente documentata, il ritratto di un magnate, un magnate d’altri tempi, dell’uomo che oltre ad aver saputo creare una potente rete di banche e la maggiore compagnia di navigazione mondiale, aveva salvato l’economia degli Stati Uniti nel 1907 e aveva traghettato quel paese verso un destino imperiale rispetto alla finanza mondiale, ma aveva anche affiancato all’abilità dell’uomo d’affari l’arte del fine conoscitore e di vero amante del bello; un uomo colto, raffinato e filantropo le cui collezioni avrebbero fatto della sua Library una “casa-scrigno” e avrebbero arricchito i maggiori musei di New York.
È questo un tratto distintivo della biografia di J.P. Morgan tracciata da Tuzzi che aggiunge al suo raccontare, da fine narratore, una qualità in più con la quale non manca di catturare il lettore: tocchi da esperto e originale romanziere ne contraddistinguono la scelta narrativa e sanno rendere l’approccio alle vicende accattivante e coinvolgente.
Chiamatemi come vi pare, il mio nome non ha nessuna importanza. Ciò che importa è che da alcuni mesi sono il segretario di una leggenda. Una leggenda che, ora, sta combattendo con la morte.
Queste le parole con le quali si apre la prima pagina alla data “21 marzo 1913, mattino”; successivamente altre voci convergeranno alla ricostruzione della storia dell’uomo più potente del mondo di allora e dei suoi tesori d’arte, popolando gli ultimi giorni di vita a Roma con figure familiari, ricordi, situazioni e sentimenti che evidenzieranno l’uomo e i suoi affetti, ma anche i difetti, le paure, le lontane e recenti malattie nervose che ne avrebbero fiaccato il fisico, nel momento della piena verità per tutti: l’approssimarsi della fine.
E il lettore scopre l’uomo anche attraverso la figura della sua assistente, amica e confidente oltre a essere stata da lui riconosciuta e stimata come creatrice della sua Biblioteca prestigiosa: Miss Belle, donna colta, tenace e vera intenditrice di opere d’arte, capace di trattare, per quanto giovane, con i notabili del settore, riuscendo con il suo fascino e le sue competenze a garantire a Morgan gioielli dell’arte del passato.
Un mondo quello di JPM, acronimo con cui viene designato il protagonista, dove le vicende che hanno caratterizzato la vita del proprietario di banche e di industrie si mescolano, nell’inventario di chiusura, con i piaceri e il gusto della bellezza per l’opera d’arte e per il collezionismo che il solo denaro non può assicurare, con la solitudine di chi, come un qualunque essere umano, affronta le traversie e le gioie della vita comunque da solo, soprattutto nei momenti che precedono l’estremo saluto.
La vicenda si svolge dal 21 marzo 1913 al 31 marzo dello stesso anno, i giorni cruciali della malattia nei quali la voce narrante ripercorre momenti salienti della vita di Morgan che seppe utilizzare la propria ricchezza alla ricerca di un patrimonio artistico da collezionare ma anche da tramandare e preservare.
Una biografia piacevole, scorrevole che si legge come una bella pagina di romanzo; importante per le riflessioni che propone, nel confronto con l’oggi, su di un uomo che dal denaro non aveva voluto solo produrre altro denaro, ma possedere, conservare e tramandare la bellezza, l’unicità e la creatività.
Interessante la Nota conclusiva dove l’autore risponde in maniera documentata alle curiosità suscitate nel lettore il quale può misurare agevolmente lo spessore della narrazione con quello della realtà biografica e dove si disvelano, come in un’agnizione finale, i segreti della bella Belle.
