Daniela Marcheschi “Il sogno di Don Chisciotte.La letteratura come necessità e riscatto”, Bibliotheka

Bibliotheka

Dal 28 febbraio in libreria

Che cosa avrebbe fatto Dante senza il sogno-visione di Beatrice fra le braccia di Amore, nel capitolo III della Vita Nova? E Freud avrebbe coltivato la visione della psicoanalisi di decifrare i sogni, come si fa con i geroglifici, senza leggere le letterature classiche?

Sono alcune delle domande che attraversano Il sogno di Don Chisciotte. La letteratura come necessità e riscatto, il nuovo libro di Daniela Marcheschi.
Che il sogno non possa essere considerato una vacanza del pensiero lo sa bene il lettore: se il sogno non fosse la vita stessa, un sentimento e un aspetto della realtà, perché mai leggere la letteratura?

Noi leggiamo proprio per sentire e conoscere, per trovare e riconoscere finalmente chi sappia dar voce ai nostri sogni, alle nostre aspettative profonde, quelle più nobili e grandi, che ci ricongiungono alla comunità degli esseri e che aprono nuove possibilità di rapportarsi al mondo.
“Don Chisciotte vive sognando e sogna vivendo; per lui non conta la differenza fra veglia e sogno, semplicemente, sogna sempre ed è perciò una specie di paradosso vivente”, spiega Marcheschi. “È tanta la sua grandezza da diventare ridicolo, ma è la nobiltà di cuore, la passione, la volontà di riscattare, con le sue nobili imprese, la meschinità del mondo a conquistarci. Vogliamo Don Chisciotte, quel suo mondo fantastico, quei suoi sogni”.
Egli è il prototipo del lettore e dei suoi sogni ad occhi aperti. Ama con tale trasporto la letteratura cavalleresca e i valori che essa propone da voler seguire le orme di Amadigi e da diventare pazzo. In punto di morte, rinsavito, Sancho Panza lo prega: preferirebbe averlo vivo, come prima ostaggio dei sogni, perché gli è affezionato nella pazzia e per la sua pazzia. E della pazzia, delle utopie, gli esseri umani hanno bisogno.

Daniela Marcheschi, studiosa di letteratura e antropologia delle arti, ha insegnato nelle Università di Uppsala, Salamanca, Firenze e Lisbona. Dopo gli studi alla Scuola Normale di Pisa e all’Institut d’Études Françaises di Avignone, ha frequentato Eugenio Montale e Piero Bigongiari, Natalino Sapegno e Natalia Ginzburg, Giovanni Macchia e Cesare Garboli.  Presidente dell’Edizione nazionale delle opere di Carlo Lorenzini, ha curato i Meridiani Mondadori di Collodi, Pontiggia e Rodari. Collabora con l’inserto domenicale del Sole 24 ore.

Testo: domani 28 febbraio, Stazione Leopolda, Sala Bazlen, ore 16.00

Hans Tuzzi presenta il suo “Bestiario bibliofilo”, Ronzani Editore

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Giuseppe Gioachino Belli “Parola di donna. Sonetti per voce femminile”, Vallecchi

Scelti da Pietro Gibellini

Vallecchi Italianistica – Collana diretta da Gualberto Alvino


Vallecchi editore

Dai 2279 sonetti che Giuseppe Gioachino Belli scrisse in circa diciassette anni – teatro e monumento della plebe trasteverina di variegatissima fattura – c’è chi ha pensato di spigolare e raccogliere quelli dedicati esclusivamente alle donne. Lo ha fatto Pietro Gibellini, il maggior interprete di Belli, cui si deve una lunga fedeltà di studi, che hanno condotto all’edizione critica dei sonetti disposta nei quattro volumi dei Millenni Einaudi.

