Monique Watteau “La collera verde”, Agenzia Alcatraz

Per la prima volta tradotto in italiano l’acclamato esordio del 1954 di una delle scrittrici più originali del fantastico belga.

Traduzione di Camilla Scarpa

Introduzione di Isabelle Moreels

Collana: Bizarre, Agenzia Alcatraz

In libreria 22 Luglio 2025

Alle porte di un tempio sull’isola di Bali, l’avventuriero francese Mara incontra una giovane donna di cui si innamora perdutamente, ricambiato. La porta quindi con sé a Maupertuis, la propria casa sull’Île du Levant, ma ben presto qualcosa trasformerà il loro idillio in un incubo…
Dalla penna dell’allora venticinquenne Monique Watteau, e per la prima volta tradotto in italiano, un folgorante romanzo d’esordio che la critica dell’epoca ha definito alfiere di «una nuova via al fantastico»: uno sguardo femminile evocativo, venato di erotismo e caratterizzato da un’elegante ricerca estetica.
«Riuscite a immaginare che alberi, erbe, fiori, alghe, insomma tutte le piante, possano un giorno ribellarsi all’uomo e diventare ai suoi occhi dei mostri, la personificazione del male? È possibile che una giovane donna possa diventare l’oggetto dei loro desideri, la vittima della loro rivolta? Ma quando le piante diventano demoni, la realtà non è che un’illusione, l’amore non è che un’illusione. E allora tutto è malvagità, inquietudine e sortilegio».

Dall’introduzione:
«Secondo il critico Albert-Marie Schmidt, Watteau avrebbe inventato una «nuova via al fantastico» (…) Questa donna anticonformista ha ripercorso le tappe della sua straordinaria carriera in “Testament d’une Fée”, un libro pubblicato nel 2002 in cui fa un bilancio di quello che considera il suo “viaggio iniziatico”. In esso si sofferma in particolare sulla sua lunga e intensa storia d’amore con Yul Brynner negli anni Sessanta, nel periodo tra il divorzio da Bernard Heuvelmans – con il quale ha comunque mantenuto una inscalfibile amicizia fino alla di lui morte – e il secondo matrimonio. Fu proprio il famoso attore americano a darle l’affettuoso soprannome gitano Alika (che significa “piccola gatta”), che la scrittrice e pittrice mantenne per firmare le pro­prie opere al posto del suo nome di battesimo Monique.  Naturalmente Alika Lindbergh, la cui meraviglia per la na­tura si era manifestata in giovane età nell’espressione di un panteismo visionario, in seguito non avrebbe più affrontato il rapporto conflittuale con il mondo delle piante dalla medesi­ma prospettiva usata ne “La collera verde”. Ormai fervente pa­ladina della natura, non l’avrebbe più mostrata come perico­losa e pervasa da una furia punitiva, con l’interrogativo finale se l’amore umano possa trionfare sulla gelosia degli déi verdi trasformati in demoni. Ma a 70 anni dalla sua prima pub­blicazione, questo romanzo insolito, permeato di erotismo, conserva la sua freschezza e originalità. I lettori contemporanei di lingua italiana, che finora dell’autrice belga hanno potuto leggere nella loro lingua solo il saggio “Scimmie come noi. Vita con le scimmie urlatrici”, saranno catturati dal talento narrativo di Monique Watteau tanto quanto i francofoni della metà del Ventesimo Secolo. Al di là della trama del romanzo, potranno anche riflettere sul nostro delicato rapporto con l’ambiente, in un momento in cui la crisi ecologica è un argomento sempre più al centro dell’attenzione. E, grazie all’ottima iniziativa di questa versione italiana, senza dubbio non guarderanno mai più allo stesso modo la maestosa statura di un cedro o il pro­fumo di una rosa delicata»

Monique Watteau è stato il primo pseudonimo della poliedrica artista belga Monique Dubois, nata a Liegi il 23 dicembre 1929 e oggi meglio nota con il nome di Alika Lindbergh. Dopo aver studiato pittura all’Académie Royale des Beaux-arts e teatro al Conservatoire Royal di Liegi, si trasferisce appena ventenne a Parigi, dove intraprende la carriera di attrice, modella e scrittrice. Tra il 1954 e il 1962 scrive quattro romanzi, diventando in breve tempo una delle voci più innovative e particolari del fantastico francofono dell’epoca, grazie alla forte espressività e sensualità dei suoi lavori e all’inserimento di tematiche ecologiste, femminili e spirituali stemperate con un tocco di surrealismo. Dal 1963 abbandona quasi completamente la scrittura e diventa una pittrice a tempo pieno (sono famose le sue illustrazioni nel campo della criptozoologia), attività che accompagna a una strenua militanza animalista ed ecologista che non è mai venuta meno. Il suo ultimo libro, l’autobiografia Le Testament d’une Fée, è stato pubblicato nel 2002 dopo un silenzio editoriale durato quasi trent’anni.

