Racconto d’estate:

Maurizio e i quattro cammelli

Non amo andare in spiagge affollate, non amo trasportare in nome di una comodità successiva, lettini e sedie reclinabili, teli da bagno, ombrelloni leggerissimi, ma voluminosi e ingombranti. Amo andare in spiaggia con il minimo indispensabile: un cappello, un paio di occhiali, un telo per stendersi e asciugarsi al sole, una crema, un libro. Non dovrei pertanto andare in spiaggia con Daniela che in questo è il mio perfetto contrario. Tanto più io amo appartarmi, alleggerirmi di pesi inutili, tanto lei ama gli incontri, gli  inutili ammennicoli di una comodità più pensata che vissuta proprio perché non sta un minuto a sedere sulla sua rossa sedia superleggera  o sdraiata sul suo lettino o all’ombra del suo ombrellone che non può fregiarsi del merito di averle mai potuto offrire un gradito refrigerio, nemmeno sotto il dardeggiare del solleone. 

In comune abbiamo solo l’amore per la spiaggia libera, dove ciascuno può scegliere l’angolazione, la posizione e la visuale che più gli aggrada. Anche in questo comunque differiamo un poco perché, scelta la spiaggia, lei piazza ombrellone, sedie e lettino sempre nello stesso punto in modo da intavolare quelli che ama definire rapporti umani.

È arrivata qualche giorno prima di me, ma conosce già tutti habituè e occasionali; non dimentica infatti mai una faccia e già al secondo incontro li saluta festosa come li conoscesse dall’infanzia. Sotto certi aspetti ha un bel carattere aperto e godereccio che spesso invidio poiché preferisco starmene rintanata nella mia ostinata musoneria. Con Daniela non mi è possibile e, come spesso dice ridendo affettuosa, sono costretta a uscire dalla pelliccia d’orso nella quale vivo inverno ed estate. Quest’anno siamo tornate esattamente nella stessa spiaggia dello scorso anno dove Daniela ha trascorso tutto il periodo delle sue vacanze mentre io le ho fatto compagnia tra un week end e l’altro; sono un’inquieta oltre che un’orsacchiotta, nomignolo con cui bonariamente ama canzonarmi, e non posso fermarmi a lungo in uno stesso posto; Daniela al contrario cerca le rimpatriate e i soggiorni prolungati perché ha bisogno di acclimatarsi, di sentirsi come a casa, circondata da volti e parole amichevoli.

Negli anni ho capito meglio la funzione che assolve in realtà il suo ombrellone: è  un crocevia,  è un punto di incontro, di passaggio, di sosta con chiacchierata o di pausa con e senza invito. Da qui infatti passano tutti quelli che transitano sulla spiaggia senza distinzione di età, colore, abitudini, passioni, idee e ideali perché, come sostiene Daniela e, non lo dice solo come battuta, da tutti lei ha sempre imparato qualcosa e a tutti deve molto. Non credo esista un esempio di tolleranza praticata come quella di Daniela.

Mi sono trovata così a sostenere una incredibile conversazione con una signora tedesca che parlava solo il tedesco inframmezzandolo con parole in inglese, francese e italiano, ma con la quale Daniela è riuscita a intrattenersi per un’ora. Non ho mai osato chiederle di cosa avessero parlato e se si era trattato di un vero dialogo o di un vaniloquio visto che Daniela non ha alcuna predisposizione per le lingue e ignora completamente il tedesco, non conosce il francese e intende poco l’inglese. So solo che verso mezzogiorno la signora tedesca ci ha salutate e che il commento di Daniela è stato: – simpatica, vero?!

Subito dopo è passato a salutare Yoshi,  indiano di Calcutta, così si faceva chiamare; l’ombrellone di Daniela rappresenta per lui la sosta per una meritata sigaretta. Si è seduto, lui all’ombra gradita, lei tra il lettino e la sedia che ora fungono da appoggio per le bacheche ambulanti di Yoshi colme di collane, bracciali, anelli indiani. Sotto l’ombrellone di Daniela ha fatto i migliori affari conoscendo Daniela i problemi di Yoschi e spingendo i tutti che conosce a risolverglieli, almeno quelli economici.

Dopo Yoshi c’è stata una pausa; la spiaggia si è svuotata e siamo rimasti in pochi. Vista a quest’ora cambia aspetto: gli ombrelloni, non più fitti,  punteggiano la sabbia come puntine su una tavolozza di compensato e con i loro allegri colori la vivacizzano nella sua coloritura uniforme e giallastra; i piccoli non riempiono con  strilli eccitati lo spazio intorno a noi, ma raccolti dalle madri, come la chioccia con i pulcini, sostano sotto gli ombrelloni mordicchiando panini ripieni che troneggiano enormi e tremolanti nelle loro piccole mani. Il passeggio lungo la battigia è completamente cessato,  sostituito da pigre sedute,  tra lo sciabordio delle onde, di accaldati bagnanti; più in disparte, incurante del sole, c’è Claudio, dedito ad una delle sue creazioni. Daniela sa tutto di lui e spesso lo incoraggia a proseguire nella confezione delle sue piccole produzioni. A Claudio piace soprattutto trasformare ciò che la natura gli offre e dalle sue mani laboriose nascono capolavori di cesello. Di primo mattino è già sulla spiaggia alla ricerca di sassi, conchiglie e pietre pomici; raccoglie solo ciò in cui intravede già l’aspetto nuovo, quasi lo scoprisse nascosto tra le pieghe della materia. È un demiurgo dei piccoli oggetti: quando ha trovato quello che lo conquista non si stacca dal suo lavoro fino a compimento. Il mio sguardo si sposta ora da Claudio curvo sul suo lavoro e corre leggero e si sofferma pigro su questo paesaggio d’agosto godendo una pausa tra visitatore e visitatore. Daniela non c’è; si muove da ombrellone a ombrellone come le pedine di una dama o si accoccola accanto ai bagnanti sulla battigia o sbircia incuriosita le mosse di Claudio.

