Roberto Celestre “SALADINO. Il sovrano cavaliere”, Graphe.it

Saladino, figura leggendaria del XII secolo, ha lasciato un’impronta indelebile nella storia. Questo libro, scritto da Roberto Celestre e arricchito dalla traduzione della Cronaca di Ṣalāḥ al-Dīn di Ibn Khallikān, offre uno sguardo approfondito sulla sua vita e le sue imprese. Dalla riconquista di Gerusalemme allo scontro con Riccardo Cuor di Leone, Saladino continua a incarnare l’ideale del cavaliere perfetto. Una biografia che unisce passato e presente

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Salāh al-Dīn, noto come Saladino, è tra gli indiscussi protagonisti del XII secolo nello scacchiere mediorientale. La sua popolarità è ancor oggi senza eguali non soltanto nel mondo arabo, tanto da essere considerato vera incarnazione del cavaliere perfetto. Di origine curde, nacque a Tikrīt nel 1138. Si mise in mostra quando nel 1163 partecipò alla spedizione nell’Egitto fatimide al seguito dello zio Shīrkūh, comandante dell’esercito del sovrano zenjide Nūr al-Dīn, conclusasi nel 1169. Morto improvvisamente lo zio, Salāh al-Dīn divenne prima visir (primo ministro) d’Egitto, quindi nel 1171 pose fine al califfato fatimide del Cairo. Alla morte di Nūr al-Dīn (1174), seppe diventare l’unico fautore dell’unificazione dei territori musulmani ponendo Siria, Egitto, Yemen e Mesopotamia settentrionale sotto la propria autorità. Nel 1177 si dedicò alla riconquista dei territori di Siria e Palestina ancora in mano ai crociati, sbaragliando l’esercito il 4 luglio 1187 a Hattīn e riconquistando Gerusalemme il 2 ottobre. Nello scontro con Riccardo “Cuor di Leone”, alla guida della terza crociata, fu sconfitto ad Arsūf e siglò il trattato di pace il 2 settembre 1192. Pochi mesi dopo, il 4 marzo 1193, Salāh al-Dīn si spense nella sua amata Damasco.

Questa monografia si compone di un profilo biografico e della traduzione dall’arabo della Cronaca di Salāh al-Dīn tratta dal Wafayāt al-a’yān di Ibn Khallikān (m. 1282), proposta per la prima volta in lingua italiana.

ROBERTO CELESTRE è ricercatore indipendente laureato in Lingua e Letteratura Araba con indirizzo storico all’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Ha trascorso due anni al Cairo svolgendo corsi di specializzazione di storia islamica medievale in lingua araba alla Cairo University e ha frequentato le università di Ayn Shams (Cairo, Egitto) e Muhammad V (Rabat, Marocco). L’ambito di ricerca è la storia islamica medievale, con particolare attenzione alla storiografia araba contemporanea delle crociate e alla manualistica militare nell’Islam medievale. Relatore di Islamistica alla Facoltà Teologica “S. Bonaventura” (Roma) nel 2016, è socio dell’Istituto per l’Oriente “Carlo Alfonso Nallino” e di MESA (Middle East Studies Association). Ha curato e tradotto dall’arabo il trattato Consigli sugli stratagemmi di guerra (Il Melangolo, 2013) di al-Harawī, oltre ad aver pubblicato interventi su diverse pubblicazioni scientifiche del settore.

Hans Tuzzi, “Colui che è nell’ombra”, recensione di Alberto Genovese

“Varianti”, Torino, Bollati Boringhieri, 2024, br., 176 p., 16 €.

La poetica di questo romanzo, intendo il pensiero e la weltanschauung che sostanziano un’opera di narrativa, sta in buona evidenza sia nell’esergo (“Vada ciascuno in traccia di colui che è nell’ombra”, ma di questa ombra ne parleremo oltre) sia in due righe che si leggono nella prima pagina: <<Era un’altra Italia – era un altro mondo. E a descriverlo oggi, è difficile crederlo>>. L’altra Italia sono gli anni Trenta (<<quando ancora esistevano un Re divenuto Re Imperatore e una Consulta Araldica, e un nuovo Impero, benché in cartapesta>>). L’altro mondo, o meglio il mondo altro, è il mondo dell’anima, la terra natìa intesa come luogo in cui lo spirito si è formato, il focolare dei ricordi dove brillano le ultime faville di un mondo arcaico e fiabesco. Questa patria delle radici è il Friuli, e innominato scenario della vicenda è un borgo contadino. Là sorge, collinosa e inquieta, una villa nobiliare, dove i fatti del romanzo hanno il loro inizio, con una data da calendario (il 12 ottobre 1937: vano sfruculiare internet, nulla di memorabile accadde quel giorno) e avranno un loro epilogo ai nostri giorni, con una farsesca palingenesi. C’è da dissentire, e felicemente, con l’autore quando protesta la difficoltà di credere oggi nella rappresentazione che si può dare di quel piccolo mondo antico: al contrario, esso rivive in pagine di memorabile incanto. Qualche esempio:

<<(…)chi viveva fra mare e paludi mentre affondava il piede nell’umido spessore dei càrici sentiva di avanzare verso le età quando fiumi e mari erano un’acqua sola e gli antichi dèi camminavano fra i boschi e, chiuso in quell’orizzonte che sapeva avvolgerti, e confonderti, e smemorarti, sapeva dove correvano le nuvole e gli stormi di germani: alle alte vette innevate, dove l’anima soffre meno l’esilio(…)>>.

<<Sin da ragazzo, vagando per i colli boscosi, il mio Plutarco in saccoccia, prestavo ascolto al vento e al silenzio, e nella dolcezza del digradare del verde all’ora che il cuculo canta lontano, e il suo canto     risuona da un colle all’altro, alto oltre il seno della valle, e gli armenti ruminano laboriosi all’ombra  di un folto, e un lieve incresparsi dell’aria pare l’antica voce segreta dell’eterno Pan(…)>>. 

Pronubi la memoria e la nostalgia verso un mondo (<<bello e per sempre perduto… ricco nella sua povertà>>) e una società colti nel loro tramonto, prima che ne andassero smarrite rettitudine e autenticità, la lingua di Hans Tuzzi si dispiega in tutta la sua bellezza elegiaca. Il libro è prodigo di brani come quelli appena citati, e lasciamo ai lettori la felicità di scoprirne altri.
Nonostante l’autore faccia dire a un personaggio del romanzo che Pasolini non gli piace, l’ambientazione friulana della storia, gli ampi scorci dedicati al mondo contadino, i frequenti inserti dialettali rendono inevitabile l’accostamento al poeta di Casarsa, quantomeno nel sentimento di doglianza e di indignazione (si veda il furore dialettico nel capitolo che chiude il romanzo) per la frattura dissipativa e volgare del “moderno” rispetto alla schiettezza e nobiltà dell’”antico”. La distanza da Pasolini è tuttavia altrettanto evidente, e consiste nel valore assegnato al tempo perduto: se lo sguardo di entrambi è affisso al mondo contadino, quello di Pasolini fu antropologico e politico, metafora e filo rosso del suo pensiero protestante. La ruralità friulana evocata in questo romanzo da Hans Tuzzi è invece assente, o del tutto incidentale, nella sua precedente e nutrita bibliografia. Non le è consustanziale.  Posto che Colui che è nell’ombra non risulta ispirato a vicende storiche, la predilezione del Friuli come inedito (per il nostro autore) spazio dell’azione romanzesca sembra dettata più da un’urgenza biografica che da una necessità geografica dell’invenzione. Se tuttavia il debito di ricordi prevale sulla toponomastica, la terra di formazione ha una “resa” arcaica e numinosa che rende incerto il confine fra la necessità e l’invenzione. La magia dell’infanzia e della nascente coscienza dell’uomo-narratore (fosse pure la voce narrante) si è realizzata   in “quel” luogo e non in un altro. Il Friuli diviene allora il focolare dell’anima (l’intraducibile heimat dei tedeschi), la toponomastica del ricordo, cantato con lirica partecipazione da un brano rivelatore della speciale affezione dell’autore per l’età del mito, aurorale provvidenza, Eden pagano da cui l’uomo si è separato:

<<La pietra della mia terra, le pietre: eterne, potenti, contemporanee a ogni età perché racchiudono l’anima del mondo, ne sono la gran madre, sogni degli dèi, non donne né eroi, ma qualcosa di più antico, di precedente le donne e gli eroi, dèmoni primevi, prototipi di umanità che la Natura, trovandoli troppo smisurati, ha abbandonato nel sonno degli evi antichi>>.

Che il Friuli sia o meno un’occasione narrativa, si ravvisa con la sua antecedente produzione il punto di continuità: il concetto di “svilimento della grammatica di una civiltà”, espressione molto cara al nostro. Il tema dell’italico declino morale permea, infatti, Colui che è nell’ombra e ne sostanzia l’ultima parte. E si può anzi dire che, pur senza invadere le esigenze della fantasia e della lingua, tale questione, il nostro presente degrado politico e civile, già delineata lungo la serie delle indagini del commissario Melis (2002-2022) e non estranea a Vanagloria (2012), trova qui una sua compiuta enunciazione, come se vi si adempisse a un dovere e si presentasse il conto di un’idea.
Il libro narra le vicende di quattro generazioni di nobili (dal 1937, anno fondativo della narrazione, sino a indeterminati tempi odierni), ciascuna con i suoi scorci d’ombra. Come fosca e con sprezzature gotiche è l’antica dimora di famiglia: una villa secentesca, dove ha luogo per gran parte la storia. La descrizione del palazzo è un pezzo di virtuosismo: oltre a sapienti pennellate di scuro (<<… di notte, nelle notti senza luna, quando le ombre degli alberi correvano lungo la via bianca, e voci misteriose ne percorrevano le fronde, allora la villa, in alto, visibile dopo la penultima curva, appariva davvero pallida come il volto di un morto>>), lo scrittore ci restituisce in poche righe la cupezza dell’edificio, con un lessico allo stesso tempo preciso e immaginifico, accompagnando all’aggettivazione lirica una prosa denotativa, a tratti quasi “tecnica”:

    << …un rettangolo di due piani alti ciascuno quasi quattro metri. La facciata contava due ordini di sette finestre perfettamente simmetriche. All’imponente e severa solennità della struttura esterna l’ampio loggiato centrale scandito da quattro colonne doppie aggiungeva un ulteriore asse di simmetria poiché su di esso poggiava una balconata che si estendeva lungo le tre finestre centrali e in corrispondenza con esso si elevava, dal secondo piano del corpo centrale, in asse con la balconata, una torre a timpano con al centro, in rilievo, lo stemma di famiglia…>>. 

(E vien fatto di pensare alla rapsodica querelle sulla indolenza e sulla spocchia che affliggerebbero gli scrittori quando si tratta di soffermarsi sui manufatti e sulla tecnologia, ovvero di narrare la pragmatica dei dettagli e degli ingranaggi. Ma questa è roba per grandi critici…)
Ai lettori storici di Hans Tuzzi non sfuggirà, già dalle prima pagine di Colui che è nell’ombra, il possibile parallelo con Città di mare con nebbia (2015). Contigua è l’atmosfera di tenebre, diversa è tuttavia la riuscita timbrica: espressionista e immaginifico questo, senza obbligo di realtà; fosco ma incardinato negli eventi storici quello. Salvo due camei di gotico e sapiente bulino: l’infernale figura del “conte Folle“ e il misterioso suicidio della contessa Eleonora. Rimane per entrambi i titoli la fratellanza della lingua alta, che in Colui che è nell’ombra, per effetto del velo nostalgico, vira felicemente verso il lirismo.
Il romanzo si apre con una scena icastica: il conte Costanzo Avogadro, capitano di cavalleria, tornato in licenza dal suolo etiope, si trova dinnanzi il primogenito neonato. Invece di abbracciarlo con cura paterna rivolge all’infante <<uno sguardo di azzurra fermezza distillata da secoli di sangue blu. Uno sguardo spietato sulla natura profonda dell’animale uomo che ha poi attraversato il suo [del padre] intero, breve percorso terreno>>. Sarà il primo anello di una sotterranea lotta di potere fra padri e figli che vedrà coinvolte quattro generazioni, sino al drammatico epilogo, quando si consumerà il lento processo di erosione di una classe sociale a cui la storia ha voltato le spalle, e che con la storia, ovvero con l’aspetto più gaglioffo e reazionario della società italiana di questi nostri ultimi anni, l’ultimo degli Avogadro deciderà di contaminarsi. A sprezzo del vanto di separatezza della stirpe aristocratica dalla canea del soldo borghese e politicante. Così il lettore si spiegherà l’algida accoglienza che il conte Costanzo aveva riservato al suo primogenito (che peraltro lo ricambierà di simmetrica disaffezione), avendo intuito che era il primo pollone della decadenza. È soprattutto attorno a questo Cesare (che genererà un Curzio, che darà vita a sua volta a un Costanzo neonazista, chiudendo il cerchio con la logica degli opposti) che il romanzo prospera di felici invenzioni narrative, popolandosi di personaggi collaterali, sapidi e indimenticabili: Cussistà, un colosso reduce del Vajont, e da allora votato all’accudimento; Adair Macnab, uno scozzese delle terre alte, <<forse non vecchio ma senza età>>, gran conoscitore di cani, in fuga da una colpa antica; Genj di Nutte, seminarista, poi partigiano, poi prete e missionario; un cane eroico e persino un mansueto leone. E segnaliamo al lettore in pectore di questo libro anche una memorabile descrizione di una caccia alla volpe, patetica e cafona imitazione di una nobiltà svanita. La lunga descrizione della scena è un pezzo di ispirato virtuosismo linguistico.
E come sempre, nella bottega di Hans Tuzzi non mancano i tòpoi di conversazioni colte (si veda la disputa sul carattere delle lingue fra il conte Costanzo e un ambasciatore ospite), di note fulminanti, di incisi sapienziali, di simposi e passeggiate colte (ciò che l’autore stesso riassume con una bella locuzione come   <<certe affascinanti ragioni di meditazione>>); e di quell’inserto comico, mai assente,  con il quale asciuga d’improvviso quelle virgiliane lacrymae rerum a cui Tuzzi discretamente accenna in tutta la sua opera, e per pudore sempre tace. E quando, appunto, gli prende la malinconia del mondo, celia: qui racconta di un prelato che <<…pensò che nominare il pelo, e in relazione alla carità, che è femminile, e squisitamente umana, e dunque dagli artisti rappresentata da donna che per natura il pelo lo ha solamente….nominare il pelo non confaceva a un innocente>>.