Salvina Pizzuoli
E per saperne di più sul personaggio Morgan l’articolo su InStoria
n.63 marzo 2013
J.P. MORGAN, UN MAGNATE D’ALTRI TEMPI NEL CENTENARIO DELLA MORTE di Salvina Pizzuoli
Non poteva dirsi un bell’uomo con quel naso prorompente e massiccio che campeggiava al centro del volto rendendone i tratti grossolani, eppure poteva vantare una moglie e varie amanti e un’amicizia molto stretta con la sua consulente specializzata nel reperimento delle più prestigiose opere del passato. Uomo potentissimo era figlio d’arte, intendendo che il padre di lui, Junius Spencer Morgan, era banchiere. Nato a Hartford, nel Connecticut, nel 1837, iniziò a soli vent’anni come impiegato nella filiale londinese della società finanziaria del padre, per diventare già nel 1864 direttore della Dabney Morgan e C. e divenire, nel 1871, a soli 34 anni, socio della “Drexel & Co”, assumendone il controllo sei anni dopo, alla morte del socio, e cambiandone il nome in “J.P.Morgan e Co.” quella che oggi gli sopravvive con il nome di “J.P. Morgan Chase & Co” dopo la fusione con la “Chase Manhattan Bank”. Agli inizi del XX secolo John Pierpont Morgan era il più grande banchiere del mondo, rivestendo un ruolo preponderante nella finanza americana e traghettando l’America verso un destino imperiale rispetto alla finanza mondiale, e poteva vantare attività ad ampio raggio: dal finanziamento della nascente industria americana, al settore ferroviario che controllava le linee più importanti del paese; dalla fusione di società da cui nacque la United States Steel Corporation, alla concentrazione di linee transatlantiche con l’acquisto dalla Gran Bretagna della prestigiosa White Star Line costituendo, assieme ad altre aziende del settore, la International Mercantile Marine; il famoso Titanic era di sua proprietà e faceva parte del progetto di costruzione di tre navi gigantesche insieme all’Olympic e alla Gigantic. Per inciso, pare non avesse partecipato al viaggio inaugurale del grande transatlantico preferendo un breve soggiorno alle terme di Aix les Bains con l’amante, scelta che probabilmente gli aveva salvato la vita o comunque lo aveva preservato da una pessima esperienza; l’affondamento del Titanic gli comportò in ogni modo un estremo dolore per tutti quelli che erano a bordo e che conosceva e per tutte le morti che il naufragio aveva causato. Fu varie volte l’ancora di salvezza per il governo americano e inglese con gli ingenti prestiti concessi e con il recupero delle banche americane durante la crisi di Wall Street del 1907, una delle tante che già allora si profilavano, sebbene diverse, nella grande finanza mondiale, prestiti che sanarono il tesoro americano oltre a garantirgli enormi profitti.I Morgan, i Carnegie, i Rockefeller, i cosiddetti “magnati senza scrupoli”, controllando vasti monopoli, banche, ferrovie, petrolio e acciaio esercitavano una notevole influenza anche in ambito politico. Attraverso il commercio privato e le banche si apriva una nuova strada all’imperialismo che non passava più attraverso l’uso delle armi che dovevano servire semmai a proteggere il libero mercato, la stabilità dei mercati finanziari, la proprietà privata. New York da capitale finanziaria degli Stati Uniti, a partire dal 1840, si trasformò sempre più in una capitale mondiale: già all’inizio degli anni ‘60 la città era tra le più ricche del mondo, seconda solo a Londra e Parigi. È proprio a New York, fra la Madison Avenue e la 36th Street, che il grande magnate Morgan creerà la sua biblioteca. Se fu indiscutibilmente il più grande finanziere del suo tempo, fu anche un filantropo e un grande collezionista. “Voglio un gioiello” aveva detto ai suoi architetti McKim Mead & Wihite che avevano costruito vari palazzi per i notabili dell’epoca ispirandosi ad uno stile rinascimentale, il Beaux-Art, che esprimeva tutto l’orgoglio di una nazione giovane ma dominatrice; ancora oggi la P. Morgan Library rappresenta una delle prestigiose architetture della città: due colonne sormontate da un arco ne sottolineano l’ingresso mentre nella facciata domina la bella simmetria degli elementi architettonici. La prima biblioteca occupava un’ala aggiunta alla casa di 219 Madison Avenue, ma ben presto, risultò troppo piccola, così nel 1902 fu edificata da C. Follen McKim e Associati la “Pierpont Morgan Library”, che ancora oggi si può ammirare e visitare: J. Pierpont Morgan Jr, convertì la collezione privata in un’istituzione pubblica nel 1924. Oggi anche museo, alberga un vero patrimonio di manoscritti rari, stampe, libri veramente preziosi. (Continua)
A pochi giorni dal funerale del fratello, Livia si ritrova in un museo di Mumbai, davanti all’immagine di una giovane donna avvolta in “un sari impalpabile e traslucido”, una principessa indiana. È vero, come legge nella didascalia che accompagna lo scatto, che la principessa ha venduto i suoi gioielli per salvare vite di ebrei? E che per questo è stata arrestata, ed è morta in un campo di concentramento? *
Livia Manera scopre casualmente la principessa indiana Amrit Kaur vedendone uno scatto in una sala del Prince of Wales Museum a Mumbai: è un’immagine del 1924 che la raffigura in posa con una didascalia che decisamente colpisce per le notizie che riporta sulla vicenda del suo arresto a Parigi da parte della Gestapo per aver aiutato un gruppo di ebrei a fuggire dalla Francia vendendo i suoi gioielli.
