
“Varianti”, Torino, Bollati Boringhieri, 2024, br., 176 p., 16 €.
La poetica di questo romanzo, intendo il pensiero e la weltanschauung che sostanziano un’opera di narrativa, sta in buona evidenza sia nell’esergo (“Vada ciascuno in traccia di colui che è nell’ombra”, ma di questa ombra ne parleremo oltre) sia in due righe che si leggono nella prima pagina: <<Era un’altra Italia – era un altro mondo. E a descriverlo oggi, è difficile crederlo>>. L’altra Italia sono gli anni Trenta (<<quando ancora esistevano un Re divenuto Re Imperatore e una Consulta Araldica, e un nuovo Impero, benché in cartapesta>>). L’altro mondo, o meglio il mondo altro, è il mondo dell’anima, la terra natìa intesa come luogo in cui lo spirito si è formato, il focolare dei ricordi dove brillano le ultime faville di un mondo arcaico e fiabesco. Questa patria delle radici è il Friuli, e innominato scenario della vicenda è un borgo contadino. Là sorge, collinosa e inquieta, una villa nobiliare, dove i fatti del romanzo hanno il loro inizio, con una data da calendario (il 12 ottobre 1937: vano sfruculiare internet, nulla di memorabile accadde quel giorno) e avranno un loro epilogo ai nostri giorni, con una farsesca palingenesi. C’è da dissentire, e felicemente, con l’autore quando protesta la difficoltà di credere oggi nella rappresentazione che si può dare di quel piccolo mondo antico: al contrario, esso rivive in pagine di memorabile incanto. Qualche esempio:
<<(…)chi viveva fra mare e paludi mentre affondava il piede nell’umido spessore dei càrici sentiva di avanzare verso le età quando fiumi e mari erano un’acqua sola e gli antichi dèi camminavano fra i boschi e, chiuso in quell’orizzonte che sapeva avvolgerti, e confonderti, e smemorarti, sapeva dove correvano le nuvole e gli stormi di germani: alle alte vette innevate, dove l’anima soffre meno l’esilio(…)>>.
<<Sin da ragazzo, vagando per i colli boscosi, il mio Plutarco in saccoccia, prestavo ascolto al vento e al silenzio, e nella dolcezza del digradare del verde all’ora che il cuculo canta lontano, e il suo canto risuona da un colle all’altro, alto oltre il seno della valle, e gli armenti ruminano laboriosi all’ombra di un folto, e un lieve incresparsi dell’aria pare l’antica voce segreta dell’eterno Pan(…)>>.
Pronubi la memoria e la nostalgia verso un mondo (<<bello e per sempre perduto… ricco nella sua povertà>>) e una società colti nel loro tramonto, prima che ne andassero smarrite rettitudine e autenticità, la lingua di Hans Tuzzi si dispiega in tutta la sua bellezza elegiaca. Il libro è prodigo di brani come quelli appena citati, e lasciamo ai lettori la felicità di scoprirne altri.
Nonostante l’autore faccia dire a un personaggio del romanzo che Pasolini non gli piace, l’ambientazione friulana della storia, gli ampi scorci dedicati al mondo contadino, i frequenti inserti dialettali rendono inevitabile l’accostamento al poeta di Casarsa, quantomeno nel sentimento di doglianza e di indignazione (si veda il furore dialettico nel capitolo che chiude il romanzo) per la frattura dissipativa e volgare del “moderno” rispetto alla schiettezza e nobiltà dell’”antico”. La distanza da Pasolini è tuttavia altrettanto evidente, e consiste nel valore assegnato al tempo perduto: se lo sguardo di entrambi è affisso al mondo contadino, quello di Pasolini fu antropologico e politico, metafora e filo rosso del suo pensiero protestante. La ruralità friulana evocata in questo romanzo da Hans Tuzzi è invece assente, o del tutto incidentale, nella sua precedente e nutrita bibliografia. Non le è consustanziale. Posto che Colui che è nell’ombra non risulta ispirato a vicende storiche, la predilezione del Friuli come inedito (per il nostro autore) spazio dell’azione romanzesca sembra dettata più da un’urgenza biografica che da una necessità geografica dell’invenzione. Se tuttavia il debito di ricordi prevale sulla toponomastica, la terra di formazione ha una “resa” arcaica e numinosa che rende incerto il confine fra la necessità e l’invenzione. La magia dell’infanzia e della nascente coscienza dell’uomo-narratore (fosse pure la voce narrante) si è realizzata in “quel” luogo e non in un altro. Il Friuli diviene allora il focolare dell’anima (l’intraducibile heimat dei tedeschi), la toponomastica del ricordo, cantato con lirica partecipazione da un brano rivelatore della speciale affezione dell’autore per l’età del mito, aurorale provvidenza, Eden pagano da cui l’uomo si è separato:
<<La pietra della mia terra, le pietre: eterne, potenti, contemporanee a ogni età perché racchiudono l’anima del mondo, ne sono la gran madre, sogni degli dèi, non donne né eroi, ma qualcosa di più antico, di precedente le donne e gli eroi, dèmoni primevi, prototipi di umanità che la Natura, trovandoli troppo smisurati, ha abbandonato nel sonno degli evi antichi>>.
