Recensione di Alberto Genovese

LA SERA SCRIVE CON CORSIVI D’OMBRA
Le Persistenze di Stefania La Via: variazioni sulla meraviglia al tempo del coronavirus
“È del poeta il fin la meraviglia”, ammoniva declamando Giambattista Marini. Ci dissero a scuola ch’era un contorcimento barocco, parole di cicisbei incipriati, e molti della mia generazione si fissarono in quel verso, e ne trassero il pregiudizio d’un poeta perditempo, e che anzi in fondo questa era la sostanza della poesia: una camera di vuote meraviglie di rime e di parole. Il Marini aveva invece colto la missione della parola poetica. Dopo la promessa, non mantenuta (o fummo noi ad illuderci) della scienza di svelarci il Senso delle Cose, ascoltare l’incanto naascosto del mondo ci è più che mai necessario. Nonostante (o giusto per questo) il momento del massimo fulgore tecnologico, in cui l’ultima frontiera è l’ostinazione della Morte, l’umanità sta attraversando il deserto del Nulla. E dunque mai come oggi sentiamo il bisogno di ritornare allo stupore dei primi uomini, e di ricominciare quel viaggio che ci sembrava finito. Ci è buona compagna la poesia contemporanea, che scioltasi dal rigore della rima (che, certo, un suo fascino l’aveva: Mallarmé la chiamava a custodire il santuario della coerenza formale) si è fatta prosa di composta eleganza, celatamente filosofica, se è vero che tenta l’Essere attraverso le sue ombre, gli enti minimi del quotidiano, gli arnesi della vita (è troppo citare la Szymborska?). Sono essi che parlano, il poeta è un ventriloquo, un traduttore talvolta infedele, o perfino ironico, quando occorre smagato. Fatte le debite distinzioni fra poeti e poesia, fra scrittori e scrittura, si può dire che in ambito letterario la poesia stia supplendo a una narrativa che, in generale, si fa sempre più povera in bellezza e in pensiero. Tanto è docile la narrativa alle esigenze massificatrici dell’editoria, quanto riottosa è la poesia, col suo mulino che deve macinare lentamente per macinare fino.
È a questa corrente – che annovera in Italia i nomi illustri di Antonella Anedda, Vivian Lamarque, Milo De Angelis e molti ancora ancora – che si iscrive la poesia di Stefania La Via (Erice, 1973). L’autrice intrattiene con la parola uno speciale rapporto di intimità professionale (filologa, archivista, paleografa, insegnante di Lettere, studiosa della poesia contemporanea, animatrice culturale), divenuto vocazione e destino. Ne dà matura prova al lettore con la sua recente raccolta di poesie: Persistenze. parole, memorie frammenti ( Màrgana Edizioni, Trapani 2021, pp.121, Euro 12).
Divisa in tre sezioni, eponime del sottotitolo, la prima di esse (“PAROLE”) esordisce con l’invocazione “Alla Musa”, un ritratto della temperie e degli sfinimenti in cui matura il libro, il 2020: orribile anno di morti, segregazioni e attese: […] giorni bui e ingloriosi […] notizie che ieri ci hanno scosso/il cuore e si avvolgono/alle viscere/dei pesci nelle bancarelle […]. Piuttosto che appendere la cetra ai salici, l’autrice ne ha tratto occasione (“Di me”) per andare alla ricerca della […] smarrita ombra di me stessa./ Oltre la tentazione della fuga/trovare il verbo che costringe al sogno concreto della messa in atto della vita. Pur sogno, la vita esige la veglia per avere dignità di cosciente racconto. Ma come fare poesia (in quei giorni e negli altri)? Di poesia bisogna nutrirsi a lunga scadenza e con pazienza: […]la rumino, la disfo e la rifaccio/nuova […] Nel mio errare di verso in verso/mi perdo in un dettaglio di petalo,/in pozzanghere/in cui si specchia il cielo (“Di verso in verso”). L’erranza, cioè l’errare, l’ammettere l’errore come dettaglio del cammino, fissarsi nella consapevolezza che il bello si può cavare fra il fango terrestre e il nitore del cielo. Questo suo itinerario dentro l’arte poetica è motivo ricorrente della prima parte della raccolta, visita nella sua bottega interiore: […]Basta un profumo nell’aria […] un nonnulla […] un vetro che rifulge/un barbaglìo./E’ un attimo, ma ha la potenza /del miracolo[…] (“Alla poesia”).L’ispirazione, sembra dirci, è come lo spirito, che alita dove vuole: […]attratta dal dettaglio di qualcosa/da una persistente permanenza[…] (“Fare una poesia”). Da qui il titolo Persistenze della raccolta: il volto della poesia persiste, non passa, chiede udienza, se ne sta sulla soglia della vita, come il volto sfocato di un importuno dietro il vetro sporco delle nostre distrazioni. “Scrivere” è […]tracciare percorsi/per future carovane di pensieri […] l’affastellarsi confuso delle voci/e la paura che tutto sia/invano. L’altra modalità della persistenza è dunque lo stare in continuo ascolto, allorquando scrivere è