In libreria dal 7 novembre
Bastano poche righe per allertare le redazioni culturali italiane, e forse non solo le nostre. Un comunicato scarno della casa editrice e/o, subito rilanciato dalle agenzie di stampa. Il 7 novembre uscirà il nuovo romanzo di Elena Ferrante. Del libro al momento si conoscono solo le prime dieci righe, il resto è avvolto nell’oscurità più nera, ma in fondo non c’è da sorprendersi: sulla negazione Ferrante ha fondato parte della sua fascinazione, a cominciare dall’identità misteriosa più volte supposta ma mai dichiarata.
E allora in assenza di autrice e in assenza di romanzo, potremo sono affidarci alle congetture, a cominciare dagli indizi contenuti nell’incipit. Il primo tema in cui ci si imbatte è tipicamente ferrantiano, quello dell’abbandono e del rifiuto, questa volta da parte di un padre nei confronti della figlia, che è anche l’io narrante: «Due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta». Uno strappo violento, reso turpe e inaccettabile da quel rifiuto del corpo filiale che il padre pronunciò «sottovoce», ci dice l’autrice, «nell’appartamento che, appena sposati, i miei genitori avevano acquistato al Rione Alto, in cima a San Giacomo dei Capri». Quindi siamo ancora a Napoli, nella geografia sentimentale che fa da sfondo all’intera opera di Ferrante, dall’Amore molesto alla quadrilogia dell’Amica geniale, ma in un quartiere sideralmente distante dal turbolento rione Luzzatti dove è ambientato il ciclo di Lila e Lenù: insediamento di piccola e media borghesia che i napoletani doc associano alla toponomastica di Domenico Starnone in Via Gemito, ma forse è solo una suggestione maligna. «Tutto è rimasto fermo», continua la scrittrice. «Io invece sono scivolata via e continuo a scivolare anche adesso, dentro queste righe che vogliono darmi una storia mentre in effetti non sono niente, niente di mio, niente che sia davvero cominciato o sia davvero arrivato a compimento». E anche nello sperdimento di chi scrive è facile ritrovare il tema della scrittura non sempre capace di dare forma alla ferocia della vita.
Qui però le congetture si arrestano, dal momento che la narrazione potrebbe subire un’inversione imprevedibile. Né valgono le analogie con i romanzi precedenti.[…] (da Simonetta Fiori in La Repubblica Cultura 10 settembre)
L’incipit:
“Due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta. La frase fu pronunciata sottovoce, nell’appartamento che, appena sposati, i miei genitori avevano acquistato al Rione Alto, in cima a San Giacomo dei Capri. Tutto – gli spazi di Napoli, la luce blu di un febbraio gelido, quelle parole – è rimasto fermo. Io invece sono scivolata via e continuo a scivolare anche adesso, dentro queste righe che vogliono darmi una storia mentre in effetti non sono niente, niente di mio, niente che sia davvero cominciato o sia davvero arrivato a compimento: solo un garbuglio che nessuno, nemmeno chi in questo momento sta scrivendo, sa se contiene il filo giusto di un racconto o è soltanto un dolore arruffato, senza redenzione…“.