Nessun poeta ha dato voce a tante figure femminili quanto Belli, vero gigante della poesia dialettale, anzi della poesia tout court. Con i suoi duemila e più sonetti, ha rappresentato la vita e la mentalità dei mille Renzo e Lucia di Trastevere, facendoli esprimere nel loro romanesco rude e colorito.
Il sottotitolo: “Sonetti per voce femminile”: indica che sono stati scelti solo i sonetti in cui è la voce femminile a parlare. Non dunque anche le donne viste dagli uomini, ma solo le donne viste da sé stesse, interpreti di sé stesse. Non lo sguardo maschile che le confina nella sottomissione e nel possesso, ma le donne che si presentano sulla scena dialogando tra di loro oppure monologando nella loro lingua nativa, che vibra di quotidianità e di vita vissuta, di patimento e di preghiera, di iracondia e pianto, di baldanza e di umiltà, di oltranza e remissione, di frustrazione e di gioia, di coraggio e di pietà.
I loro discorsi svelano la condizione femminile dell’Ottocento nei suoi risvolti materiali e affettivi. Ne esce un affresco documentario ravvivato dai colori della poesia: un tesoro reso accessibile da questa sorprendente antologia, che alla donna-oggetto sostituisce finalmente una donna-soggetto.

Giuseppe Gioachino Belli (Roma 1791-1863), probo impiegato pontificio, tenne clandestino il trasgressivo capolavoro dei suoi Sonetti romaneschi, vero «monumento» della plebe di Roma pubblicato solo dopo la morte del poeta.

Pietro Gibellini (1945) ha studiato la letteratura italiana dal Sette al Novecento, e in particolare l’opera di D’Annunzio. Ha curato la poderosa edizione critica e commentata dei 2279 Sonetti di Belli per i «Millenni» Einaudi.

Davide Chiolero “Vini, spezie, pastelli volativi e confetti di zucchero. Breve storia della cucina e dell’alimentazione nel Medioevo”, Graphe.it

Uno sguardo approfondito sulla cucina medievale come specchio di civiltà e identità. Il cibo, tra riti religiosi e influenze culturali, racconta la storia nascosta dietro ogni piatto

Graphe.it

In libreria dal 26 febbraio

Questo saggio approccia con metodo scientifico l’arte culinaria medievale.


Si parla del legame fra dieta e religione (a cominciare dai giorni di magro, su cui scopriamo curiosità sorprendenti) del diverso apporto della civiltà romana rispetto a quelle identificate come barbariche. Si racconta delle convinzioni mediche del tempo, in fatto di nutrizione. Sono descritte le esigenze delle dispense delle abbazie e di quelle dei signori, considerando anche la disponibilità locale degli ingredienti. D’altro canto, se la cucina popolare rimase relativamente simile nel corso degli anni, quella nobiliare fu sorprendentemente aperta alle novità e alle contaminazioni, includendo – oltre agli elementi autoctoni – spezie di Paesi lontani acquistate a caro prezzo.

La cucina medievale era caratterizzata da una certa forma di discriminazione sociale. Le principali distinzioni che si possono cogliere tra cucina povera – la cui ricostruzione è complicata dall’assenza di fonti dirette – e cucina ricca non sono tanto nella qualità quanto nella quantità. La dieta dei meno abbienti era basata, perlopiù, sul consumo di prodotti di origine vegetale come ortaggi, cipolle, porri, aglio e cereali. Quest’ultimi erano fondamentali per la realizzazione del pane, l’alimento più diffuso e consumato da contadini, cittadini e nobili, vero simbolo della civiltà occidentale e cristiana. Si deve, tuttavia, precisare che il pane consumato dai meno abbienti e dai contadini, scuro e realizzato con cereali minori, non era lo stesso che potevano permettersi le classi più agiate, che preferivano il pane bianco.

DAVIDE CHIOLERO (1991) laureato in Scienze Storiche all’Università degli Studi di Torino, è docente in un istituto di istruzione secondaria di primo grado dell’astigiano. È membro della redazione di “Arma Virumque”, rivista universitaria torinese di storia militare, per la quale ha pubblicato Elmi con le corna e asce bipenni: l’equipaggiamento del vero guerriero vichingo (2021). I suoi interessi principali riguardano la storia culturale e materiale – in particolare alimentazione e costume – del periodo medievale. È autore de I vichinghi e la morte. La ritualità funebre scandinava fra migrazione e stanzialità (sec. VIII-XI) Il bestiario del Trésor di Brunetto Latini, editi con Il Cerchio.