Che il Friuli sia o meno un’occasione narrativa, si ravvisa con la sua antecedente produzione il punto di continuità: il concetto di “svilimento della grammatica di una civiltà”, espressione molto cara al nostro. Il tema dell’italico declino morale permea, infatti, Colui che è nell’ombra e ne sostanzia l’ultima parte. E si può anzi dire che, pur senza invadere le esigenze della fantasia e della lingua, tale questione, il nostro presente degrado politico e civile, già delineata lungo la serie delle indagini del commissario Melis (2002-2022) e non estranea a Vanagloria (2012), trova qui una sua compiuta enunciazione, come se vi si adempisse a un dovere e si presentasse il conto di un’idea.
Il libro narra le vicende di quattro generazioni di nobili (dal 1937, anno fondativo della narrazione, sino a indeterminati tempi odierni), ciascuna con i suoi scorci d’ombra. Come fosca e con sprezzature gotiche è l’antica dimora di famiglia: una villa secentesca, dove ha luogo per gran parte la storia. La descrizione del palazzo è un pezzo di virtuosismo: oltre a sapienti pennellate di scuro (<<… di notte, nelle notti senza luna, quando le ombre degli alberi correvano lungo la via bianca, e voci misteriose ne percorrevano le fronde, allora la villa, in alto, visibile dopo la penultima curva, appariva davvero pallida come il volto di un morto>>), lo scrittore ci restituisce in poche righe la cupezza dell’edificio, con un lessico allo stesso tempo preciso e immaginifico, accompagnando all’aggettivazione lirica una prosa denotativa, a tratti quasi “tecnica”:
<< …un rettangolo di due piani alti ciascuno quasi quattro metri. La facciata contava due ordini di sette finestre perfettamente simmetriche. All’imponente e severa solennità della struttura esterna l’ampio loggiato centrale scandito da quattro colonne doppie aggiungeva un ulteriore asse di simmetria poiché su di esso poggiava una balconata che si estendeva lungo le tre finestre centrali e in corrispondenza con esso si elevava, dal secondo piano del corpo centrale, in asse con la balconata, una torre a timpano con al centro, in rilievo, lo stemma di famiglia…>>.
(E vien fatto di pensare alla rapsodica querelle sulla indolenza e sulla spocchia che affliggerebbero gli scrittori quando si tratta di soffermarsi sui manufatti e sulla tecnologia, ovvero di narrare la pragmatica dei dettagli e degli ingranaggi. Ma questa è roba per grandi critici…)
Ai lettori storici di Hans Tuzzi non sfuggirà, già dalle prima pagine di Colui che è nell’ombra, il possibile parallelo con Città di mare con nebbia (2015). Contigua è l’atmosfera di tenebre, diversa è tuttavia la riuscita timbrica: espressionista e immaginifico questo, senza obbligo di realtà; fosco ma incardinato negli eventi storici quello. Salvo due camei di gotico e sapiente bulino: l’infernale figura del “conte Folle“ e il misterioso suicidio della contessa Eleonora. Rimane per entrambi i titoli la fratellanza della lingua alta, che in Colui che è nell’ombra, per effetto del velo nostalgico, vira felicemente verso il lirismo.
