Alberto Moravia “La noia” recensione di Federica Zani

 

Il romanzo La noia, pubblicato nel 1960, è costruito attorno ad uno dei punti forti della scrittura di Moravia: l’analisi psicologica di persone sgradevoli. Il protagonista, che parla in prima persona, è Dino, un pittore, che fin da subito si segnala per il carattere indisponente e altero. Racconta infatti che ogni cosa, dopo un po’, finisce per procurargli una noia senza rimedio. Non è semplice mancanza di divertimento: si tratta invece di una condizione esistenziale di distacco dalla realtà, in cui le cose gli appaiono, dice, come fiori che passano in pochi secondi dallo sboccio all’appassimento e alla polvere.Ritiene che la causa prima della sua noia sia la ricchezza della famiglia, e ha parole di disprezzo per la madre; però, non rinuncia allo stipendietto mensile che lei gli passa. La pittura, il mestiere in cui aveva cercato una via di fuga, non ha mai reso molto; oltretutto, ha ormai smesso di dipingere, sopraffatto dall’assurda incapacità della realtà di dimostrargli la propria effettiva esistenza.
Dino detesta la noia che avvelena la sua vita, ma non vuole veramente liberarsene. L’incontro con l’enigmatica Cecilia, l’ex-musa e amante di un (poco stimato) collega pittore, minaccia la sua persistenza in quello stato di tedio insopportabile ma a modo suo confortevole. Di fronte a qualcosa che non comprende e di cui non riesce ad annoiarsi, la sua reazione è distruttiva: vuole dimostrare che la ragazza non vale niente, e cerca di degradarla attraverso il sesso e il denaro. Eppure questa Cecilia che lo fa
disperare non ha, in apparenza, nulla di speciale. Non ha personalità e carattere, si esprime in un linguaggio piatto e incolore e il suo comportamento è spesso prevedibile. Si rivelerà anche bugiarda ed egoista. Tuttavia, c’è in lei una qualità irriducibile di umanità e innocenza che impedisce a Dino dicompletare il suo progetto.
Nelle intenzioni di Moravia, Dino rappresenta la malattia morale di un’intera classe, quella borghese, che è in grado di intendere il rapporto con il mondo solo come possesso, ed è pronta a divenire violenta (come farà Dino con Cecilia) nei confronti di ciò che non si lascia comprendere nei suoi termini. E questo, nonostante il possesso non porti alcuna felicità, ma solo noia e senso di irrealtà. Lo scopo primario del romanzo, quindi, è documentare una patologia sociale e culturale, piuttosto che quello di far scaturire della bellezza dalla vicenda. C’è anzi un compiacimento della squallidità, compiacimento quasi terapeutico: Montale, nella sua recensione coeva pubblicata sul Corriere della Sera, parlò di “cartella clinica”. Il tono saggistico di molte parti e il linguaggio appesantito da formule ripetitive confermano la prevalenza, a volte esteticamente infelice, degli intenti descrittivi e teorici su quelli narrativi. La rivincita della storia sulla teoria astratta si ha però alla fine, quando si delinea per Dino una scappatoia dai paradossi della noia e della disperazione. La sua, si intende, è una guarigione solo individuale, quasi poetica: il personaggio si salva, ma nel mondo reale la malattia diagnosticata da Moravia è ancora virulenta e dannosa. Per questo il suo libro ha ancora oggi valore, anche se paradossalmente forse più come trattato morale che come romanzo.

Chi era Alberto Moravia
Il suo vero nome era Alberto Pincherle. Nacque nel 1907 a Roma in una famiglia dell’alta borghesia. A causa della salute precaria, non concluse neppure gli studi liceali, ma si formò una vasta cultura grazie alle sue letture individuali. La sua carriera letteraria iniziò nel 1929, con la pubblicazione del romanzo Gli indifferenti, precursore ideale de La noia. Divenne uno dei romanzieri più importanti nel panorama culturale italiano, occupandosi nel contempo anche di cinema, teatro e scrittura di viaggio. Fu sposato per più di vent’anni con la scrittrice Elsa Morante, da cui si separò nel 1962 per andare a vivere con Dacia Maraini. Si sposò poi una seconda volta con la scrittrice spagnola Carmen Llera. Morì, sempre a Roma, nel 1990.

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