Lavinia Monti “Ma l’incertezza è più bella”, Giacovelli Editore

Giacovelli Editore

Una storia di trasformazione che invita a riflettere sul coraggio del cambiamento, sull’importanza delle relazioni e sul potere di seguire il proprio istinto. È il ritratto di una generazione sospesa tra ambizioni globali e legami profondi, il racconto di vicende lavorative e personali che si condizionano e si intrecciano in una narrazione dallo stile ironico, brillante e ben ritmato.
Un futuro (che sembrava) ben studiato e programmato può variare ed evolversi ogni giorno, grazie alle tante opportunità che la vita pone davanti.
Si trova di fronte a nuovi bivi Ludovica, la protagonista di “Ma l’incertezza è più bella”, secondo romanzo di Lavinia Monti che torna a raccontare la “generazione Erasmus” ora alle prese con la continua rivoluzione del proprio percorso lavorativo oltre che sentimentale.

Ludovica è una ventiseienne romana, approdata a Bruxelles alla Commissione Europea tra entusiasmo e incertezze. Uno stage che la coinvolge sempre di più, amicizie variopinte e traslochi frenetici rendono la sua vita dinamica e stimolante. Ma il pensiero torna costantemente a Roma, dove l’aspettano un fidanzato sfuggente e un dottorato vinto quasi per caso, che sembra la chiave per dare solidità alla loro relazione. Il rientro alla base, tuttavia, non è l’atterraggio morbido che sperava: una professoressa tirannica, una vecchia fiamma che riemerge, il senso di inadeguatezza nel ritrovarsi sotto il tetto dei genitori fanno a gara nell’alimentare dubbi e rimpianti per aver lasciato anzitempo la capitale della UE.
Da Bruxelles a Roma, fino alla magnetica New York, Ludovica diventa il ritratto di una generazione sospesa tra ambizioni globali e legami profondi. Nei corridoi della Commissione Europea, tra i rituali del Ministero degli Esteri e i negoziati dell’ONU, il romanzo esplora con passione e disincanto il fascino dell’incertezza e il coraggio di affrontare risposte che si trasformano in nuove domande.
Ricco di dialoghi brillanti e di accurate descrizioni di ambienti internazionali, accademici e istituzionali, il romanzo intreccia speranze e inquietudini sul futuro in cui è facile rispecchiarsi. Con raffinata ironia, celebra la bellezza di una vita in continua evoluzione, tra scelte, errori e, soprattutto, momenti di crescita personale. Uno spirito di adattamento insito nell’essere umano e particolarmente spiccato nel personaggio ben costruito e raccontato da Lavinia Monti, alla ricerca del suo posto nel mondo con tutti i suoi sogni, tutte le sue paure e le sue ambizioni.

Brevi note biografiche

Lavinia Monti, romana, coltiva da sempre un legame profondo con l’Europa. Un Erasmus in Francia, un Master al Collège d’Europe, uno stage all’ONU, un tirocinio alla Commissione Europea e un dottorato in diritti umani hanno contribuito a forgiare sin da giovanissima la visione internazionale che oggi anima il suo lavoro e la sua scrittura. Il suo percorso professionale è iniziato con attività di insegnamento e di ricerca, per proseguire al Ministero degli Esteri come funzionaria della cooperazione allo sviluppo. Nel 2010, dopo aver superato il corso-concorso per dirigenti dello Stato della Scuola Nazionale dell’Amministrazione, è entrata al Ministero dell’Economia e delle finanze, dove ha svolto numerosi incarichi dirigenziali, accomunati dalla dimensione europea, internazionale e di policy making. Dal febbraio 2025 si è spostata al Ministero per l’Università e la ricerca, dove dirige l’Ufficio per la internazionalizzazione della formazione superiore. Dopo alcune pubblicazioni di carattere saggistico, ha esordito nel 2022 nella narrativa con “La Ragazza con l’Europa in tasca” (ed. Bookabook).