Il romanzo si apre con una scena icastica: il conte Costanzo Avogadro, capitano di cavalleria, tornato in licenza dal suolo etiope, si trova dinnanzi il primogenito neonato. Invece di abbracciarlo con cura paterna rivolge all’infante <<uno sguardo di azzurra fermezza distillata da secoli di sangue blu. Uno sguardo spietato sulla natura profonda dell’animale uomo che ha poi attraversato il suo [del padre] intero, breve percorso terreno>>. Sarà il primo anello di una sotterranea lotta di potere fra padri e figli che vedrà coinvolte quattro generazioni, sino al drammatico epilogo, quando si consumerà il lento processo di erosione di una classe sociale a cui la storia ha voltato le spalle, e che con la storia, ovvero con l’aspetto più gaglioffo e reazionario della società italiana di questi nostri ultimi anni, l’ultimo degli Avogadro deciderà di contaminarsi. A sprezzo del vanto di separatezza della stirpe aristocratica dalla canea del soldo borghese e politicante. Così il lettore si spiegherà l’algida accoglienza che il conte Costanzo aveva riservato al suo primogenito (che peraltro lo ricambierà di simmetrica disaffezione), avendo intuito che era il primo pollone della decadenza. È soprattutto attorno a questo Cesare (che genererà un Curzio, che darà vita a sua volta a un Costanzo neonazista, chiudendo il cerchio con la logica degli opposti) che il romanzo prospera di felici invenzioni narrative, popolandosi di personaggi collaterali, sapidi e indimenticabili: Cussistà, un colosso reduce del Vajont, e da allora votato all’accudimento; Adair Macnab, uno scozzese delle terre alte, <<forse non vecchio ma senza età>>, gran conoscitore di cani, in fuga da una colpa antica; Genj di Nutte, seminarista, poi partigiano, poi prete e missionario; un cane eroico e persino un mansueto leone. E segnaliamo al lettore in pectore di questo libro anche una memorabile descrizione di una caccia alla volpe, patetica e cafona imitazione di una nobiltà svanita. La lunga descrizione della scena è un pezzo di ispirato virtuosismo linguistico.
E come sempre, nella bottega di Hans Tuzzi non mancano i tòpoi di conversazioni colte (si veda la disputa sul carattere delle lingue fra il conte Costanzo e un ambasciatore ospite), di note fulminanti, di incisi sapienziali, di simposi e passeggiate colte (ciò che l’autore stesso riassume con una bella locuzione come <<certe affascinanti ragioni di meditazione>>); e di quell’inserto comico, mai assente, con il quale asciuga d’improvviso quelle virgiliane lacrymae rerum a cui Tuzzi discretamente accenna in tutta la sua opera, e per pudore sempre tace. E quando, appunto, gli prende la malinconia del mondo, celia: qui racconta di un prelato che <<…pensò che nominare il pelo, e in relazione alla carità, che è femminile, e squisitamente umana, e dunque dagli artisti rappresentata da donna che per natura il pelo lo ha solamente….nominare il pelo non confaceva a un innocente>>.
La voce narrante del romanzo è quella di un giovane, Ménico, che diverrà amministratore della proprietà degli Avogadro. Il conte Costanzo, giudicando imminente la guerra e presentendo la sua morte, gli intima un giuramento: che continui a vegliare sulla casa e di <<restare per sempre vicino alla mia famiglia. Capisci? Per sempre! Giura!>>. Sarà questo “per sempre” che consentirà a Menico di continuare a narrare la sorte degli Avogadro e della loro dimora oltre i confini biografici che gli sarebbero consentiti. Il conte Costanzo esigerà che si sottoscriva fra loro anche un patto sovrumano: <<chi di noi primo trapasserà il confine tra ciò che chiamiamo Vita e ciò che chiamiamo Morte, il secondo giorno di novembre successivo alla dipartita, essendo esso il giorno della festività dei Defunti, allorché incerti si fanno i confini e i varchi sono aperti, egli, Corporeo o Incorporeo, comparirà allo Stipulante sopravvissuto per rivelargli il mistero che tutti ci attende>>. Lasciamo ai lettori di sapere se questo avverrà o meno, e sotto quale fattispecie. Resta singolare l’artificio narrativo di concedere alla stessa voce narrante di un vivo di continuare a raccontare ciò che accadrà dopo la sua morte cosicché, morendo all’autore, dà all’autore la libertà di muoversi e trapassare i muri dello spazio e del tempo della narrazione.
Ma chi è Colui che è nell’ombra, come recita il titolo dell’opera? È il tenebroso committente di un esoterico gioco divinatorio che si nasconde nei simboli di un mazzo di dieci carte di sapienziale fattura? E quale Ombra lo cela? O forse che il Male, come Ménico intuisce in un sogno, non è allo stesso tempo la persona e la cosa che la abita? Il soggetto, che reclama la cerca di Colui, è egli stesso Colui, nonché egli stesso l’inconsapevole ricetto, cioè l’Ombra, della delittuosa sostanza che si è insinuata sin dall’inizio dei tempi nella nostra coscienza. Di fronte alla vastità di una simile questione e alla sua occulta pervasività nella vita individuale e nella Storia, la letteratura può metterne in scena l‘inquietudine, bisbigliare suggestioni e indizi, come Mènico in un suo caliginoso sogno (di sogni ne farà due, uno da vivo e uno da morto):
<<E io adesso intuivo cos’era il Male: era un’ombra, una macchia dalla quale non potevi non essere contaminato. Vittima o oppositore, entrava in te, era in te, ti costringeva a pensarlo, a saperlo presente, a scendere sul suo terreno. E il suo segno era una cupa, indefinita paura>>.