Da un incontro casuale un libro che racconta la vita e le scelte operate in quel lontano periodo da una donna indiana, decisamente ribelle e di idee libertarie.
La giornalista ha quindi ricostruito documentandosi il cammino seguito dalla principessa: nata nel 1904, frequenta un collegio inglese dove respira pensieri e aspirazioni di donne che vivono in occidente aderendo successivamente al movimento per i diritti delle donne in India e, liberata dai vincoli matrimoniali, abbandonerà anche la figlia, per un viaggio in Europa da cui non farà ritorno.
Brevi note biografiche
Livia Manera Sambuy è una giornalista letteraria che scrive sul “Corriere della Sera”. Ha realizzato due film documentari su Philip Roth. Ha vissuto tra Milano e New York, ora vive tra Parigi e la Toscana. Philip Roth. Una storia americana è stato pubblicato da Feltrinelli nella collana di dvd “Real Cinema” nel 2013. Ancora per Feltrinelli, Non scrivere di me (2015).*
Per cinquant’anni Patricia Highsmith ha raccontato la sua vita turbolenta nei diari e taccuini: un’autobiografia irrituale e fedelissima, la cronaca della ribellione di una donna contro le convenzioni, e del percorso luminoso di una scrittrice verso l’olimpo della letteratura.*
Diari e taccuini 1941 – 1995 raccoglie in volume, con la traduzione di Viola Di Grado per La nave di Teseo, quanto la scrittrice americana Patricia Highsmith ha annotato nel lungo periodo cui si riferiscono.
In questo volume ponderoso, ben 1104 pagine, Anna von Planta, l’editor che per molti anni ha affiancato la scrittrice, ha organizzato il contenuto dei 56 quaderni in cui Patricia Highsmith aveva appuntato momenti del quotidiano, riflessioni e idee, quaderni scoperti casualmente dalla von Planta dentro un armadio nella casa in svizzera della scrittrice, subito dopo la sua morte nel 1995. L’autrice raggiunse la notorietà con la serie che ha per protagonista Tom Ripley e anche per i film tratti, L’amico americano di W. Wenders del 1977 e quello di A. Minghella Il talento di Mr. Ripley del 1999, che la consacrarono maestra nel creare suspense e nel genere mistery. Proprio nei suoi appunti si scopre che il personaggio inquietante di Ripley è nato in Italia durante uno dei numerosi viaggi compiuti in Europa, e precisamente a Positano.
Negli ultimi anni aveva nei suoi scritti affronta tematiche sull’angoscia nel mondo contemporaneo, sull’identità di genere e la complessità dei rapporti umani e delle scelte ad essi legate (come già in Carol del 1952) trattate nel suo ultimo romanzo Idilli d’estate (tradotto in italiano nel 1998).
“A partire dagli anni giovanili al Barnard College, nel 1941, Patricia Highsmith tiene costantemente un diario delle sue giornate, e appunta su numerosi taccuini idee e spunti per le sue storie. Questo volume organizza e presenta per la prima volta questi testi, preziosi per cogliere l’intreccio fatale tra la vita privata dell’autrice e il suo immaginario letterario” ( da La nave di Teseo)
e anche
Brevi note biografiche
Patricia Highsmith è nata a Fort Worth, in Texas, nel 1921; ha trascorso la maggior parte della sua vita in Francia e Svizzera, dove è morta nel 1995. Nel 1955 compare il suo personaggio più famoso, Tom Ripley, protagonista della fortunata serie – Il talento di Mr. Ripley, Il sepolto vivo, L’amico americano, Il ragazzo di Tom Ripley e Ripley sott’acqua – che ha ispirato grandi registi, da Wim Wenders (L’amico americano) a Anthony Minghella (Il talento di Mr. Ripley) a Liliana Cavani (Il gioco di Ripley). Nel 1963 Patricia Highsmith si trasferisce definitivamente in Europa, dove da sempre i suoi libri ricevono un’accoglienza entusiasta. Tra i suoi romanzi e le sue raccolte di racconti, ricordiamo Vicolo cieco, Acque profonde, Gioco per la vita, Quella dolce follia, Il grido della civetta, Urla d’amore, Piccoli racconti di misoginia, Delitti bestiali, Il diario di Edith, La follia delle sirene. Dal romanzo Carol è stato tratto il film di Todd Haynes con Cate Blanchett e Rooney Mara, mentre da Acque profonde Adrian Lyne ha tratto un film con Ben Affleck e Ana de Armas. Tutta la sua opera è in corso di pubblicazione in una nuova edizione presso La nave di Teseo.