La voce narrante del romanzo è quella di un giovane, Ménico, che diverrà amministratore della proprietà degli Avogadro. Il conte Costanzo, giudicando imminente la guerra e presentendo la sua morte, gli intima un giuramento: che continui a vegliare sulla casa e di <<restare per sempre vicino alla mia famiglia. Capisci? Per sempre! Giura!>>. Sarà questo “per sempre” che consentirà a Menico di continuare a narrare la sorte degli Avogadro e della loro dimora oltre i confini biografici che gli sarebbero consentiti. Il conte Costanzo esigerà che si sottoscriva fra loro anche un patto sovrumano: <<chi di noi primo trapasserà il confine tra ciò che chiamiamo Vita e ciò che chiamiamo Morte, il secondo giorno di novembre successivo alla dipartita, essendo esso il giorno della festività dei Defunti, allorché incerti si fanno i confini e i varchi sono aperti, egli, Corporeo o Incorporeo, comparirà allo Stipulante sopravvissuto per rivelargli il mistero che tutti ci attende>>. Lasciamo ai lettori di sapere se questo avverrà o meno, e sotto quale fattispecie. Resta singolare l’artificio narrativo di concedere alla stessa voce narrante di un vivo di continuare a raccontare ciò che accadrà dopo la sua morte cosicché, morendo all’autore, dà all’autore la libertà di muoversi e trapassare i muri dello spazio e del tempo della narrazione.
Ma chi è Colui che è nell’ombra, come recita il titolo dell’opera? È il tenebroso committente di un esoterico gioco divinatorio che si nasconde nei simboli di un mazzo di dieci carte di sapienziale fattura? E quale Ombra lo cela?  O forse che il Male, come Ménico intuisce in un sogno, non è allo stesso tempo la persona e la cosa che la abita?  Il soggetto, che reclama la cerca di Colui, è egli stesso Colui, nonché egli stesso l’inconsapevole ricetto, cioè l’Ombra, della delittuosa sostanza che si è insinuata sin dall’inizio dei tempi nella nostra coscienza. Di fronte alla vastità di una simile questione e alla sua occulta pervasività nella vita individuale e nella Storia, la letteratura può metterne in scena l‘inquietudine, bisbigliare suggestioni e indizi, come Mènico in un suo caliginoso sogno (di sogni ne farà due, uno da vivo e uno da morto):

<<E io adesso intuivo cos’era il Male: era un’ombra, una macchia dalla quale non potevi non essere contaminato. Vittima o oppositore, entrava in te, era in te, ti costringeva a pensarlo, a saperlo presente, a scendere sul suo terreno. E il suo segno era una cupa, indefinita paura>>.

La paura che nessuno possa dirsi innocente sino in fondo (“Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi ti potrà resistere?”, già declamava il salmista) afferra anche Ménico, con uno sgomento cosmico:

<<Quali animali strisciavano, correvano, volavano in quella notte? Una preghiera contro l’oscurità? Dov’era Dio, in quell’ora? Dove, oltre il buio? Chi difendeva la Casa della Vita? Chi la minacciava?>>.

La risposta che si dà Ménico è il ritorno alla deità classica:

<<No, non mi sovvenne una preghiera al mio Dio, ma i versi venerandi di un pagano: “Verso la metà della notte, quando i cani e gli uccelli tacciono, allora l’uomo memore degli antichi riti, l’uomo che teme gli dèi…”. L’uomo timorato… gli antichi riti…>>,

in assoluta coerenza con la postura linguistica dell’autore, profondamente (e pensiamo orgogliosamente) debitore alla letteratura classica, evidente nella nitida bellezza della frase e nel suono apollineo che illuminano molte pagine di questo Colui, più e meglio di altri suoi precedenti romanzi, essendone questo una sorta di summa.
Né si può trascurare una più alta e definitiva questione che Ménico, voce narrante dall’aldilà, come si è detto, per causa di una promessa e di una carta destinale, rivolge a sé stesso in un soliloquio in cui si danno convegno, fra molti altri, con lampi di parole, il greco dell’eterno ritorno delle cose (per il quale pensiamo che Tuzzi parteggi), Kant, Pascal, Ivan Karamazov… Vale la pena di riportarlo almeno in parte.

<<E questa immensa Potenza, questo Uno che può far così tanto, come può tollerare il Male, la fame, la malattia, la morte, la sofferenza dell’innocente, del bambino infilzato su una picca, del cucciolo straziato dallo sciacallo? La risposta è una sola: quest’Uno non ha né Bene né Male, è solamente fluire di vite, senza premio o pena che non sia su questa terra, paradiso dei forti, dei violenti. Ma, se così fosse, perché sono qui?>>.

Si capisce che Tuzzi cerca un redde rationem del suo pensiero di uomo, oltre che di letterato, lavorìo inaugurato, con accenti più brillanti, in Vanagloria (2012) e proseguito, più meditabondo, con Nessuno rivede Itaca (2020) e Ma cos’è questo nulla? (2022). 
Anche in questo suo romanzo, Hans Tuzzi si concede volentieri al lessico prezioso, più che in altre sue opere: aucupario, cacume, sollo, schidionato, navalestro, sfaglio, matreggiare eccetera, hanno qui una maliziosa ragione, ovvero quella di antergare, se così si può dire, la cronologia del linguaggio, marezzando la narrazione di termini consonanti con i tempi che vengono narrati. Ciò che si potrebbe altrimenti definire “mimetismo linguistico”, se non fosse che l’autore si contiene nel pigiare il pedale del desueto per non appesantire la fluidità del racconto e non scivolare nel dandismo lessicale. Ma se qualcosa abbiamo compreso leggendo le opere di Tuzzi, c’è anche una sottintesa ragione politico-letteraria nell’uso del vocabolo tramontato: la rivolta contro la disarmante sciatteria della prosa di molti contemporanei.
Si ritrovano in questo romanzo tutti i temi delle altre opere che l’hanno preceduto, quali la poetica, la postura narrativa, il vagabondaggio erudito, il lirismo, il celato sentimento del sole che “risplende sulle sciagure umane”, lo sguardo corrosivo e impotente sulla decadenza e la volgarità dei costumi, la filosofia della storia incarnata nel contrasto delle generazioni. Ma è soprattutto nella lingua che Hans Tuzzi attinge qui il punto più alto della sua produzione: preziosa ed esatta, potente e fascinosa, ordita con la filigrana dei grandi classici, incantevole e a tratti numinosa, essa ci appare, nel presente della nostra letteratura, quasi unica e ultimativa. Anche per questo aspetto, Colui che è nell’ombra si rivela essere il compendio di questo singolare scrittore, silenziosamente protestante, (et pour cause trascurato dai grandi premi), certamente il suo capolavoro. E, quasi fosse un’opera prima, si attende un’opera seconda, per confermarne la grandezza.

Di Alberto Genovese su tuttatoscanalibri:

L’alternativa del cavaliere

Le recensioni di Alberto Genovese

Omaggio a: Hans Tuzzi e l’ultimo Melis “Ma cos’è questo nulla?”

