
Tradotto e curato da Giuseppe Dierna
Dalla Nota dell’editore
[…]” Nella girandola quasi cinematografica di vicende che si snodano, si arrestano, si intersecano, si concludono non c’è mai una ratio meritocratica, o morale: c’è chi se la cava e chi no, sempre per caso. Né lui, Weil, si sogna di fornirci pareri e parametri di giudizio. Nelle vesti di reporter, se non addirittura di trascrittore, delle vicissitudini dei suoi personaggi, li ritrae imperturbabile mentre cercano di sbrogliarsela in mezzo al molto e al troppo che capita loro. Il pathos – quasi come in un impossibile libro giallo in cui l’assassino sia il lettore – ce lo mette tutto chi legge, e che si ritrova a passare per l’intera gamma delle emozioni, dalla risata al dolore fisico (sì, perché l’epilogo dell’ultima vicenda ha un impatto emotivo pari a quello di un pugno al plesso solare), e anche a parteggire o a sperare, come nella vita. Sarà per questo che uno poi se lo ricorda indelebilmente, questo libro, se ha la fortuna di scegliere di leggerlo. Una fortuna ceca, verrebbe da dire”.
Dove “ceca” non è un errore di ortografia, ma legata al luogo natale dell’autore, nato nel 1900 nei pressi di Praga da una famiglia ebraico-ortodossa.
Antonio D’Orrico su Domani (7 dicembre 2023) scrive “Romanzo straordinariamente portentoso e portentosamente straordinario (crepi l’avarizia dei recensori ordinari), romanzo incredibilmente dimenticato (uscì postumo nel 1960)” e a conclusione del suo articolo aggiunge nel poscritto “Jiří Weil era uno degli scrittori preferiti di Philip Roth. Ammirato dallo stile laconico con cui Weil raccontò la barbarie e il dolore, Roth considerava quella sobrietà il commento più feroce all’apocalisse hitleriana”
Il romanzo racconta infatti una storia singolare e per la trama e per la prosa che la narra: c’è una statua da spostare dal tetto della Casa tedesca delle arti, ex sede del parlamento Cecoslovacco requisita dai nazisti. È Reynar Heydrick, capo delle RSHA (Ufficio Principale di Sicurezza del Reich), a ordinarlo, stigmatizzando il comportamento del Comune. E qui la vicenda si complicherà in quanto gli addetti alla rimozione, inviati dal Comune, non sanno riconoscere la statua incriminata tra le varie che stazionano sul tetto. La conclusione è imprevedibile e comica quasi legata al vecchio adagio, “Chi la fa, l’aspetti”!
Ma chi era Weil?
“Figlio di ebrei ortodossi, ma forse non troppo persuaso né di essere ebreo né di essere ortodosso, sceglie di convertirsi al comunismo, tanto da lasciare la Cecoslovacchia per L’unione Sovietica. […] viene espulso dal Partito ed esiliato in Asia centrale. Torna in Cecoslovacchia nel 1935 […] A Praga lavora per il Museo ebraico quando la città viene occupata dai nazisti. Ebreo comunista o comunista ebreo (o nessuno dei due) rischia di essere catturato e deportato dalle SS, ma finge il suicidio. L’inganno gli riesce e sopravvive alla guerra e ai tedeschi. Nel 1948 i comunisti vanno al potere in Cecoslovacchia, e Weil è persona non grata per la cerchia intellettuale del suo paese. Lavora per il Museo ebraico di Praga (sì, di nuovo) e continua, a dispetto di tutto, a scrivere. Sul tetto c’è Mendelssohn esce nel 1960, un anno dopo la (stavolta vera) morte del suo autore”(dalla Nota dell’editore)
Brevi note biografiche
Jiří Weil nasce a Praskolesy (Boemia centrale) nel 1900. Nel 1937 pubblica il suo primo romanzo, Moskva-hranice (La frontiera di Mosca), che ottiene un buon successo. Inizialmente comunista, dopo un viaggio in Russia critica i processi politici e viene espulso dal partito. Durante l’occupazione nazista scampa alla deportazione simulando il suicidio nel fiume Moldava e poi vivendo nascosto. Dopo la guerra scrive due libri ambientati nella Praga occupata: Una vita con la stella (Rizzoli 1992) e Sul tetto c’è Mendelssohn, uscito postumo, e finora inedito in Italia. Entrambi sono stati molto lodati da Philip Roth.(da Einaudi Autori)