Testo: 28 febbraio, Stazione Leopolda, Sala Bazlen, ore 16.00

Hans Tuzzi presenta il suo “Bestiario bibliofilo”, Ronzani Editore

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Stig Dagerman “L’uomo che non voleva piangere”, presentazione

Da un autore di culto della letteratura svedese del Novecento, sedici racconti tra realismo sociale e visionarietà
Maestro del racconto realistico ma anche visionario frequentatore del fantastico, erede della grande tradizione della narrativa sociale svedese e insieme originale ammiratore di Kafka: Stig Dagerman fu tutto questo.(da Iperborea)

L’uomo che non voleva piangere è  il primo racconto che dà il titolo al volume. In questa nuova edizione. Fulvio Ferrari, studioso e traduttore di Dagerman,  ha raccolto tutti i racconti, in parte già apparsi nel 1996 nel volume miscellaneo I giochi della notte.
In questa nuova edizione dei racconti,  diversi per  stile e fattura, compaiono testi inediti in Italia dal 1941, scritti ai tempi degli esordi, fino al 1953, un anno prima di togliersi la vita, pubblicati in riviste letterarie o della Lega delle cooperative e sul giornale dei giovani anarco-sindacalisti.
In molti si ritrova lo stile di Dagerman: l’ impianto realista, la descrizione di luoghi e situazioni della contemporaneità insieme ad elementi visionari, fantastici o da teatro dell’assurdo.
Una raccolta che evidenzia  stili e tecniche narrative diverse e in fieri proprio perché l’autore le sperimenta  o perché è stato influenzato anche da letture e autori, tra cui Kafka,  o in cui si riconosce una impostazione filosofica che ricorda quella di Albert Camus.
Certi racconti sono scritti in terza persona in altri invece l’uso della prima diventa un flusso di coscienza, le cui tematiche di base sono la ribellione individuale nei confronti dell’ipocrisia che regola i rapporti sociali, una visione cupa, angosciata, dell’inutilità del tutto e dell’assurdo del vivere, con la volontà di cercare e sperimentare nuovi mezzi espressivi che possano porre in modo vivo le grandi questioni dell’esperienza umana, dell’essere umano in lotta con le proprie emozioni e il dolore della vita quotidiana.

Brevi note biografiche

Anarchico lucido e appassionato incapace di accontentarsi di verità ricevute, militante sempre in difesa degli umiliati, degli offesi e dell’inviolabilità dell’individuo, Stig Dagerman (1923-1954) appartiene alla famiglia dei Kafka e dei Camus e resta nella letteratura svedese una figura culto che non si smette mai di rileggere e riscoprire. Segnato da una drammatica infanzia, intraprende molto giovane una folgorante carriera letteraria bruscamente interrotta dalla tragica morte, lasciando quattro romanzi, quattro drammi, poesie, racconti e articoli che continuano a essere tradotti e ristampati. Iperborea ha pubblicato Il viaggiatore, Il nostro bisogno di consolazioneBambino bruciatoI giochi della nottePerché i bambini devono ubbidire?La politica dell’impossibileAutunno tedesco e Il serpente e la raccolta di poesie Breve è la vita di tutto quel che arde.(da Iperborea Autore)

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Gigi Di Fiore “Le borboniche. Le grandi regine delle Due Sicilie”, presentazione

Con il consueto piglio e l’abituale precisione, Gigi Di Fiore racconta le vicende del Regno attraverso le psicologie, i sentimenti, le emozioni delle donne che ne furono protagoniste. Un punto di vista nuovo, in una prospettiva ricca e complessa: dall’Illuminismo alla Rivoluzione francese, attraverso la Restaurazione e l’Impero napoleonico, per arrivare infine alle passioni romantiche e ideologiche del Risorgimento italiano che avrebbe cancellato la monarchia borbonica, l’ultimo capitolo della luminosa storia del Sud Italia(da Libri UTET)