Un secolo di Proust (per tacer degli altri)

Stefania La Via “Persistenze. Parole, memorie frammenti”

Isabel Burton “Verso l’India 1879”, Lorenzo de’ Medici Press

Il viaggio di Isabel Burton dall’Inghilterra – attraverso l’Europa e l’Italia – verso l’India.
Una donna dell’età vittoriana che osserva con attenzione e spirito critico la realtà che la circonda

traduzione di Simona Bauzullo

Lorenzo de’ Medici Press

Per la prima volta in italiano, il diario di viaggio scritto da Isabel Burton nel viaggio compiuto assieme al marito, il celebre esploratore Richard Francis Burton, verso l’India. Un viaggio che è scoperta e osservazione, con la prosa avvincente di una donna dell’età vittoriana che osserva con attenzione e sagacia la realtà che la circonda. Durante tutta la narrazione, Isabel Burton appare libera anche nel linguaggio: il registro che adopera convoglia ogni stile di spontaneità ed è del tutto affine a una conversazione vis-à-vis tra persone comuni. La stesura del racconto non mira alla bellezza o al classicismo letterario, bensì all’immediatezza con cui intende fornire dati al lettore e lasciare che assorba i suoni, i profumi e l’atmosfera che vengono descritti in pagina nella maniera più diretta e concisa possibile.

Oltre agli aspetti pittoreschi e affascinanti del viaggio che attraversa Europa, Egitto e Arabia, il diario di Isabel Burton descrive a lungo anche il nord dell’Italia: Milano, Trieste e Venezia, osservate in un momento cruciale della storia italiana, a pochi anni dalla raggiunta unità nazionale. Messa in ombra dalla fama del marito, scopritore delle sorgenti del Nilo, Isabel Burton visse con lui per diversi anni a Trieste e, sempre insieme a lui, tradusse in inglese per la prima volta Le mille e una notte

«Nonostante tra gli anni ’30 e ’40 dell’Ottocento l’Inghilterra contasse un numero di cittadine di sesso femminile elevato e decisamente superiore a quello degli uomini, la maggior parte delle discipline erano rappresentate e destinate esclusivamente a questi ultimi e al contrario venivano precluse alle donne. La disparita di genere emerge in maniera piuttosto evidente in ogni ambito, incluso quello letterario, che vede le donne costrette a seguire la strada della rinuncia all’istruzione oppure a quella di mettere in pratica le proprie conoscenze attraverso la pubblicazione sui periodicals in forma anonima, senza ricevere cosi alcun credito. In alternativa, un coniuge appartenente a un particolare ceto o inserito in una disciplina scientifica rappresentava una vera e propria opportunità professionale per far fruttare l’ambizione di una donna che altresì non avrebbe avuto modo di realizzarsi nel concreto. Proprio in questo periodo storico, infatti, vengono pubblicati in maniera sempre più frequente volumi scritti “a due mani”, ovvero da uomini e donne, generalmente uniti in matrimonio. Isabel Burton aderisce parzialmente a questo nuovo iter letterario producendo testi scritti in maniera autonoma, ma revisionati o arricchiti dal marito. Tuttavia questa collaborazione attiva svanisce gradualmente, lasciando spazio e autonomia di scrittura all’autrice, la quale non manca in alcun modo di riportare in pagina lodi e storie riguardanti suo marito. Le opere letterarie prodotte dai coniugi in maniera individuale contengono infatti molti riferimenti reciproci e svelano l’autenticità del legame che li unisce, non solo per l’aspetto burocraticamente coniugale, ma relativo all’essenza più profonda delle loro anime. Sin dall’inizio della loro relazione, infatti, l’appartenenza alla dottrina anglicana di Burton lo poneva in una posizione più che scomoda per la famiglia cattolica Arundell, più che mai restia ad accettare una qualsiasi unione tra lui e Isabel. Il carattere determinato e audace di entrambi permise loro di superare ogni barriera sociale, religiosa o d’onore, guidandoli verso una cerimonia clandestina che li rese sposi e complici per la vita che condussero nel rispetto e nella stima reciproci. Pertanto, sin dagli esordi, Isabel e Richard Burton rivelano la loro singolarità come nucleo coniugale, ma anche dal punto di vista individuale. Decidendo di intraprendere una vita insieme a Richard, Isabel sceglie contemporaneamente di essere una fedele compagna di viaggio, pronta ad affrontare esplorazioni oltremare accuratamente dettagliate e destinate a un pubblico di lettori, orgogliosamente riportate in forma scritta solo ed esclusivamente da se stessa. Di queste esplorazioni fa parte anche quella descritta nelle pagine che seguono, avvenuta nel 1875 a fianco del suo fedele compagno di vita. Il viaggio in Arabia, Egitto e India fa crescere nell’autrice una nuova sensazione di meraviglia, che viene accuratamente riportata con tutti i suoni, i profumi, gli usi e i costumi che rivelano nuove identità e realtà, in alcuni punti del tutto estranee a quelle che erano le convenzioni sociali del XIX secolo. La novella esploratrice si inserisce all’interno del racconto in maniera concreta e descrive spesso di aver affrontato alcuni spostamenti da sola, mentre il marito era impegnato in altre attività legate a impegni di stampo intellettuale» (dall’introduzione di Simona Bauzullo).

Isabel Burton (1831-1896) sposò in giovane età l’esploratore Richard Francis Burton, suscitando polemiche per essere, lei cattolica, sposata a un anglicano. Ma la scelta fuori dagli schemi fu solo il via per una vita in cui, per Isabel Burton, superare i confini divenne una precisa impostazione di vita. Assieme al marito viaggiò in gran parte dell’Impero britannico, scoprendo mete come l’Arabia e l’India che ben di rado le donne della sua epoca potevano visitare. Nel 1875 pubblicò Inner Life of Syria, Palestine, and the Holy Land e nel 1879 seguì il racconto di viaggi Arabia, Egypt, India.

Paola Bonifacio “Alberto Martini. Ritratto segreto”, Graphe.it

Il romanzo verità sul grande artista che D’Annunzio chiamava “l’Alberto Martini dei Misteri”, visto attraverso gli occhi della donna che ne f u la più intima testimone, splendida modella e musa: la moglie Maria.

Graphe.it

Gabriele D’Annunzio, che ne ammirava le illustrazioni per la Divina Commedia e per i Racconti di Edgar Allan Poe, lo chiamava “Alberto Martini dei Misteri”. E misterioso, oltre che fascinosamente viveur, Martini lo era davvero. Nei ruggenti anni Venti, fu a lungo il ritrattista ufficiale della Marchesa Luisa Casati, l’indomita “opera d’arte vivente”, che ambiva a esibirsi nel Tetiteatro, sorprendente installazione sull’acqua inventata da Martini stesso. Quelli erano gli anni de La regina di Saba, dipinto che suggellava la scandalosa storia d’amore di Wally Toscanini ed Emanuele Castelbarco; e anche gli anni della tempestosa amicizia di Martini con Margherita Sarfatti, finita tra le incomprensioni, ma foriera di un nuovo, promettente inizio. 