Sto quasi per appisolarmi quando con voce alta e concitata Daniela annuncia: – Maurizio, c’è Maurizio!

A mala pena distinguo nella direzione in cui si è girata un puntino bianco affiancato da un ammasso più scuro, le due cose procedono sulla sabbia lentamente, quasi a fatica, sostenendosi a vicenda: ora il bianco pende verso la massa scura, ora la massa scura si inclina verso il puntino bianco.

Delineandosi meglio sull’orizzonte vuoto riesco finalmente a intravedere e distinguere un uomo e un borsone e Daniela che gli corre incontro sbracciandosi.

Si dirigono ora verso di me o forse è meglio dire verso l’ombrellone, lei sempre più accalorata, lui sempre più curvo.

-Ti presento Maurizio – è la voce eccitata di Daniela – è marocchino, di Fez.

-No – la  corregge lui – di un villaggio vicino.

Maurizio non è il suo vero nome; come molti ha preferito integrarsi nella nostra realtà almeno con il nome che si è scelto arrivando.

Non so quanti anni possa avere; comunque non più di quaranta. La sua faccia non è bella, ma gli occhi sono intensi e il sorriso è aperto e accattivante.

Sta raccontando a Daniela del suo nuovo bambino; ogni volta che ritorna dall’ Italia in Marocco, la sua famiglia cresce di un’unità. Ride alla battuta scontata di Daniela e risponde, abbassando la testa, che dovrà lavorare ancora di più.

-È giovane sai – sta dicendo intanto Daniela rivolta verso di me – e ha già cinque figli e una moglie da mantenere; una sola perché non potrebbe mantenerne di più!

Maurizio ride di nuovo alla battuta e mi guarda, poi abbassa gli occhi e mi guarda ancora.

Mi sento in imbarazzo e mi chiedo se c’è oppure se ho qualcosa di strano per essere guardata con tanta insistenza.

Come al solito è Daniela a trarmi d’impaccio; capisco infatti dal suo atteggiamento che il suo intervento ha a che vedere con la guardata di Maurizio.

-Le bionde hanno per Maurizio un fascino particolare, normale, non ti pare?

-Se avessi quattro cammelli – sta intanto dicendo Maurizio, quasi parlando a voce alta e inseguendo il filo dei propri pensieri – sarei un uomo ricco, non dovrei spostarmi dal mio paese e potrei avere anche due mogli, una  bionda, volendo!

Mi guarda e ride; una risata bella, spensierata, contenta. Contagia anche me e Daniela che, rivolta a Maurizio, esordisce dicendo -Questa battuta è troppo spassosa, la voglio proprio raccontare!

-Anch’io –  risponde Maurizio con arguzia, – la voglio proprio raccontare – e ripreso il suo pesante saccone  si avvia a passo lento verso nuovi e potenziali clienti.

Maurizio non si è ancora del tutto allontanato dall’ombrellone, ma già Daniela ha rivolto la sua attenzione altrove e, guardandomi con occhio indagatore,  mi chiede: – E Claudio? (da Corti e fantastici, Edida)

Il sabato del racconto

Un giallo metafisico

Le gatte

Il palazzotto neogotico con la torretta e il bugnato rustico della facciata, si distingueva tra le case basse con balconi e terrazze e giardini all’inizio della bella strada in salita di una delle tante colline intorno alla città. Lo avevo notato subito quando anni addietro avevo percorso quella via alla ricerca del numero civico indicato dall’agenzia incaricata della vendita dell’appartamento che poi sarebbe diventato di mia proprietà. La posizione elevata, la strada e i campi, visibili dalla parte retrostante, mi avevano conquistato: la vista era magnifica; mi aveva ricordato i quadri di Monet punteggiati dei colori caldi e soffusi dei fiori di campo; meritava la spesa seppure nella limitazione degli ambienti all’interno.