“Curzio Malaparte, vita e morte di un capitano di sventure”, di Diletta Pizzicori
Immaginiamo un ragazzino imberbe e bellissimo, vividi occhi neri e capelli luccicanti di brillantina. La divisa militare lo fa sembrare più giovane dei suoi sedici anni, ma lo sguardo è quello di un condottiero: determinato, impavido. Appartiene a qualcuno che ha lasciato la scuola, che è scappato di casa per raggiungere Ventimiglia e quindi la Francia. Qualcuno che si è unito alla Legione Straniera per combattere una guerra che già si preannuncia epica. La Grande Guerra.
Immaginiamoci che quel ragazzo cresca, diventi un indiavolato combattente, quindi un ufficiale del Regio Esercito Italiano e arrivi a comandare un plotone d’assalto a soli diciannove anni. Immaginiamolo lottare, uccidere, restare ferito da una bomba a gas. Immaginiamo, ora, che la salute dei suoi polmoni sia per sempre compromessa a soli vent’anni tanto da essere riconosciuto invalido.
Eppure era qualcuno che aveva profondamente creduto nella guerra, che aveva combattuto per un ideale; adesso, invece, non crede più a niente. Adesso è soltanto arrabbiato, disilluso, cova dentro di sé un furore e un desiderio di rivalsa che non hanno confini.
Sa ciò che vuole e, tra non molto, scoprirà anche come ottenerlo.
Quel giovane scriverà un pamphlet con un titolo al tritolo che gli procurerà molte grane, e poi continuerà a far chiasso per essere notato finché per lui non si presenterà un’occasione d’oro: partecipare a una vera rivoluzione.
Si getterà nella mischia ai tempi della Marcia su Roma, scriverà libri, articoli e manifesti e avrà una sfavillante carriera di giornalista, di scrittore. Ma che dico, sfavillante, meglio eclatante.
Qualcosa scricchiola, però. Lui, che viene da Prato, che si sente toscano fin dentro al midollo, anche se il padre è sassone e la madre lombarda, deve fare i conti con un nome che di italiano ha ben poco: Kurt Erich Suckert. E lui che ha tanto duramente lottato per l’Italia, viene quasi scambiato per uno straniero, e della peggior specie.
La lastra al mausoleo sul monte Le Coste detto Spazzavento che ripota l’orgoglio nel sentirsi pratese
Cambierà, dunque, anche le sue generalità, e non così, tanto per fare, ma con un regio decreto del ’29, smettendo di essere un individuo anonimo, per diventare a tutti gli effetti un mito in tutto il mondo. Da un uomo di trentuno anni, che ha fatto una guerra, innumerevoli duelli, che ha fame di vita, di successo, e di donne, ecco che nascerà Curzio Malaparte.
La sua vita è, di per sé, un romanzo; uno di quelli pieni di colpi di scena, con parecchie avventure, molti cambi di rotta, molto poco romanticismo. Un romanzo che racchiude in sé molte trame e colori: il giallo del processo Matteotti, il nero di un’altra guerra, il rosso di una visione politica differente.
Un romanzo, insomma, controverso, del più controverso – e geniale – intellettuale del Novecento.
Io Malaparte non l’ho mai conosciuto di persona, e ci mancherebbe. Sono nata 33 anni dopo quel 19 luglio 1957, quando lo scrittore si spense dopo una lunga agonia nella clinica Sanatrix di Roma.
Dico lunga agonia, perché furono quattro mesi di interesse mediatico eccezionale per i tempi. Da quando Malaparte era rientrato in Italia dal suo ultimo viaggio in Cina, gravemente ammalato – anche se nessuno usava volentieri la parola “cancro” -, la stampa gli si era gettata addosso come tanti avvoltoi su una carcassa.
Mai, prima di allora, si era visto una folla di giornalisti attendere all’aeroporto uno scrittore, assiepare la sala di aspetto di una clinica, tormentare le infermiere per sapere cosa avesse mangiato, cosa avesse detto. Erano cose che accadevano alle star del cinema, quelle.
Andò avanti così, finché lo scrittore esalò l’ultimo respiro, circondato dai familiari, dopo che una fila lunghissima di personalità politiche e intellettuali si era avvicendata al suo capezzale – senza mancare, ovviamente, di farsi immortalare dai fotografi.