Otto regine che hanno accompagnato come figure di primo piano i propri coniugi re regnanti durante  i 127 anni del Regno delle Due Sicilie, dal 1734 al 1861: due italiane, Maria Cristina di Savoia e Lucia Migliaccio, moglie morganatica di Ferdinando IV, cinque tedesche e una spagnola.
La prima fu Maria Amalia di Sassonia, che divenne regina a soli tredici anni, dopo una lunga trattativa come era uso a quel tempo nei regni settecenteschi in cui il matrimonio si inseriva in un gioco più ampio di potere fatto di alleanze strategiche e di tornaconti: nonostante gli intrighi di potere che ne determinarono la scelta, l’unione di coppia fu felice e la giovane regina ebbe un forte ascendente sul marito, Carlo III, contribuendo a trasformare la città in una delle più belle capitali del tempo in Europa, favorendone l’eccellenza in alcuni settori produttivi, come quello delle porcellane di Capodimonte e come pare abbia lasciato traccia di sé ancora oggi nella scelta dei napoletani di giocare sulle estrazioni del lotto, gioco e passatempo preferito dalla regina medesima.
Una narrazione che si apre con Maria Amalia e si chiude con Maria Sofia di Baviera, moglie di Francesco II di Borbone, l’ultima regina di Napoli, e che intreccia avvenimenti storici, cronaca, usi e costumi evidenziando un punto di vista nuovo con cui guardare alle sovrane che lungi dall’essere delle comparse accanto ai mariti regnanti, di fatto contribuirono alle trasformazioni del territorio e della società meridionale come donne  con un preciso carattere, con le proprie convinzioni fatte d’impegno ma anche di passioni personali.

GIGI DI FIORE, storico, già redattore al “Giornale” di Montanelli, è inviato del “Mattino” di Napoli (Premio Saint-Vincent per il giornalismo nel 2001; Premio Pedio per la ricerca storica; Premio Melfi per la saggistica; Premio Guido Dorso per gli studi sul Mezzogiorno; Premio Marcello Torre per l’impegno civile). Nelle sue pubblicazioni si occupa prevalentemente di criminalità organizzata e di Risorgimento in relazione ai problemi del Mezzogiorno. Tra le sue ultime opere: La camorra e le sue storie. La criminalità organizzata a Napoli dalle origini alle paranze dei bimbi (2005, 2016), Controstoria dell’unità d’Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento (2007, 2010), Gli ultimi giorni di Gaeta. L’assedio che condannò l’Italia all’unità (2010, 2015), La Nazione napoletana. Controstorie borboniche e identità suddista (2015), Briganti! Controstoria della guerra contadina nel Sud dei Gattopardi (2017), L’ultimo re di Napoli. L’esilio di Francesco II nell’Italia dei Savoia (2018), Napoletanità. Dai Borbone a Pino Daniele, viaggio nell’anima di un popolo (2019), Pandemia 1836. La guerra dei Borbone contro il colera (2020) e Storia del Napoli. Una squadra, una città, una fede (2021; nuova edizione 2023).

Pietro Nuzzo “Dream World”, NeP Edizioni

 Un horror surreale che racconta una lotta per la sopravvivenza

È la storia di Michael che lavora all’interno del popolare parco divertimenti “Dream World”, conducendo una routine apparentemente comune e ordinaria. Ben presto, tuttavia, una serie di singolari eventi lo induce a cambiare prospettiva. A destare i primi sospetti sono le strane regole cui deve attenersi il personale del parco, specie in caso di presunti “incidenti”, nonché un susseguirsi di eventi a dir poco inquietanti, come misteriose trance e sparizioni o attrazioni che seminano morte in maniera indisturbata.
La scoperta di un laboratorio segreto, in cui sono rinchiuse creature aberranti, segnerà il culmine di un’esperienza da incubo.