 Con il passare del tempo mi ero abituato alla singolarità delle forme di quell’unico fabbricato che così poco s’ intonava con le altre costruzioni tanto ariose e aperte in confronto all’ austerità cupa del palazzotto protetto da un muretto e da un’ inferriata a barre fitte e scure.  Era però possibile sbirciare al di là del pesante cancello, filtrando lo sguardo tra i ricci e gli anelli di ferro che ne alleggerivano la struttura e il peso. Strano a dirsi, non c’era stata volta che passando, e da allora c’ero passato davanti spesso, non avessi sentito il desiderio impellente di gettare un occhio al cortile interno sempre uguale nella sua trascuratezza, abbandonato alle intemperanze della natura, con le erbacce che spuntavano a ciuffi tra le pietre spaccate del selciato o ricoperto dalle foglie cadute dai rami di due alti e imponenti tigli. Vivificavano l’ambiente due gatte, una tigrata e l’altra a pelo lungo e fulvo costantemente appollaiate su una panchina di pietra. Per il resto il luogo era privo di vita. Le gatte erano curate e sembravano le padrone di quel territorio disabitato. Non era mia abitudine chiedere e pertanto nulla sapevo circa gli eventuali inquilini che comunque non avevo mai visto, né intravisto durante le numerose passeggiate lungo quella strada che da subito avevo amato; la percorrevo infatti spesso a piedi, in tutte le stagioni. Ne amavo i giardini di cui spesso riuscivo a carpire solo scorci e fugaci vedute, gradevoli per l’intensità dei colori e per i loro accostamenti nati da una magistrale tavolozza. Ne amavo le siepi di gelsomino che si affacciavano sul marciapiede con i loro piccoli calici bianchi o azzurri, riempiendo l’aria della sera di avvolgente profumo, ma l’amavo soprattutto in inverno quando la vita sembrava fermare il passo e attendere. Niente tripudi di fioriture, niente foglie sugli alberi, niente rose, niente profumi, niente colori, solo sagome scarne, pieni e vuoti; riuscivo solo in quella stagione a vedere la grande finestra che si apriva nel fabbricato in cima alla collina, in estate completamente nascosta dal fogliame. Fu proprio una notte d’estate che tutto ebbe inizio e che da allora avrebbe completamente trasformato il mio rapporto con il palazzotto e con tutto ciò che conteneva. Preso da una delle mie frenetiche e angosciose ansietà, mi ero precipitato fuori nella strada; avevo camminato fino a sfinirmi, ma non sapevo di preciso per quanto, annebbiato dal turbinio dei miei tormentosi pensieri. Stanco, nel rientrare a casa mi ero poi lasciato prendere da quel sentore di fresco che già ai piedi della salita rendeva il caldo meno soffocante quando, passando accanto al palazzotto, mi accorsi che il grosso cancello era scostato; un occhio meno avvezzo forse non lo avrebbe neppure notato, ma il mio abituato, sì. Rimasi lì fermo a sincerarsene. Non c’erano dubbi, era stato aperto. Mille congetture si fecero strada nella mia mente affollandola, senza però fornirmi una soluzione plausibile. Mai, ed erano ormai trascorse varie stagioni, quel cancello non lo avevo visto né spalancato né aperto né tanto meno scostato. Incredulo mi trovai a spingere con la mano sul battente e a intrufolarmi nel cortile. Era tutto molto silenzioso, sotto la luce dei potenti lampioni che qualche mese addietro avevano sostituito i precedenti, vecchi e discreti; ora quella luce sfacciata illuminava la via da seguire. Non ero ancora a metà del percorso tra il cortile e il portone d’ingresso che un movimento attirò la mia attenzione: le gatte erano comparse da dietro la casa. Sembrava mi venissero incontro sebbene non mi avessero degnato mai di uno sguardo. Si accucciarono a qualche passo da me. Il comportamento mi sembrò singolare; non mi intendevo di gatti, ma qualunque animale alla vista di uno sconosciuto avrebbe trovato più conveniente la fuga. L’arrivo improvviso delle gatte mi aveva distolto dai miei pensieri che si rincorrevano arruffati e confusi; in realtà cosa ci facevo lì e perché mi era saltato in mente di correre un rischio simile? Chiunque avrebbe potuto a ragione considerarmi un intruso. Eppure la curiosità, cresciuta nel tempo, aveva prevalso su ogni ragionevole considerazione. Stavo per avanzare quando le gatte cominciarono a dirigersi lentamente verso l’angolo dal quale erano arrivate. Decisi di seguirle. Cosa può spingere un uomo assennato, sfiancato dal tentativo di sfinire i suoi cattivi pensieri, in un cortile privato, nel cuore di una notte estiva, a seguire due gatte all’interno di un’abitazione? Me lo sarei chiesto inutilmente mille e una volta nei giorni e negli anni successivi. Tuttavia nel preciso istante in cui avevo varcato quel cancello, tutta la mia ansia era scomparsa per lasciare posto a una suggestione che andava raggomitolandomi. Girato l’angolo, sul retro del palazzo l’oscurità era maggiore, ma il riflesso della luce forte del lampione alto sulle case mi permise di distinguere un portoncino di servizio, anch’esso accostato; le gatte intanto erano entrate. Lo spinsi senza alcuna esitazione. Nella luce che filtrava chiara dalla lunetta del portone dell’ingresso principale nella parete di fronte a quello di servizio, lo spazio interno appariva disadorno e occupato interamente da una scala di pietra che addossata alla parete a destra saliva al piano superiore. Scorsi le gatte appostate sulla parte dove la scala si faceva più larga, prima del corrimano, anch’esso di pietra, ma più scura, di un grigio levigato dal tempo e dalle molte mani che lo avevano stretto. Quando mi videro mi precedettero, quasi a fare da guida. Giunto in cima continuai a seguirle verso un’ampia stanza che si apriva proprio di fronte al corridoio d’ingresso al piano superiore. Una luce, come a bagliori, sembrava rischiararla, ma il raggio potente del lampione insinuandosi tra gli scuri accostati la rivelava in tutta la sua magnifica e composta eleganza: le pareti in angolo a destra erano completamente tappezzate da libri ben disposti in scaffali che lasciavano trasparire solo gli assi portanti tanto erano stipati. In basso altri libri, più alla rinfusa su sedie, poltrone, mobili, nella libreria girevole. Mi colpì il bagliore di una fiamma che si era come ravvivata per un’impercettibile corrente; la cenere rianimata diffondeva all’intorno un alone di luce rossastra che mi permise di cogliere i contorni del bel caminetto rivestito di maioliche portoghesi; avrei riconosciuto ovunque quella manifattura unica e gradevolissima nelle sue gradazioni e disegni dal blu intenso. Quei bagliori, insieme ai tappeti, alle poltrone, ai divani e ai libri conferivano all’ambiente un’atmosfera calda e accogliente; una stanza studio, come sottolineava una piccola scrivania rococò, di sicura manifattura fiorentina, splendida in angolo, vicino alla seconda ampia finestra, alla luce della quale distinsi il bel piano di lavoro lavorato a intarsio. Ero talmente affascinato da quell’ambiente così simile a quello che avrei avuto in mente per il mio appartamento che non colsi subito, lì, vicino a me, la poltrona ingombra di qualcosa che assomigliava a un fagotto. La mia attenzione era intermittente nel tentativo di cogliere più elementi contemporaneamente. Alla mia sinistra una bassa scaffalatura stretta e lunga quanto tutto il lato dell’ampia stanza, conteneva una raccolta di classici latini e greci in edizione economica che avevo subito riconosciuto dalle vecchie copertine di cartoncino sottile; il loro aspetto sciupato e gualcito evidenziava l’ operosità del tempo, ma anche le ripetute letture; sopra di essa, una scelta di opere di impressionisti e macchiaioli, quelli che più amavo, tappezzava letteralmente la parte restante della parete. Rimasi incantato come Batà dalla luce della luna mentre li osservavo al chiarore dei lampioni filtrato dagli scuri e al baluginare del caminetto; tutto in quella stanza pareva studiato per avvolgermi e accarezzarmi l’anima e io rispondevo lasciandomi prendere e cullare. Era come in un dejà vu, conoscevo quell’ambiente, c’ero già stato e lì stavo bene; come un brutto cofanetto, il palazzotto, pur nell’ abbandono apparente ed esterno degli ambienti disadorni e trascurati, custodiva un gioiello. A quel punto mi detti a ricercare segni di un’eventuale effrazione, ma non ravvisai alcunché, né in quella stanza né negli ambienti limitrofi vuoti e bui a cui faceva riscontro quell’unica stanza dove il disordine era quello di chi legge, studia, cerca, rilegge, vive; un mondo parallelo, chiuso e isolato. Avrei continuato a crogiolarmi in quell’ambiente senza pormi domande, senza dubbi o incertezze, sicuro delle risposte come già date, se le gatte non mi avessero svegliato da quel torpore piacevole, piazzandosi accanto a quella poltrona ingombra che ancora non avevo considerato. Fu allora che mi accorsi che il fagotto era in realtà un ammasso sì di abiti, ma che vestivano qualcuno.

