
Ah, sì, ora posso ben dirlo: vi è qualcosa di nostalgicamente incantevole in una società che svanisce, almeno quanto disgusta una società che decade.
Si apre con Costanzo Il Sidi e si chiude con Costanzo il Duende, in mezzo ai quali la storia trascorre con Cesare e con Curzio: passaggi generazionali, chi li racconta?
Il lettore dovrà attendere: la voce narrante si svela lentamente, il lettore ne fa la conoscenza attraverso il raccontato che ha come protagonisti i citati rampolli della casata degli Avogadro, friulana, a partire dal 1937 ad oggi e ambientata nella loro antica dimora, una solida villa secentesca arredata come molte altre case nobiliari.
La voce narrante comincia a disvelarsi
“Il capitano conte Costanzo Avogadro mi aveva promosso di fatto a suo… servo? No. Ma nemmeno attendente. Suo famulo, ecco. Io avevo diciotto anni, e lui ventinove”.
“In qualità di intendente, mio padre abitava un piccolo appartamento in una delle barchesse. Io ero frutto tardivo del suo matrimonio. Tardivo e infausto, oltreché inatteso. Dopo aver partorito otto anni prima mia fratello, e avere avuto due anni dopo l’aborto spontaneo di una piccina che venne comunque battezzata: Lia, mia madre era morta dandomi in luce al mondo. Mio padre aveva quarantasette anni, quando lei morì, e credo non mi abbia mai perdonato del tutto. Ma era uomo sobrio, di poche parole, e affidò la mia infanzia alla cuoca e alla governante”.
E più avanti
“Mio padre si avviava ormai alla vecchiaia, io mi ero iscritto a Legge e lui lavorava ai fianchi il conte affinché gli subentrassi nelle cure della villa e delle pertinenti proprietà”
Fino al giuramento
“E allora, siamo in guerra. Tempo settimane, mesi forse, ma saremo in guerra. Chi può sapere cosa riserva il futuro? Voglio fare con te un patto analogo, e voglio altresì che tu giuri, sui sacramenti, di restare per sempre vicino alla mia famiglia. Capisci? Per sempre! Giura!”
È col patto siglato con il sangue che compare per la prima volta il nome e il cognome di colui che di fatto non è solo voce narrante ma attraverso gli occhi del quale prende vita nel tempo, si disvela l’esistenza di chi lavorava e viveva in una cornice quasi estranea al mondo reale e dove il rumore di quel mondo arrivava attraverso gli avvenimenti e i fatti che occorrevano ai membri della Famiglia: un mondo schermato, quasi uno specchio in cui quello “fuori” entrava solo a tratti per specchiarvisi con le sue conseguenze, fauste o infauste, con i mutamenti e le riflessioni che se ne determinavano e che la voce narrante sa sottolineare.
Una narrazione lenta, piacevole, come possono esserlo solo i ricordi che sanno indugiare sui particolari, quelli indelebili, nostalgici, rammaricati, in questo memoir la cui conclusione, inattesa, è in effetti imprescindibile, conseguente a un gioco, un gioco delle parti, dove solo il fuoco scioglierà l’incantesimo
“vi è qualcosa di nostalgicamente incantevole in una società che svanisce, almeno quanto disgusta una società che decade”.
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