La paura che nessuno possa dirsi innocente sino in fondo (“Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi ti potrà resistere?”, già declamava il salmista) afferra anche Ménico, con uno sgomento cosmico:
<<Quali animali strisciavano, correvano, volavano in quella notte? Una preghiera contro l’oscurità? Dov’era Dio, in quell’ora? Dove, oltre il buio? Chi difendeva la Casa della Vita? Chi la minacciava?>>.
La risposta che si dà Ménico è il ritorno alla deità classica:
<<No, non mi sovvenne una preghiera al mio Dio, ma i versi venerandi di un pagano: “Verso la metà della notte, quando i cani e gli uccelli tacciono, allora l’uomo memore degli antichi riti, l’uomo che teme gli dèi…”. L’uomo timorato… gli antichi riti…>>,
in assoluta coerenza con la postura linguistica dell’autore, profondamente (e pensiamo orgogliosamente) debitore alla letteratura classica, evidente nella nitida bellezza della frase e nel suono apollineo che illuminano molte pagine di questo Colui, più e meglio di altri suoi precedenti romanzi, essendone questo una sorta di summa.
Né si può trascurare una più alta e definitiva questione che Ménico, voce narrante dall’aldilà, come si è detto, per causa di una promessa e di una carta destinale, rivolge a sé stesso in un soliloquio in cui si danno convegno, fra molti altri, con lampi di parole, il greco dell’eterno ritorno delle cose (per il quale pensiamo che Tuzzi parteggi), Kant, Pascal, Ivan Karamazov… Vale la pena di riportarlo almeno in parte.
<<E questa immensa Potenza, questo Uno che può far così tanto, come può tollerare il Male, la fame, la malattia, la morte, la sofferenza dell’innocente, del bambino infilzato su una picca, del cucciolo straziato dallo sciacallo? La risposta è una sola: quest’Uno non ha né Bene né Male, è solamente fluire di vite, senza premio o pena che non sia su questa terra, paradiso dei forti, dei violenti. Ma, se così fosse, perché sono qui?>>.
Si capisce che Tuzzi cerca un redde rationem del suo pensiero di uomo, oltre che di letterato, lavorìo inaugurato, con accenti più brillanti, in Vanagloria (2012) e proseguito, più meditabondo, con Nessuno rivede Itaca (2020) e Ma cos’è questo nulla? (2022).
Anche in questo suo romanzo, Hans Tuzzi si concede volentieri al lessico prezioso, più che in altre sue opere: aucupario, cacume, sollo, schidionato, navalestro, sfaglio, matreggiare eccetera, hanno qui una maliziosa ragione, ovvero quella di antergare, se così si può dire, la cronologia del linguaggio, marezzando la narrazione di termini consonanti con i tempi che vengono narrati. Ciò che si potrebbe altrimenti definire “mimetismo linguistico”, se non fosse che l’autore si contiene nel pigiare il pedale del desueto per non appesantire la fluidità del racconto e non scivolare nel dandismo lessicale. Ma se qualcosa abbiamo compreso leggendo le opere di Tuzzi, c’è anche una sottintesa ragione politico-letteraria nell’uso del vocabolo tramontato: la rivolta contro la disarmante sciatteria della prosa di molti contemporanei.
Si ritrovano in questo romanzo tutti i temi delle altre opere che l’hanno preceduto, quali la poetica, la postura narrativa, il vagabondaggio erudito, il lirismo, il celato sentimento del sole che “risplende sulle sciagure umane”, lo sguardo corrosivo e impotente sulla decadenza e la volgarità dei costumi, la filosofia della storia incarnata nel contrasto delle generazioni. Ma è soprattutto nella lingua che Hans Tuzzi attinge qui il punto più alto della sua produzione: preziosa ed esatta, potente e fascinosa, ordita con la filigrana dei grandi classici, incantevole e a tratti numinosa, essa ci appare, nel presente della nostra letteratura, quasi unica e ultimativa. Anche per questo aspetto, Colui che è nell’ombra si rivela essere il compendio di questo singolare scrittore, silenziosamente protestante, (et pour cause trascurato dai grandi premi), certamente il suo capolavoro. E, quasi fosse un’opera prima, si attende un’opera seconda, per confermarne la grandezza.
Di Alberto Genovese su tuttatoscanalibri:
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