
di Flavia Piccinni
Possibile scrivere di mafia senza risultare ripetitivi? E, ancora, quanto conta lo sguardo del giornalista d’inchiesta sui fatti? Quanto servono le parole – e le denunce, e i pensieri, e lo sforzo – davanti a una delle mafie più potenti al mondo? Queste sono alcune delle domande più prepotenti che si sono affacciate durante la lettura del lucido reportage “Statale 106 – Viaggio sulle strade segrete della’ndrangheta” (minimumfax, pp. 312) firmato dal giornalista Antonio Talia. Che la Calabria la conosce bene, lui ci è vissuto, fra Reggio Calabria e quell’entroterra che pare fermo ai racconti di Corrado Alvaro. Un entroterra che sta compreso fra Reggio e Siderno, in una strada bellissima e ormai mitica perché, pur attraversando boschi e mare, tocca un tempo che non è solo geografico, ma si affaccia sul silenzio mafioso che la ‘ndrangheta sa ben custodire. Con una prosa semplice e diretta, Talia si ferma adesso a Bocale ora a Bova, secondo un itinerario che più che i chilometri considera i fatti, le violenze e le diramazioni. Fino al km 86 quando si arriva a San Luca, «arroccato a trecento metri sul livello del mare su un picco che domina la vallata, la provinciale e un tratto di Jonio, non ha un piano urbanistico: sembra sbocciato dalla montagna come un frutto prodotto da un albero». E in quel frutto ha trovato spazio la faida di San Luca, venuta alla ribalta dopo la strage di Duisburg che Talia ricostruisce con meticolosità. Sta soprattutto qui il talento dell’autore – che convince più nelle ricostruzioni che nei momenti in reportage – ed è quello di mettere insieme la storia della sua terra per farne storia di tutti. —