Attraverso un’oscura narrazione, il volume immerge il lettore in una realtà ambigua e perturbante, dove il confine tra realtà e visione si dissolve in una serie di eventi che sfidano la logica e la comprensione. In un susseguirsi di colpi di scena e tensione crescente, la trama si trasforma in un’intensa lotta per la sopravvivenza. Michael, suo malgrado, sarà coinvolto in un’indagine che lo vedrà alleato con altri personaggi, tutti spinti dalla necessità di svelare il terribile segreto che si cela dietro le mura di “Dream World”.
L’autore dimostra una sorprendente maestria nel mescolare il genere horror con una riflessione profonda sull’estetica nostalgica degli anni ‘80, dando vita a un racconto che, grazie alla sua abilità narrativa, riesce a tenere il lettore costantemente sull’orlo della suspense.
La scrittura è incisiva e carica di tensione, con un ritmo serrato che incolla il lettore alle pagine, facendolo immergere sempre di più in un mondo distorto, dove la realtà è solo un velo sottile, pronto a sgretolarsi.

Pietro Nuzzo (Mesagne, 1996) è programmatore di professione e scrittore per passione. Ha esordito nel 2024 con la sua prima raccolta, intitolata “Racconti disumanizzanti”. Inoltre, il suo racconto “Old Young Rocker” è stato pubblicato sulla rivista letteraria di genere “Psycho Killer” (www.psychokillermagazine.it).

Anteprima

Lamberto Salucco “L’arte delle fregature. Terza parte: “Datti una mossa”, presentazione

Edida

Terzo volume della quadrilogia sui bias cognitivi nel mondo del marketing, della disinformazione e della vita sentimentale.

“E iniziamo anche questo terzo volume sui bias cognitivi “L’arte delle fregature – 3: Datti una mossa!”. Ormai ho deciso che finirò la quadrilogia quindi (se Iddio mi conserva) dopo questo scriverò anche il quarto “Cosa mi dovevo ricordare?” e poi smetto: lo giuro.

Dopo un paio di mesi durante i quali ho lavorato alla preparazione dei contenuti (una sorta di pre-produzione) è arrivato il momento di iniziare a scrivere davvero. E, come da tradizione, sono in Scozia per potermi concentrare in santa pace.
Mamma mia, anche stavolta sono ben 53 bias da trattare: dovrò necessariamente ridurre il numero di pagine per singola distorsione. Inoltre, a differenza di ciò che ho fatto nei primi due libri (39 bias il primo, 57 il secondo), credo che in questo sarà opportuno accorpare qualche argomento.
Ammetto infatti che durante il lavoro di preparazione mi sono accorto che i bias di questo volume sono (se possibile) ancora più intricati e interconnessi di quelli che ho trattato in precedenza: le sfumature sono ancora più difficili da definire e la stesura degli esempi rischia di rendere i temi più ostici invece di semplificarli.
Intendiamoci bene: è ovvio che ci saranno ripetizioni, non è possibile evitarle perché lo scopo del libro è rendere questi argomenti più digeribili per l’utente medio e non è possibile scendere eccessivamente nei dettagli. Un problema ulteriore è dato dalla mole di bias di cui devo parlare: il primo libro era circa 150 pagine ma già il secondo è arrivato a oltre 210. È necessario riuscire a limitare la lunghezza di ogni sottocapitolo a tre pagine altrimenti diventa (come si dice a Firenze) l’Opera del Duomo e questo comporterà senza dubbio una serie di semplificazioni sia nell’esposizione sia negli esempi.
Comunque, la suddivisione dei bias cognitivi in categorie e sottocategorie è sempre quella ispirata al lavoro di Buster Benson e John Manoogian III. In questo terzo volume si prende in esame l’area “Need to act fast” ed ecco spiegato il sottotitolo “Datti una mossa!”, vediamo cosa riuscirò a fare”. (dalla Prefazione di Lamberto Salucco)

Il prossimo e ultimo volume sarà “Cosa mi dovevo ricordare?” (“What should we remember?”)

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