Per un attimo il cuore ebbe un sussulto e poi sembrò fermarsi completamente. Avrei voluto urlare, ma la voce si era completamente strozzata in gola; avrei voluto allontanarmi, ma le gambe non obbedivano; in tutto questo tumultuare di sensazioni di cui mi sembrava di non avere alcuna coscienza e consapevolezza, i miei occhi sbarrati erano riusciti a penetrare meglio tra le pieghe del fagotto e a distinguere un lungo impermeabile beige che ricopriva una figura minutissima e scarna, stretto da una cintura che segnava il punto vita. La testa era nascosta da uno strano copricapo, simile al cappello di un fantino che a sua volta si calzava su un foulard che incorniciava il viso asciutto di una vecchia signora. I suoi occhi erano chiusi e la sua testa era reclinata morbidamente sulla spalliera alta della poltrona nella quale era alloggiata. Accanto a lei, a cavallo del bracciolo, un volumetto dei classici, come se stesse leggendolo e lo avesse un attimo appoggiato per tenere il segno e riprenderne la lettura successivamente. Sembrava così tranquilla che il cuore ricominciò a battermi in petto. La stanza e la vecchia signora sembravano non avere nulla in comune, l’una sobria ed elegante l’altra bizzarra e trasandata, eppure da quel viso traspariva un’ espressione di compiuta quiete. Con una tranquillità di cui non mi credevo capace, diedi ancora un’occhiata alla bella stanza dove solitaria viveva la vecchia signora e mi avviai verso le scale per uscire, ma senza fretta. Fu solo allora che mi accorsi che le gatte per tutto il tempo, che a me era sembrato lunghissimo, erano rimaste accoccolate accanto al caminetto acceso e che ora come riscosse mi stavano accompagnando ancora una volta, in un percorso a ritroso. Lasciai tutto come lo avevo trovato: sia il portone di servizio che il cancello; anche di questo non seppi mai spiegarmi il perché. Trasognato, mi avviai verso casa dove crollai in un sonno profondo e senza sogni.