trascrivere, affinché certe voci che ci chiamano dall’abisso della sonnolenza e della dimenticanza non vadano disperse. In questa accezione la persistenza è l’inverso della “Transitorietà”, persistenza è l’atto poetico mediante il quale le parole vengo sottratte alla fragilità di senso e di tempo dell’esistenza: […] così la vita si protrae nelle parole/che la raccontano, la trattengono/nel perenne dissolversi che è il nostro destino. La mortalità ci assedia, tende agguati ad ogni angolo di gioia […]. Sono questi i versi più rappresentativi e fra i più belli della silloge. Forza icastica e immagine di classicità ha pure “Nostos”: Ci auguriamo un buon ritorno/a noi stessi […] In questo viaggio/la precisione della parola/non è àncora ma remo che costringe/a smuovere acque d’abitudine,/a reinventare il mondo,/è libertà. La missione che l’autrice assegna alla parola è qui il ritorno alla autenticità del discorso e alla sua diurna esattezza, che è il ramo d’oro della ragione critica, condizione necessaria per la discesa notturna nel mondo poetico, là dove “reinventare” è possibile senza smarrirsi. Anche in “Solo la parola” Stefania La Via insiste sul fare poesia come atto etico e trasformativo: Poesia non è un’amena passeggiata/che lascia il mondo così come lo vedi,/piacevole o paurosa foresta di forme […] ma apnea/precipizio/sconquasso […] martello che frantuma il guscio/delle apparenze, delle illusioni/che chiamiamo realtà[…]. Nella wolfiana stanza tutta per sé la poetessa procede sull’orlo di un abisso, che ha l’obbligo di guardare, perché là dove c’è il pericolo del solipsismo possa crescere anche la salvezza dello spirito, a patto che la parola poetica attraversi la Realtà giusto nello […]/ strappo che squarcia la trama del tessuto/punto di osservazione sul nulla […]. È l’antico gesto con cui i sapienti sollevarono il velo di Maya.
Il secondo quadro (“MEMORIE”) di questo polittico è dedicato all’argomento principe della letteratura occidentale (e invero della civiltà dell’uomo): il Tempo, di cui la memoria è manifestazione e occasione ([…]mi sorprendo a pensare/nel languore del pomeriggio), accumulo (Piccoli oggetti inutili, regali/cose passeggere/sparse tracce di noi) e identità ([…]fili che non riusciamo a recidere/ per timore di afflosciarci come pupi). Così nella poesia eponima di questa seconda sezione. Anche la burocrazia del quotidiano ha la sua voce con le sue diversioni, come in “Estate”: […]ma mi distrae la vita col suo farsi,/l’urgenza del dettaglio, i piatti/sporchi nel lavello, lo schermo accesso/[…]. Il tema del trascorrere del tempo risuona, alluso e trasferito, anche nella possente inerzia della materia: E’ misterioso/ il dolore delle pietre,/quando il mare le avvolge e trascina/le forgia e sminuzza/in frammenti/in cocci/in sabbia (“Il dolore delle pietre”). Pochi, intensi e religiosissimi versi, se si sa coglierne l’accorata trascendenza. In “Stazioni” il tempo viene declinato nella forma del primo amore, quasi una genealogia universale: […]Eravamo/il primo Uomo e la prima Donna/di fronte al primo peccato/e insieme/gli ultimi viaggiatori/in stanca attesa di un treno/ nella stazione deserta. Ultimi di infiniti/altri, i primi dell’indomani […]. Al dominio di questa tematica appartiene pure la poesia “Persistenze,” che esprime, nell’epilogo, il senso del titolo della silloge: C’è stato un tempo in cui parlavo di te […] e non trovavo pace./Ancora oggi è difficile/fare entrare un mondo/dentro un foglio. Dinnanzi alla persistenza dei ricordi (in questo caso di un amore giovanile, ma vale per ogni altro ricordo) e al loro perpetuo presente, la poetessa ha la struggente consapevolezza di un aforisma nascosto nella memoria: solo ciò che passa persiste (tema assai in voga nella ‘poetica delle rovine di Roma’: dal Castiglione a Giovanni Vitale, a Quevedo e ad altri), e se persiste e si affastella con altre persistenze, non c’è foglio che possa arginarlo. È l’antinomia della parola, che in letteratura resta sempre di necessità un passo indietro rispetto alla vita (infatti, la letteratura è un immenso commento alla vita, e dunque non la precede, perché non vi può essere un commento che venga prima dell’opera, anche quando un romanzo o una poesia sono profetiche, perché il futuro ha bisogno di un presente). Il titolo della silloge trova poetico compimento almeno in altre due componimenti. “Credere”: Credere/nella precisione acuta dei dettagli/che non mentono e dicono una vita/nella persistenza degli oggetti/che tornano nuovi/nel ricordo, come risorti […] e “1973”: […]E questi versi come impronta digitale/relitti di viaggio/chiosa di un testo disperso/che solo il commento tramanda. Nudità, resistenza.