In Alberto Martini. Ritratto segreto, Paola Bonifacio ripercorre la vita e l’opera dell’enigmatico e misogino artista opitergino, attraverso i ricordi della sua musa, modella e più fedele ammiratrice: la moglie Maria Petringa.

«La vita», aveva concluso Alberto ispirato, sollevando lo sguardo verso un punto indefinito sopra di lui, «è un sogno a occhi aperti e il sonno un sogno a occhi chiusi falsato dall’incubo della realtà. Per fortuna possiamo sognare a occhi aperti, e in questo tutti si consolano e si riconciliano con la catastrofica realtà… Così, mentre i veri artisti, veggenti divini, rendono sensibile agli uomini il sogno della vita e quello eterno della morte, nelle infinite forme dell’arte della poesia e della musica, gli artisti inferiori rimangono schiavi delle reali apparenze. Chi vive nel sogno è un essere superiore, chi vive nella realtà, uno schiavo infelice».

PAOLA BONIFACIO, già Conservatrice della Pinacoteca Alberto Martini e referente dell’Archivio dell’artista, quindi Manager dei Musei Civici di Treviso, è specialista in archeologia e storia dell’arte. Autrice e conduttrice di programmi televisivi e radiofonici di soggetto storico-artistico per la RAI del Friuli Venezia Giulia, cura mostre e pubblicazioni d’arte moderna e contemporanea. È membro del Comitato Scientifico di Fondazione Oderzo Cultura.

Le novità del Gruppo Editoriale Fanucci di fine ottobre

HUNTED BY FATE – CACCIATA DAL DESTINO di Shannon Mayer

Traduzione dall’inglese di Vinicius Letale
Genere: Paranormal Romance
Leggereditore
Uscita: 21 ottobre

Torna l’autrice di Taken by Fate: Presa dal destino, primo volume della serie The Alpha Territories, con il sequel Hunted by Fate: Cacciata dal destino, un romantasy destinato a un pubblico new adult e diventato un #booktiktok.

Il re dei vampiri è morto. Ora sono in fuga dal suo folle successore insieme a un principe vampiro gravemente ferito e a una cameriera innamorata di lui. E io che pensavo che i Giochi del Raccolto fossero la parte peggiore… Per non parlare della mia ossessione per il generale dell’esercito dei vampiri, incaricato di guidare la squadra mandata a uccidere me e la mia non proprio allegra banda di disadattati. L’unica possibilità che abbiamo di uscirne vivi è quella di gettarci alla mercé dei vicini licantropi e sperare che non ci facciano a pezzetti. Sono loro la chiave per sconfiggere il neoincoronato “re” Edmund e salvare il regno dei vampiri da un terribile e pericoloso ritorno a tempi ormai dimenticati, dominati dal caos e da una crudeltà incontrollata. Ma per riuscire a negoziare un’alleanza fra due specie in guerra da secoli serviranno un pizzico di astuzia e un’abbondante dose di audacia. È una vera fortuna che io ne abbia da vendere.

Shannon Mayer vive in Canada insieme al marito e il figlio. È autrice bestseller, secondo il Wall Street Journal e USA Today, di numerosi romanzi urban fantasy, paranormal romance ed epic fantasy, di cui la serie Shadowspell Academy scritta insieme all’autrice K.F. Breene: Fanucci Editore ha pubblicato il primo e secondo capitolo, Shadowspell Academy: L’incantesimo dell’ombra e Shadowspell Academy: La magia dell’ombra. Di prossima pubblicazione anche il terzo volume. Leggereditore ha invece pubblicato i primi due capitoli della serie The Alpha Territories, Taken by Fate. Presa dal destino e ora anche il sequel Hunted by Fate. Cacciati dal destino, a cui presto farà seguito Claimed by Fate.

HE GREAT WHEN-IL GRANDE QUANDO di Alan Moore

Traduzione di Tessa Bernardi
Genere: Fantastico 
dal 25 ottobre in libreria
Fanucci Editore

Con The Great When: Il Grande Quando, Alan Moore inaugura una pentalogia dove la Londra che conosciamo lascia il posto alla meraviglia di una città ricca di mistero, magia e pura follia. Mistico, esilarante e splendidamente costruito, The Great When: Il Grande Quando è un’indimenticabile introduzione al fantastico mondo di Long London, scritto da un autore considerato una leggenda.

Trama: Quando Dennis Knuckleyard, giovane apprendista della feroce Ada ‘Cicca’ Benson, viene incaricato dalla rantolante datrice di lavoro di recuperare un lotto di libri da un collega che vuole disfarsene, e si ritrova per le mani un volumetto che in realtà non dovrebbe esistere, tutto potrebbe immaginare tranne che diventare il protagonista impotente e privo di risorse di una serie di disavventure che lo porterà suo malgrado a esplorare una Londra nascosta e pericolosa, di cui quasi nessuno conosce l’esistenza. Tra venditori ambulanti, maghi, pittori surrealisti, boss della malavita e prostitute dai capelli rosso fuoco, lo sventurato diciottenne si ritrova catapultato in una dimensione parallela alla sua, una Londra onirica che trascende il tempo e lo spazio, dove incontra personaggi in grado di trasformare la sua triste e squallida esistenza nella trama di uno strampalato romanzo da incubo dal quale dovrà cercare di uscire indenne.

Alan Moore è uno scrittore inglese, ampiamente considerato come il migliore e più influente autore nella storia del fumetto. Tra le sue opere fondamentali ricordiamo From Hell, V per Vendetta, Watchmen e La lega degli Straordinari Gentlemen. È nato a Northampton, dove vive da sempre. Dopo Illuminations – I racconti fantastici, una raccolta di testi brevi dal potere visionario, torna nel catalogo Fanucci Editore con The Great When: Il Grande Quando, primo volume della nuova serie Long London. L’autore verrà premiato con una Menzione speciale alla carriera all’edizione 2024 del Premio Internazionale Bottari Lattes Grinzane.

IL TRADITORE di Tom Wood

Traduzione dall’inglese di Laura Pettazzoni
Genere: Thriller
TimeCrime
Uscita: 25 ottobre

Il nuovo elettrizzante romanzo di Tom Wood vede il suo antieroe Victor finalmente in prigione… ma per un crimine che non ha commesso.

Qualcuno lo ha incastrato. Per questo pagherà.  Quando Victor viene arrestato per un omicidio che, una volta tanto, non ha commesso, l’unica via d’uscita per un killer del suo calibro è la fuga. Ma qualcuno lo vuole dietro le sbarre, sorvegliato da agenti della polizia che non hanno idea del mostro con cui hanno a che fare. Ben presto, però, i suoi compagni di prigionia si rendono conto che non è lui a essere intrappolato lì dentro con loro, ma sono loro a essere rinchiusi in una gabbia con il più pericoloso dei criminali. E Victor ha una missione: scovare il traditore. Un thriller ad alta tensione, una storia di bugie e tradimenti con protagonista un assassino professionista accusato, solo in questo caso, ingiustamente. Il decimo volume della serie Victor l’assassino di Tom Wood è la lettura ideale per chi ama gli scontri a fuoco e le fughe al cardiopalma, perfetta per tutti gli estimatori di Lee Child e James Patterson.