Da quarant’anni teneva in scacco l’opinione pubblica, battibeccava tra le righe dei suoi innumerevoli articoli, scriveva libri che erano stilettate all’addome, non c’era quasi nessuno in Europa – ma anche in Asia e in America – che non sapesse chi fosse Curzio Malaparte e di cosa fosse capace. E ora, di colpo, le luci della ribalta si spegnevano su di lui. L’oblio.
Ho conosciuto Malaparte quando su di lui era già calato il buio. Pure a Prato, la sua città, restano oggi poche tracce di questo intellettuale, coi capelli sempre lucidi di brillantina, che non sorrideva quasi mai nelle foto, sempre impegnato a dimostrare una seria, quasi rabbiosa, concentrazione.
Il mausoleo sul monte Le Coste detto Spazzavento,
Sì, c’è una scuola a lui intitolata, sì, c’è il mausoleo sul monte Le Coste detto Spazzavento, sì, c’è una targa presso la casa dov’è nato, il 9 giugno 1898. Ma quanti lo ricordano davvero?
Mi sono approcciata alla lettura con diffidenza, qualche anno fa, quando lavoravo alla stesura del mio romanzo d’esordio, che sarebbe uscito nel 2021.
Cominciai, dunque, da un suo cavallo di battaglia, Maledetti Toscani, un libercolo uscito nel ’56, che ebbe un incredibile successo. E, devo ammettere, non mi piacque per niente, a parte qualche passaggio qua e là. Leggendolo ebbi come l’impressione che l’autore girasse intorno a un luogo comune, dividendolo in pezzettini sempre più piccoli, senza ricavarne granché.
Così non pensai più a Malaparte; bocciato, archiviato per sempre, pensavo. Fino a qualche mese fa.
Quando ho cominciato davvero a leggere le opere di Curzio Malaparte, l’ho fatto prendendo in mano le sue raccolte di racconti: Donna come me, Sangue, Fughe di prigione. Così, finalmente, ho compreso il successo che quest’uomo aveva avuto, tutte le donne che gli erano morte ai piedi, la casa che si era fatto costruire su uno sperone di roccia a Capri; attraverso pagine profonde, ora cupe, ora luminose, tanto introspettive da essere struggenti, e tanto assurdamente fantastiche da non poter essere che vere.
I dubbi di un’intera generazione, la ricerca delle proprie radici, un rapporto difficile coi propri genitori: c’è tutto in quei racconti e ammetto che, senza proprio aspettarmelo, anche io ho trovato là dentro un po’ di me.
Sono passata poi al divertente e altrettanto assurdo Avventure di un capitano di sventure, praticamente introvabile se non ai mercatini dell’usato. Viva Caporetto! La rivolta dei santi maledetti, idem con patatine.
Ho sfogliato con piacere Due anni di battibecco, raccolta di tutti i suoi articoli apparsi su la rivista “Tempo”. Divertenti, cinici, pietosi; assolutamente esilaranti.
Ho letto i celeberrimi La pelle e Kaputt, i due grandi romanzi che lo hanno consacrato, che io non avevo mai letto. Non solo: non li avevo mai visto inseriti in alcuna antologia scolastica dedicata alla Seconda Guerra Mondiale.
In quelle pagine ho ritrovato il suo celebre gusto della provocazione, e mi sono quasi stupita a capirlo, a sposarlo in pieno. Perché, mi chiedo, non si propone ai liceali anche una lettura di Malaparte? Io credo che i giovani lettori troverebbero in lui una penna polemica e dissacrante, ma così a portata di mano. Un modo efficace, allettante oserei dire, per avvicinarsi alla lettura del Novecento.
Perché è davvero difficile non restare folgorati dalla sua scrittura. Persino in Mammamarcia e Io, in Russia e in Cina, entrambi libri postumi, acerbi nella forma, perché non finiti, eppure compiuti nella sostanza, si respira quello stesso cinismo, quella stessa pietà, che è come un filo sottile che lega tutte le opere di Malaparte.
Ecco come si misura la cifra di un grande scrittore: dalla capacità di suscitare forti emozioni anche con la frase più breve, più lapidaria. Si ride e si piange, ci si indigna e ci si trova ad annuire col capo.
Ed è questo, credo, l’intento di Malaparte, il senso di tutte le sue opere: provocare una reazione, suscitare un’emozione. Bella o brutta che sia, verità o bugia, all’autore non importa. Sta al lettore giudicare, lui racconta e basta. Del resto è ciò che dichiarò durante un’intervista:
«Io credo che la funzione dello scrittore sia quella di essere testimone e confessore del proprio popolo e del proprio tempo. Se la gente non vuole che lo scrittore racconti quello che ha visto, la gente non deve fare quello che lo scrittore racconta.»