Il coronavirus è il parnaso del terzo capitolo della silloge. Con saggezza redazionale l’autrice gli assegna “FRAMMENTI” come titolo, e designa ciascuno dei brani che lo compongono con un nudo aggettivo ordinale: dal “frammento primo” al “frammento cinquantunesimo”, quasi improvvisi musicali, ma non sempre brevi, tenuti insieme dal lungo filo di mesi della pandemia. Ricorre più volte l’urgenza della diagnosi poetica per dire il male con l’immagine. Proviamo a compilare un’antologia di queste similitudini di pacificata bellezza, sussurrate nella pazienza dell’attesa. […] La vita – meccanica perfetta – /di cui distratti avevamo dimenticato/l’inarrestabile mistero/si sporge/dalle soglie,/ci fa cenni/da lontano[…] (“fr. primo”). Un nemico invisibile ci sottrae i giorni, li mette/sottovetro […] Come un collezionista/di farfalle/osserviamo la vita da una teca […] (“fr. quarto”). A sera, in un silenzio d’acquario/il condominio è un albergo/di solitudini […] (“fr. venticinquesimo”). […] la linea della libertà/sfuma indefinita, si allontana/si fa miraggio, pulviscolo, amputazione […] (“fr. trentaseiesimo”). Ad altri frammenti Stefania La Via affida il compito di rispondere a due altre questioni, che allora ci apparvero cruciali (e oggi, le abbiamo dimenticate?): cosa possiamo (potemmo) imparare? Cosa può (poté) fare la parola inerme del letterato? Detto in altro modo: il valore etico ed estetico (non ci turberà il vocabolo, se colto nel senso di restituzione poetica dell’esperienza) di quel tempo, aspetti che facilmente e di necessità si contaminano. Anche qui proponiamo una scelta di brani. L’epidemia come ritiro nella coscienza: E così anche noi abbiamo il nostro deserto/il nostro digiuno di quaranta giorni/per disimparare quanto abbiano bisogno/del superfluo (“fr. ottavo”). La scrittura portata allo scoperto, esperienza di evasione dalla clausura dei corpi: Stendo parole sul davanzale/perché il sole le incendi a poco a poco […] restituisca loro la libertà che a noi è tolta (“fr. undicesimo”). Il desiderio di fuggire verso la luce frustrato dal dominio dell’ombra luttuosa: Come Persefone, regina triste/del regno delle ombre, vorrei trovarmi addosso d’improvviso/la luce a cui appartengo/[…] ma la mente nutre fantasmi/e mi aggiro e vago/persa/in zone imperscrutabili di buio (“fr. trentasettesimo”). Accade però che l’incertezza della memoria che verrà (se la memoria ha un futuro, avrebbe soggiunto Sciascia) diventi consolante curiosità, interrogativo che divaga dal presente: […]In questo momento/sentiamo davvero d’essere/di passaggio, sostanza aerea fatta di parole./ Chissà come ci racconteranno… (“fr. ventitreesimo”). Eppure è la parola, la sua ‘estetica’ a essere nutrice della speranza, perché […]per quanto dura il canto/ha tregua il male (“fr. trentaduesimo”); perché la poetessa non rinuncia a gustare gli atomi stessi delle parole, le vocali […] che oscillano tra le labbra/e le fanno vibrare/e poi la morbidezza delle palatali/o sfrigolio lieve delle fricative […] e lasciarmi cullare dalle sibilanti/mentre mi sussurri che mi ami (“fr. quarantanovesimo”); perché le parole, seppure stanno in quei giorni di sciagura, […]nell’abisso dei pensieri […], quasi inaridite dall’incuria di superiori affanni, attingono a una forza segreta che le tramanda, […]come piante ostinate a sopravvivere/per sola memoria d’acqua (“fr. cinquantatreesimo”). È con questo splendido verso che si chiude la raccolta, quasi un inno brevissimo e intenso alla nuda potenza delle parole, un lascito, un pensiero conchiuso e irrisolto, come l’ostinata ‘persistenza’ della Poesia.
I versi di Stefania La Via narrano l’epica del vivere quotidiano, della burocrazia dei giorni e della ricerca dell’oscura sostanza delle cose, riuscendo a far convivere l’immediatezza dell’emozione con la ruminazione del pensiero. La sua parola poetica cammina sempre accanto alla ricerca di senso e alla contemplazione del mistero della sua assenza, evocata nei dettagli della realtà, raccontati con un verbo immaginativo e quieto, con una mediana e ricercata altezza di tono. La sua prosa ha gli occhi virginali del fanciullo ma la mente inquieta dell’adulto. Se è vero che la poesia, all’attuale stato del suo cammino, esige l’ordinario e il pensiero, l’ombra del disadorno e la luce icastica che l’oltrepassa, ebbene, sono elementi, gli uni e gli altri, che s’incontrano come frequenti segnacoli lungo questa raccolta. E badi il lettore ad ascoltare il consiglio velato dell’autrice, e a leggere i suoi versi nelle ore serotine, perché La sera scrive con corsivi d’ombra […] (“Via Giudecca”).
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