Lia Levi “L’anima ciliegia”, intervista di Flavia Piccinni all’autrice pisana, da Il Tirreno 13 ottobre

La storia di una donna ambiziosa nell’Italia che cambia
è il nuovo romanzo della scrittrice pisana Lia Levi
La libertà, Stalin
e l’anima ciliegia
di Paganina
«Evviva chi sa fare»
di Flavia Piccinni
“Paganina aveva un’anima ciliegia. Le succedeva così. Non appena cominciava a desiderare qualcosa con tutta se stessa, subito le spuntava accanto un altro desiderio, solo in apparenza diverso, e invece legato strettamente al primo. Come due ciliegie, insomma, di quelle che nascono accoppiate e poi le bambine si mettono a cavallo delle orecchie”.Inizia così il nuovo libro di Lia Levi, una delle più note scrittrici italiane, che torna adesso in libreria con “L’anima ciliegia” (HarperCollins, pp. 233). Levi, nata a Pisa nel 1931, ha vissuto sulla sua pelle le leggi razziali e attraversato da protagonista oltre mezzo secolo. La storia che racconta adesso è quella di una donna ambiziosa, fatta perlopiù d’amore e di sogni, che si trova a fare i conti con un’Italia di grandi cambiamenti e di grandi improvvisazioni.
«Sa – mi spiega lei, con una voce gentile – quando si costruisce un romanzo c’è sempre un nucleo centrale molto forte. In questo caso mi rimane più difficile però trovarlo. Dentro di me, c’era tutto quello che ho scritto: il desiderio di affetti famigliari o il grande amore, ma anche tutte le ombre, i dubbi, la complessità della vita. E queste cose le ho portate al parossisimo, con un personaggio strano e molto libero».
Lei ha vissuto all’epoca delle leggi razziali. La libertà deve essere stata qualcosa di difficile da conquistare.
«La libertà l’ho acquisita con il tempo. Io sono stata da bambina vittima delle leggi razziali: ho perso la possibilità di andare a scuola, ho vissuto con la necessità di nascondermi durante la guerra tedesca, cambiando nome per non essere riconosciuta. La mancanza di libertà l’ho vissuta sui fatti, ma c’erano anche in me degli sprazzi di sogno, alcune folli considerazioni, il pensiero di vivere qualcosa che conteneva un senso di libertà di fronte a queste tremende vicende che mi condizionavano».
Qual è stata dunque la lotta?
«Quella di diventare libera di fare ciò che volevo. All’epoca, il mio carattere non era così risoluto come magari lo è adesso. E io, che scrivo anche per bambini, spesso racconto di piccoli che fanno tutte le cose che avrei voluto fare e che non ho potuto».
Ci sono tante cose che non ha fatto nella sua vita?
«La mia vita è stata una battaglia. Penso, per esempio, alla lotta per il mondo del lavoro in un’epoca in cui, negli anni Settanta, se non erano i tuoi figli il fulcro della tua vita, eri considerata molto strana»
.Paganina spesso ama camminare all’alba, quando la vita non ha confini definiti. Vale lo stesso anche per lei?
«In realtà mi sono ispirata a una mia amica, Carmen Moravia. In tanti lettori sono rimasti colpiti da questo senso di solitudine e conquista contenuto in queste passeggiate. Il silenzio, il senso di libertà, l’ombra che non è più ombra… Sono momenti bellissimi».
Nel libro scrive anche molto di politica.
«Ho raccolto la storia del PC. Questi anni che io racconto sono all’ombra del PC perché i personaggi di questa storia, soprattutto il fratello Spartaco di Paganina, sono del PC. Ma non si tratta di politica».
Perché?
«Il PC è più un sogno, il sogno utopistico che ha rappresentato per tante persone. Tutte queste cose all’epoca c’erano, e man mano la storia di Paganina corrisponde alla storia esterna. A cominciare dalle delusioni terribili che il tempo porta. C’è il mito del compagno Stalin presentato come un nemico del popolo, ma c’è anche l’Ungheria… E i sogni si frantumano piano piano, come il manifesto della nostra genuinità e solidarietà. Sono sogni che si smarriscono con un partito che perde il nome, e con il segretario di quel partito che piange. E quando succede questo, Paganina per una strana coincidenza perde il suo grande amore».
E perde anche il suo sogno. Mi scusi, ma lei come vede la politica di oggi?
«A essere sincera sono molto preoccupata. Abbiamo avuto forse un momento, che non dico si sia risolto, ma che pareva portarci su un precipizio popolato da parole d’odio che spesso divengono anche fatti. Aver spezzato questa catena mi sembra un piccolo passo avanti».
Lei che i periodi bui gli ha vissuti, trovava davvero delle assonanze?
«A volte sì. Adesso però c’è da coltivare una flebile speranza: che la competenza riacquisti il suo posto. Mi preoccupava l’elogio dell’ignoranza a danno di chi, magari, ha lottato tutta la vita per imparare. Mi preoccupavano gli slogan».
Quale più di tutti?
«Aspetti che ci penso. Anzi, eccolo: Evviva chi non sa far le cose!». —