Tom Wood è considerato uno dei maestri del thriller internazionale. È nato nello Staffordshire, in Inghilterra, e oggi vive a Londra. Il traditore è il decimo romanzo della serie che vede come protagonista lo spietato sicario Victor, preceduto da Killer, Nemico, Il gioco, La caccia, Il giorno più buio, Nessuna scelta, Scontro finale, Uccidi per me e Un uomo tranquillo, tutti pubblicati da Timecrime. Victor è ormai un personaggio di culto, tanto che Killer, primo capitolo della serie, è diventato un film (2016) per la regia di Pierre Morel.

RITORNO DELLA GUARDIA CREMISI di Ian Cameron Esslemont

Traduzione dall’inglese di Roberto Vitellini
Genere: Fantasy epico
Fanucci Editore
Uscita: 25 ottobre

Epico e travolgente, Ritorno della Guardia Cremisi è il secondo volume della tumultuosa storia sull’Impero Malazan creato da Steven Erikson, per i fan di John Gwynne e Anthony Ryan. La Guardia Cremisi, la famosa compagnia di soldati mercenari, è in marcia verso Quon Tali, il cuore dell’Impero, ma all’interno delle sue file deve affrontare nuove sfide, disordini e ambizioni pericolose. Alcuni elementi dell’élite puntano infatti al raggiungimento di un potere superiore, arcano e dai fini oscuri e misteriosi. Nel frattempo, i generali e i maghi dell’Imperatrice Laseen sono spazientiti nei confronti di quella che considerano una cattiva gestione dell’Impero. Ma Laseen sta davvero perdendo l’autorità e la capacità di governare o è solo una farsa? È forse un modo per sfruttare la rivolta e stanare una volta per tutte gli ultimi fastidiosi sopravvissuti ai tempi del suo predecessore Kellanved?

Ian Cameron Esslemont è nato nel 1962 a Winnipeg, Canada. Laureato in Scrittura creativa, ha studiato e lavorato come archeologo, ha viaggiato molto nel Sudest asiatico e ha vissuto per diversi anni in Thailandia e Giappone. Ora vive a Fairbanks, in Alaska, con la moglie e i figli, e sta attualmente facendo un dottorato di ricerca in Letteratura inglese. Dopo Notte dei coltelli, già pubblicato da Fanucci Editore, Ritorno della Guardia Cremisi è il secondo romanzo della serie Una storia dell’Impero Malazan, composta da altri quattro volumi: Stonewielder; Orb Sceptre Throne; Blood and Bone e Assail, tutti in uscita in questa collana.

I DRAGHI DELL’ETERNITà di Margaret Weis e Tracy Hickman

Traduzione dall’inglese di Annarita Guarnieri
Genere: Fantasy
Fanucci Editore
Uscita: 25 ottobre

Una ragazza intrepida e i suoi amici hanno inavvertitamente alterato la Storia del loro mondo, e ora devono cercare di ripristinare il tempo in questa emozionante conclusione della trilogia Dragonlance Destinies. Quando Destina Rosethorn e i suoi compagni sono stati trasportati in un’epoca precedente alla loro nascita, ai tempi della Terza Guerra dei Draghi, la Gemma Grigia di Gargath ha portato il caos sul campo di battaglia, modificando così il corso della Storia. Al ritorno alla Locanda dell’Ultima Casa, dove il loro viaggio è iniziato, il gruppo di Destina scopre un mondo completamente cambiato. Le forze del male ora dominano la loro terra mentre il Fiume del Tempo scorre inesorabile verso il presente: Destina e i suoi amici devono fare un ultimo, disperato tentativo di riportarlo nel suo giusto canale. Qualora dovessero fallire, il passato alterato travolgerà il presente finché non resterà più traccia del loro vecchio mondo. Mai destino è stato più in bilico e nefasto.

Margaret Weis e Tracy Hickman hanno pubblicato il primo volume di Le Cronache di Dragonlance, I Draghi del Crepuscolo d’autunno (Armenia, 1988), nel 1984. Dopo oltre trentacinque anni, contano una collaborazione su più di trenta romanzi ambientati in diversi mondi fantastici. Hickman sta attualmente lavorando con suo figlio, Curtis Hickman, per Hyper Reality Partners, creando storie e progetti per simulazioni di realtà virtuale integrali e totalmente immersive, mentre Weis è istruttrice agonistica di flyball, sport cinofilo californiano. Dopo I Draghi dell’Inganno e I Draghi del Destino, I Draghi dell’Eternità è il terzo romanzo della nuova trilogia Dragonlance Destinies a essere pubblicato in questa collana.

THE SCARLET ALCHEMIST: L’ALCHIMISTA SCARLATTA di Kylie Lee Baker

Traduzione dall’inglese di Roberta Montroni
Genere: fantasy YA
Fanucci Editore
Uscita: 25 ottobre

Dall’autrice di La collezionista di anime arriva una dilogia fantasy di cui The Scarlet Alchemist: L’Alchimista Scarlatta è il primo volume: una ragazza povera con la capacità di resuscitare i morti rimane invischiata nei pericolosi giochi politici della famiglia reale.

Zilan sogna di diventare un’alchimista reale, di provvedere al sostentamento della sua famiglia producendo oro e gemme alchemiche, che donano ai più ricchi l’eterna giovinezza. Ma per ora è costretta a rimanere nel suo piccolo villaggio della Cina meridionale, dove per mantenersi pratica una forma illegale di alchimia: resuscitare i morti a pagamento. Quando le si presenta l’opportunità di completare gli esami imperiali, si dirige verso la capitale per competere contro i migliori alchimisti del Paese in sfide ardue ed estremamente pericolose. Come se non bastasse la sua fama da ‘resuscitatrice di morti’ la perseguita, e il principe ereditario in persona cerca il suo aiuto, sospettando un imminente attentato. Più emerge il suo talento e aumentano i successi durante le prove, più lei resta coinvolta negli intrighi politici della famiglia reale. Tra le mura del palazzo si aggirano mostri, ed è solo questione di tempo prima che questi e i segreti del suo passato vengano a reclamare il conto. Una lettura perfetta per chi ha apprezzato Il principe crudele di Holly Black, per chi ama i romanzi sull’alchimia e la magia oscura e per chi adora storie ricche di sfide e intrighi di corte; il tutto condito da leggende e ambientazioni dell’antica Cina.

Kylie Lee Baker è cresciuta a Boston e ha vissuto ad Atlanta, Salamanca e Seoul. Il suo lavoro è influenzato dalle origini miste (giapponesi, cinesi e irlandesi) e dalle esperienze di vita all’estero, sia come studentessa sia come insegnante. Ha una laurea in Scrittura creativa e Spagnolo presso la Emory University e un master in Scienze biblioteconomiche e dell’informazione presso la Simmons University. Nel tempo libero suona il violoncello, guarda film dell’orrore e prepara troppi biscotti. Dopo la prima dilogia composta da La collezionista di anime e L’imperatrice delle anime, disponibili nella presente collana, Fanucci Editore pubblica The Scarlet Alchemist: L’Alchimista Scarlatta, primo volume dell’omonima serie.

Hans Tuzzi “Colui che è nell’ombra”, recensione di Salvina Pizzuoli

Bollati Boringhieri

Ah, sì, ora posso ben dirlo: vi è qualcosa di nostalgicamente incantevole in una società che svanisce, almeno quanto disgusta una società che decade.