Ethel Mannin “La strada per Be’er Sheva”, Agenzia Alcatraz

Tradotto in italiano il primo romanzo che nel 1963 ha raccontato la nakba, l’esodo forzato del 1948, dal punto di vista palestinese.

Traduzione di Stefania Renzetti

Postfazione di Tiffany Vecchietti

Alcatraz

È il 15 luglio 1948 e in Medio Oriente infuria il confliitto arabo-israeliano. Le truppe delle Forze di Difesa Israeliane occupano la città palestinese di Lidda e iniziano a uccidere o espellere la popolazione araba, causando l’esodo di un numero enorme di persone – in larga parte donne, anziani e bambini – costrette a camminare sotto un sole cocente sino alla città di Ramallah, in Cisgiordania.
In migliaia muoiono di insolazione, affaticamento e sete. Tra le persone che fuggono da Lidda c’è la famiglia di Butros Mansour, un proprietario terriero palestinese di fede cristiana, costretto a scappare insieme a sua moglie di origine inglese e al figlio di dodici anni, Anton.
Questa tremenda esperienza segna profondamente il ragazzo, che alla morte del padre, solo un anno più tardi, è costretto a trasferirsi in Inghilterra. Per Anton vivere in Inghilterra equivale a un vero e proprio esilio. Ma rimane in contatto con un’altra vittima della diaspora palestinese, un profugo musulmano a cui è molto legato, e nella sua mente prende vita una vera e propria ossessione: riuscire a tornare nella propria terra per infilltrarsi lungo la strada per la città di Be’er Sheva, anch’essa caduta in mano israeliana nel 1948, e unirsi alla resistenza. Per lui quella strada, che ora si trova nella Terra di Nessuno, finisce per incarnare il sogno di ogni palestinese – ritornare a casa. 
Scritto come reazione al celebre Exodus di Leon Uris (una sorta di narrazione epica della fondazione dello Stato di Israele) e pubblicato nel 1963, La strada per Be’er Sheva è stato il primo romanzo occidentale in assoluto a raccontare dal punto di vista palestinese la Nakba, la pulizia etnica operata dalle milizie sioniste nel 1948 e il conseguente esodo. Tradotto anche in lingua araba con grande successo, all’epoca della sua uscita è diventato un piccolo caso, tanto letterario quanto politico. Ma La strada per Be’er Sheva è prima di tutto un racconto emozionante, una vicenda umana scritta con grande maestria da un’autrice perfettamente a suo agio nel padroneggiare una materia che non ha mai smesso di essere scottante. E grazie alla passione umanitaria e al desiderio di giustizia che traspaiono dalle sue pagine, riesce a essere attuale ancora oggi, a più di sessant’anni dall’uscita, in questo momento terribile per il popolo palestinese.

La sincerità e l’empatia di Ethel Mannin guidano la narrazione. Non lo fanno attraverso il patetismo, o tramite gli strumenti del melodramma. La strada per Be’er Sheva sembra quasi trattenersi continuamente, situarsi in uno spazio ben de­finito, in equilibrio, con una certa dose di freddezza. Mannin sa che potrebbero accusarla dei crimini letterari qui sopraelencati. Ma non serve infondere di eccessiva emotività quello che ha raccolto tramite le interviste nei campi profughi o dai rifugiati che ha incontrato. La sua sincerità è talmente spiazzante, che compie tutto il lavoro. È la resistenza delle pietre scagliate contro chi ti schiaccia la gabbia toracica col carrarmato. Non serve aggiungere molto quando una fotogra­fia, un resoconto o un ­ filmato rivelano tutto. È la stasi che accompagna la polvere mentre si posa. (dalla postfazione di Tiffany Vecchietti)

Autrice estremamente prolifica, Ethel Mannin nasce a Londra nel 1900 e nel corso della propria vita scrive più di cento libri – oltre cinquanta romanzi, innumerevoli racconti, autobiografie e, diari di viaggio e saggi – senza mai preoccuparsi di seguire un determinato filone letterario, ma anzi muovendosi con notevole mestiere ed eleganza attraverso i generi. Esordisce nel 1923 e pressoché da subito si fa notare per il proprio impegno politico: è infatti sin da giovanissima un’attivista vicina a idee anarchiche e socialiste, fortemente anti-monarchica, femminista e antifascista, e queste inclinazioni non mancano di emergere, in maniera più o meno esplicita, in quasi tutto ciò che scrive. Viene a mancare nel dicembre del 1984, tenendo vivo sino all’ultimo istante lo spirito combattivo e anticonformista che l’ha sempre caratterizzata.
Nella collana Bizarre, Agenzia Alcatraz ha pubblicato il suo capolavoro gotico del 1944, Lucifero e la bambina.