Il risveglio fu meno sereno. Il primo impulso fu quello di pensare che avessi sognato, ma la vivezza delle immagini che ancora mi turbinavano nella mente affermavano il contrario. Decisi allora di tornare là con l’intento di soffermarmi a controllare e guardare meglio i luoghi alla luce del giorno. Giunto davanti al cancello vidi che era ancora accostato. Feci finta di chinarmi ad allacciare le scarpe per avere più tempo di guardare senza dare nell’occhio. Tutto sembrava immutato: gli alberi, le erbacce e la panchina sulla quale le gatte ancora una volta erano appollaiate. Richiamai la loro attenzione sfregando i piedi sul selciato, ma loro, sornione, non colsero o non vollero cogliere e rimasero incuranti accovacciate sulla loro panchina. Le domande si affollarono: cosa era accaduto nella casa dove nessuno fino a poche ore prima aveva manomesso nulla? e la vecchia signora? era solo un fagotto di stracci che la mia mente agitata aveva vestito o c’era davvero? e perché non l’avevo mai vista né incontrata? se c’era, stava davvero dormendo o era, orrore solo a pensarci, morta da tempo? nulla era cambiato nell’ampio cortile; davvero avevo visto un caminetto acceso in piena estate? davvero avevo ammirato la bella stanza che tanto assomigliava a quella vagheggiata? Non mi restava altro che constatarlo contravvenendo alla mia indole. Con fare svagato, da visitatore casuale, mi spinsi oltre il cancello avviandomi con passo lento verso il retro del cortile e verso quell’ingresso di servizio che ormai mi era noto. A metà percorso qualcosa intervenne a far vacillare la sicurezza dei miei passi. Ricordavo benissimo di aver seguito le gatte sul retro della casa, ma il percorso mi era sembrato molto più breve. Forse non ricordavo a causa del buio quel cespuglio che vi si addossava? Lo avevo sicuramente aggirato. Ci provai ancora e cercai un varco che non c’era: il passaggio era completamente sbarrato da un muro di pietra. Sentivo la bocca farsi più secca e il bisogno di ingoiare sempre più insistente e difficoltoso mentre la gola si stringeva in un nodo serrato che mi impediva di deglutire in modo normale. Quel muro non lo avevo mai notato nonostante le continue sbirciate attraverso il cancello. Istintivamente mi voltai a guardare in una prospettiva capovolta. Immediatamente mi accorsi che la distanza era maggiore di quella che avevo percorso la notte precedente, ma compresi che l’esistenza del muro perimetrale addossato al palazzo mi era stata impedita dai due poderosi tigli che limitavano la visuale del cortile. Le deduzioni ricavate dalla breve esplorazione non solo non mi avevano chiarito l’enigma, ma stavano se possibile complicandolo. Immerso nella nube nera dei miei pensieri non mi accorsi di sbattere quasi subito contro la panchina di pietra, la panchina sulla quale le gatte trascorrevano le loro giornate. Ciò che vidi mi lasciò letteralmente di sasso. I miei pensieri per quanto arruffati erano stati fino a quel momento una presenza; in quel preciso istante percepii con un vigore mai provato cosa potesse significare “testa vuota”. Non c’erano pensieri, non c’erano domande, non c’era emozione, né sensazione ma una voragine senza fondo mi stava trascinando in un vortice che non riuscivo a percepire con i sensi, esisteva intorno a me risucchiandomi nella sua spirale sempre più stretta e soffocante. Uscire o riemergere non era possibile, potevo solo sprofondare. Mi ritrovai con una mano appoggiata sul bordo inciso della vecchia panchina; non sapevo quanto tempo fosse effettivamente trascorso, ma mi riscossi e avvertii di essere tutto intero. Le belle gatte mi fissavano sornione, beatamente accucciate sullo stesso lato della panchina, immote e fisse nella consistenza vetrosa della porcellana. A guardarle così da vicino era possibile notare la notevole rispondenza al vero, nonostante alcuni tratti sbeccati dal logorio del tempo; ben fatte e verosimili nelle loro espressioni paciose e paffute, erano le padrone di quel cortile che non potevano abbandonare. (da Corti e fantastici, Edida)

Il racconto della domenica

Le gatte

Il palazzotto neogotico, con la torretta e il bugnato rustico della facciata, si distingueva tra le case basse con balconi e terrazze e giardini all’inizio della bella strada in salita di una delle tante colline intorno alla città. Lo avevo notato subito quando anni addietro avevo percorso quella via alla ricerca del numero civico indicato dall’agenzia incaricata della vendita dell’appartamento che poi sarebbe diventato di mia proprietà. La posizione elevata, la strada e i campi, visibili dalla parte retrostante, mi avevano conquistato: la vista era magnifica; mi aveva ricordato i quadri di Monet punteggiati dei colori caldi e soffusi dei fiori di campo; meritava la spesa seppure nella limitazione degli ambienti all’interno.