Si apre con Costanzo Il Sidi e si chiude con Costanzo il Duende, in mezzo ai quali la storia trascorre con Cesare e con Curzio: passaggi generazionali, chi li racconta?

Il lettore dovrà attendere: la voce narrante si svela lentamente, il lettore ne fa la conoscenza attraverso il raccontato che ha come protagonisti i citati rampolli della casata degli Avogadro, friulana,  a partire dal 1937 ad oggi e ambientata nella loro antica dimora, una solida villa secentesca arredata come molte altre case nobiliari.

La voce narrante comincia a disvelarsi

“Il capitano conte Costanzo Avogadro mi aveva promosso di fatto a suo… servo? No. Ma nemmeno attendente. Suo famulo, ecco. Io avevo diciotto anni, e lui ventinove”.
“In qualità di intendente, mio padre abitava un piccolo appartamento in una delle barchesse. Io ero frutto tardivo del suo matrimonio. Tardivo e infausto, oltreché inatteso. Dopo aver partorito otto anni prima mia fratello, e avere avuto due anni dopo l’aborto spontaneo di una piccina che venne comunque battezzata: Lia, mia madre era morta dandomi in luce al mondo. Mio padre aveva quarantasette anni, quando lei morì, e credo non mi abbia mai perdonato del tutto. Ma era uomo sobrio, di poche parole, e affidò la mia infanzia alla cuoca e alla governante”.
E più avanti
“Mio padre si avviava ormai alla vecchiaia, io mi ero iscritto a Legge e lui lavorava ai fianchi il conte affinché gli subentrassi nelle cure della villa e delle pertinenti proprietà”
Fino al giuramento
“E allora, siamo in guerra. Tempo settimane, mesi forse, ma saremo in guerra. Chi può sapere cosa riserva il futuro? Voglio fare con te un patto analogo, e voglio altresì che tu giuri, sui sacramenti, di restare per sempre vicino alla mia famiglia. Capisci? Per sempre! Giura!”

È col patto siglato con il sangue che compare per la prima volta il nome e il cognome di colui che di fatto non è solo voce narrante ma attraverso gli occhi del quale prende vita nel tempo, si disvela l’esistenza di chi lavorava e viveva in una cornice quasi estranea al mondo reale e dove il rumore di quel mondo arrivava attraverso gli avvenimenti e i fatti che occorrevano ai membri della Famiglia: un mondo schermato, quasi uno specchio in cui quello “fuori” entrava solo a tratti per specchiarvisi con le sue conseguenze, fauste o infauste, con i mutamenti e le riflessioni che se ne determinavano e che la voce narrante sa sottolineare.
Una narrazione lenta, piacevole, come possono esserlo solo i ricordi che sanno indugiare sui particolari, quelli indelebili, nostalgici, rammaricati, in questo memoir la cui conclusione, inattesa, è in effetti imprescindibile, conseguente a un gioco, un gioco delle parti, dove solo il fuoco scioglierà l’incantesimo

vi è qualcosa di nostalgicamente incantevole in una società che svanisce, almeno quanto disgusta una società che decade”.

Dello stesso autore su tuttatoscanalibri

Intervista ad Hans Tuzzi (21 ottobre 2024)

Tutto Tuzzi

Antonio Schlatter Navarro “Perché leggere Dostoevskij, Graphe.it

Leggere Dostoevskij è un atto rivoluzionario: un viaggio nel tempo e nell’ anima. Non possiamo leggere Dostoevskij in fretta; per questo, accettare la sfida sarà un’azione rivoluzionaria di cui mai potremmo pentirci.


a cura di Natale Fioretto
Prefazione di Valerio De Cesaris
in libreria dal 26 ottobre

Graphe.it

Perché dovremmo leggere oggi Dostoevskij? Questo volume non solo fornisce risposte, ma ci mette di fronte alle domande giuste, uscendo dalla retorica un po’ supponente secondo cui tutti avrebbero letto Dostoevskij o tutti dovrebbero farlo. La prospettiva del saggio – almeno in parte – muove da una visione cristiana, infatti, la relazione con il peccato e il divino è senza dubbio un filone centrale nella poetica del romanziere. Ciò che rende avvincente quella che Schlatter Navarro chiama “indagine” è però il carattere misterioso che permea la riflessione dello scrittore: per lui «i rapporti fra Dio e l’uomo, il peccato e il male, la coscienza e la libertà non sono problemi, ma misteri».

Dostoevskij sfida il nostro tempo troppo veloce. Per gli europei d’oggi, spaesati e spaventati di fronte a un mondo complesso che non dominano più come hanno fatto nei secoli passati, tutto scorre in fretta, mentre lo spazio della riflessione si restringe. Ogni notizia è divorata rapidamente e sostituita dalla successiva. Ci si dimentica e ci si abitua anche a quelle peggiori, come la guerra, che quasi non fa più notizia se non quando sembra che ci minacci direttamente. Tanta gente non legge più libri, illudendosi magari di capire la realtà del mondo scorrendo i post sui social, senza uno sforzo di approfondimento. I requisiti fondamentali del lettore ideale di Dostoevskij sono pazienza e attenzione, ci ricorda in questo bel saggio Antonio Schlatter Navarro. Ma chi è davvero attento al giorno d’oggi? Chi ha la pazienza di entrare in trame complicate, accettando d’incamminarsi in centinaia di pagine? Corriamo il rischio di non capire la realtà che ci circonda, le questioni fondamentali che riguardano l’umanità, semplicemente perché rinunciamo a fermarci, a leggere, a entrare nella complessità della vita. La letteratura ci aiuta, se le dedichiamo il tempo che merita. Il suo senso profondo è infatti quello di essere al servizio del lettore, per scuotere la sua coscienza e spingerlo a pensare, rimettendo in moto la mente e il cuore. (dalla Prefazione di Valerio De Cesaris)

ANTONIO SCHLATTER NAVARRO (Siviglia 1968) è un sacerdote della Prelatura dell’Opus Dei. Ha esercitato il ministero in diverse diocesi della Spagna: Murcia, Valencia e Saragozza e attualmente a Cordova. Laureato in Giurisprudenza all’Università di Jaén, dove ha esercitato la professione di avvocato, ha conseguito la laurea in Teologia alla Pontificia Università della Santa Croce in Roma e il dottorato in Filosofia all’Università di Navarra.

Dario Voltolini “Acqua chiusa”, Oligo Editore

Debutta per Oligo la nuova collana RONZINANTE diretta da Marino Magliani. Tra narrazione e disegno, un modo nuovo per raccontare luoghi e territori nel cuore di grandi autori contemporanei

Prefazione Alice Pisu, con illustrazioni dell’autore

Collana Ronzinante diretta da Marino Magliani

Dal 25 ottobre in libreria

OLIGO

Il luogo è un grappolo di vie nel quartiere dove un tempo c’era un’enorme fabbrica della Michelin e ora un centro commerciale a Torino. Un palazzo, edificato per la residenza di chi in quella fabbrica ci lavorava, sussiste ancora intatto. Lì è vissuta la famiglia di mio padre. Questa zona della città è l’argomento del mio testo, come era e come è.

