Un racconto per Ferragosto

Ho visto, ho sentito, ho ascoltato, ho letto, ho scritto

di Salvina Pizzuoli

Ho visto due gemelle monozigoti: età indefinibile ma matura. Sono salite all’unisono sul bus e si sono poste una di fronte all’altra, come davanti ad uno specchio. Il bus semivuoto mi ha permesso di osservarle. Stesso identico ombretto sulle palpebre appesantite: una larga striscia tra il celeste e il blu, stesso spessore, stesse sbavature ai margini, spicca nel colorito smorto di una pelle non ancora avvizzita. Un cerchietto nero ferma all’indietro una pettinatura che vuole essere ordinata ma che si ribella in qualche modo a tanta pretesa: sfugge a destra una svirgola all’insù, mentre a sinistra il rigore resiste. Un piumino lungo le infagotta con il suo colore grigio chiaro e i suoi quadratoni imbottiti. Un cappuccio pende ben piegato dietro le loro teste. Le scarpe calzano piedini magri su gambette esili: sono mocassini neri con la para, allacciati alti sul collo del piede. Una tracolla completa l’abbigliamento, identica anch’essa per entrambe: una postina morbida grigia con rifiniture in nero. Sono scese al capolinea approssimandosi all’uscita senza aver proferito parola, senza essersi staccate gli occhi di dosso. Si sono presentate all’unisono davanti all’uscita e sono scese con lo stesso piede, il sinistro. Sono atterrate e contemporaneamente l’una ha sollevato il gomito e l’avambraccio per permettere all’altra di infilare il proprio nello spazio libero e poi sottobraccio si sono come fuse in un’unica figura e si sono mosse con gli stessi passi e allo stesso ritmo chissà per dove.

Ho sentito una brasiliana urlare nel cellulare a chi l’ascoltava all’altro capo del mondo. La sua voce gioiosa raccontava in una lingua spumeggiante e sonora aspetti piacevoli della propria giornata, non importava conoscere il significato delle parole, era tutto il suo dire e fare e gesticolare che comunicava meglio di qualunque linguaggio. La risata con cui accompagnava e sottolineava alcune pause era gorgogliante e pizzicata. I suoi occhi si muovevano intorno senza vedere e senza guardare ma erano brillanti e mobili non solo nella pupilla ma nelle palpebre che sbattevano come al ritmo di una samba, sognanti e luminosi.

Ho sentito un paziente accomiatarsi con fare riverente sulla porta dello studio di un medico rinomato. Quasi inchinato lo salutava stringendogli la mano con queste parole: dottore non so come ringraziarla, le devo molto. Grazie dottore, grazie ancora. Anche mia moglie la saluta e la ringrazia di cuore, dottore. Arrivederla.

È stato al terzo dottore che quello è scattato come su una molla e impermalito ha sottolineato dimentica che sono professore. Il paziente si è allora ancora di più genuflesso e con un sorriso indecifrabile sulle labbra è andato via.

Ho ascoltato il canto frenetico e lo schiamazzo di nugoli di passerotti tra le verdi frasche  di tre sparuti cipressi nel centro cittadino. Ho immaginato che la sera, come pendolari che tornano a casa dal lavoro, rientrando nei loro nidi  e trovandoli forse già occupati, cominciassero a questionare e a contendere. Oppure come dentro una riunione di condominio parlassero tutti insieme  facendo un baccano inutile e incoerente. Oppure ho preferito immaginare che l’incontro scatenasse chiacchiere e risate tra gli adulti e che i piccoli si rincorressero festosi giocando. Oppure… e sono restata  lì incantata  ad ascoltare, senza pensare e senza immaginare, insieme ad altri passanti, coinvolti nello schiamazzo assordante.

Ho letto a voce alta due e più volte una poesia di Leopardi, anzi l’ho recitata quasi a memoria. A Silvia è una lirica lunga e triste eppure alla fine mi sono sentita confortata. Mi sembra di ricordare che Calvino (o no?) avesse scritto che recitare poesie a memoria aiuta. Non so se l’aiuto che ho ricevuto sia stato quello che lui intendeva, ma il mio groppo in gola prima si è fatto più serrato e poi, piano piano, si è come rotto, e ho pianto.

Ho annotato nella mente la tanta e varia umanità che mi circonda e che non conosco. Chi sono? Posso cercare di capirlo solo attraverso quello che mi mostrano e che volutamente mi fanno vedere. L’umanità mi affascina e mi piace raccontarmela immaginando vite, esistenze tra quotidiano e  bizzarria. Anch’io mi mostro e mi nascondo ma spero di esistere anche solo per un attimo nella loro immaginativa, anch’io protagonista di una storia di umana solitudine.( da Ellin Selae n91)

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