Con il passare del tempo mi ero abituato alla singolarità delle forme di quell’unico fabbricato che così poco si intonava con le altre costruzioni tanto ariose e aperte in confronto all’ austerità cupa del palazzotto protetto da un muretto e da un’ inferriata a barre fitte e scure Era però possibile sbirciare al di là del pesante cancello, filtrando lo sguardo tra i ricci e gli anelli di ferro che ne alleggerivano la struttura e il peso. Strano a dirsi, non c’era stata volta che passando, e da allora c’ero passato davanti spesso, non avessi sentito il desiderio impellente di gettare un occhio al cortile interno sempre uguale nella sua trascuratezza, abbandonato alle intemperanze della natura, con le erbacce che spuntavano a ciuffi tra le pietre spaccate del selciato o ricoperto dalle foglie cadute dai rami di due alti e imponenti tigli. Vivificavano l’ambiente due gatte, una tigrata e l’altra a pelo lungo e fulvo costantemente appollaiate su una panchina di pietra.

Per il resto il luogo era privo di vita. Le gatte erano curate e sembravano le padrone di quel territorio disabitato.

Non era mia abitudine chiedere e pertanto nulla sapevo circa gli eventuali inquilini che comunque non avevo mai visto, né intravisto durante le numerose passeggiate lungo quella strada che da subito avevo amato; la percorrevo infatti spesso a piedi, in tutte le stagioni.

Ne amavo i giardini di cui spesso riuscivo a carpire solo scorci e fugaci vedute, gradevoli per l’intensità dei colori e per i loro accostamenti nati da una magistrale tavolozza.

Ne amavo le siepi di gelsomino che si affacciavano sul marciapiede con i loro piccoli calici bianchi o azzurri, riempiendo l’aria della sera di avvolgente profumo, ma l’amavo soprattutto in inverno quando la vita sembrava fermare il passo e attendere. Niente tripudi di fioriture, niente foglie sugli alberi, niente rose, niente profumi, niente colori, solo sagome scarne, pieni e vuoti; riuscivo solo in quella stagione a vedere la grande finestra che si apriva nel fabbricato in cima alla collina, in estate completamente nascosta dal fogliame.

Fu proprio una notte d’estate che tutto ebbe inizio e che da allora avrebbe completamente trasformato il mio rapporto con il palazzotto e con tutto ciò che conteneva. Preso da una delle mie frenetiche e angosciose ansietà, mi ero precipitato fuori nella strada; avevo camminato fino a sfinirmi, ma non sapevo di preciso per quanto, annebbiato dal turbinio dei miei tormentosi pensieri. Stanco, nel rientrare a casa mi ero poi lasciato prendere da quel sentore di fresco che già ai piedi della salita rendeva il caldo meno soffocante quando, passando accanto al palazzotto, mi accorsi che il grosso cancello era scostato; un occhio meno avvezzo forse non lo avrebbe neppure notato, ma il mio abituato, si. Rimasi lì fermo a sincerarsene. Non c’erano dubbi, era stato aperto.

Mille congetture si fecero strada nella mia mente affollandola, senza però fornirmi una soluzione plausibile. Mai, ed erano ormai trascorse varie stagioni, quel cancello non lo avevo visto né spalancato né aperto né tanto meno scostato.

Incredulo mi trovai a spingere con la mano sul battente e a intrufolarmi nel cortile. Era tutto molto silenzioso, sotto la luce dei potenti lampioni che qualche mese addietro avevano sostituito i precedenti, vecchi e discreti; ora quella luce sfacciata illuminava la via da seguire.

Non ero ancora a metà del percorso tra il cortile e il portone d’ingresso che un movimento attirò la mia attenzione: le gatte erano comparse da dietro la casa. Sembrava mi venissero incontro sebbene non mi avessero degnato mai di uno sguardo.

Si accucciarono a qualche passo da me. Il comportamento mi sembrò singolare; non mi intendevo di gatti, ma qualunque animale alla vista di uno sconosciuto avrebbe trovato più conveniente la fuga.

L’arrivo improvviso delle gatte mi aveva distolto dai miei pensieri che si rincorrevano arruffati e confusi; in realtà cosa ci facevo lì e perché mi era saltato in mente di correre un rischio simile? Chiunque avrebbe potuto a ragione considerarmi un intruso. Eppure la curiosità, cresciuta nel tempo, aveva prevalso su ogni ragionevole considerazione.

Stavo per avanzare quando le gatte cominciarono a dirigersi lentamente verso l’angolo dal quale erano arrivate.

Decisi di seguirle.

Cosa può spingere un uomo assennato, sfiancato dal tentativo di sfinire i suoi cattivi pensieri, in un cortile privato, nel cuore di una notte estiva, a seguire due gatte all’interno di un’abitazione?

Me lo sarei chiesto inutilmente mille e una volta nei giorni e negli anni successivi. Tuttavia nel preciso istante in cui avevo varcato quel cancello, tutta la mia ansia era scomparsa per lasciare posto a una suggestione che andava raggomitolandomi.

Girato l’angolo, sul retro del palazzo l’oscurità era maggiore, ma il riflesso della luce forte del lampione alto sulle case mi permise di distinguere un portoncino di servizio, anch’esso accostato; le gatte intanto erano entrate. Lo spinsi senza alcuna esitazione. Nella luce che filtrava chiara dalla lunetta del portone dell’ingresso principale nella parete di fronte a quello di servizio, lo spazio interno appariva disadorno e occupato interamente da una scala di pietra che addossata alla parete a destra saliva al piano superiore. Scorsi le gatte appostate sulla parte dove la scala si faceva più larga, prima del corrimano, anch’esso di pietra, ma più scura, di un grigio levigato dal tempo e dalle molte mani che lo avevano stretto. Quando mi videro mi precedettero, quasi a fare da guida. Giunto in cima continuai a seguirle verso un’ampia stanza che si apriva proprio di fronte al corridoio d’ingresso al piano superiore. Una luce, come a bagliori, sembrava rischiararla, ma il raggio potente del lampione insinuandosi tra gli scuri accostati la rivelava in tutta la sua magnifica e composta eleganza: le pareti in angolo a destra erano completamente tappezzate da libri ben disposti in scaffali che lasciavano trasparire solo gli assi portanti tanto erano stipati. In basso altri libri, più alla rinfusa su sedie, poltrone, mobili, nella libreria girevole. Mi colpì il bagliore di una fiamma che si era come ravvivata per un’impercettibile corrente; la cenere rianimata diffondeva all’intorno un alone di luce rossastra che mi permise di cogliere i contorni del bel caminetto rivestito di maioliche portoghesi; avrei riconosciuto ovunque quella manifattura unica e gradevolissima nelle sue gradazioni e disegni dal blu intenso. Quei bagliori, insieme ai tappeti, alle poltrone, ai divani e ai libri conferivano all’ambiente un’atmosfera calda e accogliente; una stanza studio, come sottolineava una piccola scrivania rococò, di sicura manifattura fiorentina, splendida in angolo, vicino alla seconda ampia finestra, alla luce della quale distinsi il bel piano di lavoro lavorato a intarsio. Ero talmente affascinato da quell’ambiente così simile a quello che avrei avuto in mente per il mio appartamento che non colsi subito, lì, vicino a me, la poltrona ingombra di qualcosa che assomigliava a un fagotto.

La mia attenzione era intermittente nel tentativo di cogliere più elementi contemporaneamente.

Alla mia sinistra una bassa scaffalatura stretta e lunga quanto tutto il lato dell’ampia stanza, conteneva una raccolta di classici latini e greci in edizione economica che avevo subito riconosciuto dalle vecchie copertine di cartoncino sottile; il loro aspetto sciupato e gualcito evidenziava l’ operosità del tempo, ma anche le ripetute letture; sopra di essa, una scelta di opere di impressionisti e macchiaioli, quelli che più amavo, tappezzava letteralmente la parte restante della parete. Rimasi incantato come Batà dalla luce della luna mentre li osservavo al chiarore dei lampioni filtrato dagli scuri e al baluginare del caminetto; tutto in quella stanza pareva studiato per avvolgermi e accarezzarmi l’anima e io rispondevo lasciandomi prendere e cullare.

Era come in un dejà vu, conoscevo quell’ambiente, c’ero già stato e lì stavo bene; come un brutto cofanetto, il palazzotto, pur

nell’ abbandono apparente ed esterno degli ambienti disadorni e trascurati, custodiva un gioiello.

A quel punto mi detti a ricercare segni di un’eventuale effrazione, ma non ravvisai alcunché, né in quella stanza né negli ambienti limitrofi vuoti e bui a cui faceva riscontro quell’unica stanza dove il disordine era quello di chi legge, studia, cerca, rilegge, vive; un mondo parallelo, chiuso e isolato. Avrei continuato a crogiolarmi in quell’ambiente senza pormi domande, senza dubbi o incertezze, sicuro delle risposte come già date, se le gatte non mi avessero svegliato da quel torpore piacevole, piazzandosi accanto a quella poltrona ingombra che ancora non avevo considerato.

Fu allora che mi accorsi che il fagotto era in realtà un ammasso sì di abiti, ma che vestivano qualcuno.

Per un attimo il cuore ebbe un sussulto e poi sembrò fermarsi completamente. Avrei voluto urlare, ma la voce si era completamente strozzata in gola; avrei voluto allontanarmi, ma le gambe non obbedivano; in tutto questo tumultuare di sensazioni di cui mi sembrava di non avere alcuna coscienza e consapevolezza, i miei occhi sbarrati erano riusciti a penetrare meglio tra le pieghe del fagotto e a distinguere un lungo impermeabile beige che ricopriva una figura minutissima e scarna, stretto da una cintura che segnava il punto vita. La testa era nascosta da uno strano copricapo, simile al cappello di un fantino che a sua volta si calzava su un foulard che incorniciava il viso asciutto di una vecchia signora. I suoi occhi erano chiusi e la sua testa era reclinata morbidamente sulla spalliera alta della poltrona nella quale era alloggiata. Accanto a lei, a cavallo del bracciolo, un volumetto dei classici, come se stesse leggendolo e lo avesse un attimo appoggiato per tenere il segno e riprenderne la lettura successivamente.

Sembrava così tranquilla che il cuore ricominciò a battermi in petto. La stanza e la vecchia signora sembravano non avere nulla in comune, l’una sobria ed elegante l’altra bizzarra e trasandata, eppure da quel viso traspariva un’ espressione di compiuta quiete.

Con una tranquillità di cui non mi credevo capace, diedi ancora un’occhiata alla bella stanza dove solitaria viveva la vecchia signora e mi avviai verso le scale per uscire, ma senza fretta.

Fu solo allora che mi accorsi che le gatte per tutto il tempo, che a me era sembrato lunghissimo, erano rimaste accoccolate accanto al caminetto acceso e che ora come riscosse mi stavano accompagnando ancora una volta, in un percorso a ritroso.

Lasciai tutto come lo avevo trovato: sia il portone di servizio che il cancello; anche di questo non seppi mai spiegarmi il perché.

Trasognato, mi avviai verso casa dove crollai in un sonno profondo e senza sogni.

Il risveglio fu meno sereno. Il primo impulso fu quello di pensare che avessi sognato, ma la vivezza delle immagini che ancora mi turbinavano nella mente affermavano il contrario.

Decisi allora di tornare là con l’intento di soffermarmi a controllare e guardare meglio i luoghi alla luce del giorno.

Giunto davanti al cancello vidi che era ancora accostato. Feci finta di chinarmi ad allacciare le scarpe per avere più tempo di guardare senza dare nell’occhio. Tutto sembrava immutato: gli alberi, le erbacce e la panchina sulla quale le gatte ancora una volta erano appollaiate.

Richiamai la loro attenzione sfregando i piedi sul selciato, ma loro, sornione, non colsero o non vollero cogliere e rimasero incuranti accovacciate sulla loro panchina.

Le domande si affollarono: cosa era accaduto nella casa dove nessuno fino a poche ore prima aveva manomesso nulla? e la vecchia signora? era solo un fagotto di stracci che la mia mente agitata aveva vestito o c’era davvero? e perché non l’avevo mai vista né incontrata? se c’era, stava davvero dormendo o era, orrore solo a pensarci, morta da tempo? nulla era cambiato nell’ampio cortile; davvero avevo visto un caminetto acceso in piena estate? davvero avevo ammirato la bella stanza che tanto assomigliava a quella vagheggiata?

Non mi restava altro che constatarlo contravvenendo alla mia indole. Con fare svagato, da visitatore casuale, mi spinsi oltre il cancello avviandomi con passo lento verso il retro del cortile e verso quell’ingresso di servizio che ormai mi era noto. A metà percorso qualcosa intervenne a far vacillare la sicurezza dei miei passi. Ricordavo benissimo di aver seguito le gatte sul retro della casa, ma il percorso mi era sembrato molto più breve.

Forse non ricordavo a causa del buio quel cespuglio che vi si addossava? Lo avevo sicuramente aggirato.

Ci provai ancora e cercai un varco che non c’era: il passaggio era completamente sbarrato da un muro di pietra.

Sentivo la bocca farsi più secca e il bisogno di ingoiare sempre più insistente e difficoltoso mentre la gola si stringeva in un nodo serrato che mi impediva di deglutire in modo normale. Quel muro non lo avevo mai notato nonostante le continue sbirciate attraverso il cancello. Istintivamente mi voltai a guardare in una prospettiva capovolta. Immediatamente mi accorsi che la distanza era maggiore di quella che avevo percorso la notte precedente, ma compresi che l’esistenza del muro perimetrale addossato al palazzo mi era stata impedita dai due poderosi tigli che limitavano la visuale del cortile.

Le deduzioni ricavate dalla breve esplorazione non solo non mi avevano chiarito l’enigma, ma stavano se possibile complicandolo. Immerso nella nube nera dei miei pensieri non mi accorsi di sbattere quasi subito contro la panchina di pietra, la panchina sulla quale le gatte trascorrevano le loro giornate. Ciò che vidi mi lasciò letteralmente di sasso. I miei pensieri per quanto arruffati erano stati fino a quel momento una presenza; in quel preciso istante percepii con un vigore mai provato cosa potesse significare “testa vuota”.

Non c’erano pensieri, non c’erano domande, non c’era emozione, né sensazione ma una voragine senza fondo mi stava trascinando in un vortice che non riuscivo a percepire con i sensi, esisteva intorno a me risucchiandomi nella sua spirale sempre più stretta e soffocante. Uscire o riemergere non era possibile, potevo solo sprofondare.

Mi ritrovai con una mano appoggiata sul bordo inciso della vecchia panchina; non sapevo quanto tempo fosse effettivamente trascorso, ma mi riscossi e avvertii di essere tutto intero.

Le belle gatte mi fissavano sornione, beatamente accucciate sullo stesso lato della panchina, immote e fisse nella consistenza vetrosa della porcellana. A guardarle così da vicino era possibile notare la notevole rispondenza al vero, nonostante alcuni tratti sbeccati dal logorio del tempo; ben fatte e verosimili nelle loro espressioni paciose e paffute, erano le padrone di quel cortile che non potevano abbandonare.

da Salvina Pizzuoli “Corti e… fantastici”