Lontano da nostalgie per un passato guasto, con Acqua chiusa Voltolini concepisce nel disegno di fallimento la naturale conseguenza dell’inafferrabilità del reale, dell’abbaglio del visibile. Indugia sulle sovrapposizioni di storie per scorgere grovigli senza via d’uscita nel posare fugacemente lo sguardo sugli esiti individuali dei suoi soggetti. Il racconto è un invito a rintracciare una personale geometria del tempo nel bilico tra memoria e perdita, a fare propria la curiosità immaginativa del narratore sulla vita anteriore per riconoscere nella fragilità di un ambiente in dissoluzione una configurazione interiore nell’enigma tra salvezza e oblio, e riflettere sull’incapacità moderna di relazionarsi al paesaggio e di lasciarsi interrompere da esso. (Dalla prefazione di Alice Pisu)

Dario Voltolini (Torino, 1959) è autore di racconti, romanzi, radiodrammi, testi di canzoni e libretti per il teatro musicale. È docente presso la Holden Academy. Cura la collana di narrativa italiana Pennisole per Hopefulmonster editore. Ha pubblicato per Einaudi, Feltrinelli, Laurana, Manni, Bollati Boringhieri, La Nave di Teseo. Il suo ultimo libro, Invernale, è stato finalista del Premio Strega 2024.

Nella stessa collana in uscita il 25 ottobre

Marino MaglianiCorsica. Prefazione di Roberto Carvelli

Macrina Marilena Maffei “La danza delle streghe. Cunti e credenze dell’arcipelago eoliano”, Armando Editore



in libreria dal 24 ottobre

Armando Editore

In un’epoca di incantamento del mondo, dove gli scogli parlano, le creature sognate escono dai sogni ed entrano nella realtà, e le serpi compaiono con i capelli pettinati a treccia, a crocchia, a tuppo, si rivela che gli spiriti ritornano fra gli uomini in forma zoomorfa. Un immaginario in cui il fantastico, il meraviglioso e l’onirico s’intrecciano dando vita a emozionanti narrazioni dove anche la presenza delle streghe è marcata. Esibendo la loro arcaica nudità, le streghe in volo si palesano agli uomini. Il loro tratto più inquietante lo mostrano trasformandosi in nuvole e in vento per inseguire sul mare i naviganti o anche rubando le barche ai pescatori. 

Oggi, alla sua terza edizione, il libro torna arricchito dalla suggestiva storia di una pescatrice. Una pescatrice dai lunghi capelli morta in un naufragio oppure, come alcuni raccontano, per l’agire malefico delle streghe. Racconti e credenze narrati, per la prima volta nella storia dell’arcipelago, dalla voce dei suoi abitanti durante un’etnografia che ha preso l’avvio oltre quarant’anni fa, sullo sfondo di una maestosa natura vulcanica. Il volume presenta gli esiti di una ricerca, di lunghissima durata, condotta nell’arcipelago eoliano a iniziare dagli anni Ottanta e ricostruisce, attraverso storie e credenze di tradizione orale, i tratti fondamentali di una cultura inscritta in un’infuocata natura tellurica. 

L’autrice documenta aspetti della cultura insulare che non erano mai stati indagati, riuscendo anche a fare emergere dal mondo stregonesco dove erano celate le storie vere delle donne che esercitavano il mestiere della pesca.

MACRINA MARILENA MAFFEI, antropologa del mare e fiabologa, ha raccolto i repertori narrativi orali di vaste aree dell’Italia centro-meridionale e delle isole conservati in gran parte nell’Archivio Etnico Linguistico Musicale dell’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi e nell’Archivio Sonoro dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale del Ministero della Cultura. Progettista del primo Museo del Mare Demo etnoantropologico del Lazio, con sede a Gaeta.

Intervista ad Hans Tuzzi

Dal 25 ottobre è in libreria l’ultimo romanzo di Hans Tuzzi, Colui che è nell’ombra (Bollati Boringhieri). Abbiamo rivolto all’autore qualche domanda, non tanto sul romanzo quanto sulle sue idee e convinzioni circa scrittura e società.

Lei ha importanti estimatori, ma è sempre rimasto uno scrittore poco popolare. Perché?

Non cerco il consenso, e questo non gioca a mio favore al botteghino. Sono versatile, e mi sono misurato pure con generi “bassi” ma con scrittura non corriva: di qui la diffidenza dei lettori abituali di gialli e la preconcetta indifferenza degli accademici italiani, che, per titolo giuridico, sono ordinari, e dunque non possono capire l’extraordinario. Infine, non partecipo al grooming delle conventicole e non ho potere. Mi sembrano tutte valide ragioni per essere, come dice lei, poco popolare. Né ho difficoltà ad ammettere che la mia opera presenta una dichiarata «disappetenza al moderno», per dirla con Cesare Garboli. Questo non significa ingannarsi imbellettando il passato, anzi: chi si volta indietro si perde per sempre, come insegna il mito di Orfeo e Euridice. In una società come la nostra, dove gli “intellettuali” sono presenzialisti ridotti a poco meno che cavalli di Elberfeld, vien da rimpiangere le generose e ingenue esposizioni degli anni Cinquanta: la paura della morte atomica, e Huxley, e i concettosi e noiosissimi Sartre e Miller, convivevano con Doris Duke e Barbara Hutton che pagarono milioni di dollari per verificare con mano quanto si favoleggiava della dotazione KingSize di Porfirio Rubirosa, diplomatico della Repubblica Dominicana e unico in grado di competere in dimensioni virili con lo Scià di Persia (la sola politica estera che sembra abbia fatto scuola, sostituendo alle dotazioni anatomiche quelle missilistiche). Sì, il passato era fesso. Ma mi piace notare che l’appartamento al 45 rue de Courcelles, a Parigi, oggi residenza diplomatica della Repubblica Dominicana, fu un tempo abitato da Marcel Proust: Jupien, Charlus e Rubirosa, quel ensemble.Sì, il passato era fesso. Però non riesco ad appassionarmi a un presente idiota schwampito e infame, come ai miei occhi è il nostro. Il livello infimo della classe politica in Occidente, la Storia che non insegna nulla (sì, lo si sa ma fa sempre effetto vederlo confermato dai vari Putin, e Trump, e loro imitatori estimatori), una sfasata logica binaria che riduce a poca cosa il raziocinio delle generazioni allattate a computer, e di conseguenza la più assoluta incapacità di cercare il sapere per amore di meraviglia (quel che gli antichi greci chiamavano philosophein dia to thaumazein), tutto questo mi fa sentire sempre più estraneo verso il presente, e, il che è peggio, rancoroso per sentirmi tale.

Anche la letteratura contemporanea è investita da questa critica?

Quella di questo secol nuovo? In buona parte sì: giudicando quarant’anni fa un candidato alla pubblicazione con Einaudi, Franco Fortini parlò di «prodotti, che chiamerei non convenzionali ma convenzionati, come si dice delle cliniche che hanno rapporti privilegiati con certe mutue.» Mi sembra più che mai attuale. E Jung ha detto: «Capii che non si raggiunge nulla nella vita se non si parla con la gente solo delle cose che essa già conosce. La persona semplice non valuta appieno che specie di insulto sia parlare ai propri simili di cose che son loro ignote. Gli uomini al più tollerano un tale sconsiderato comportamento in uno scrittore, o in un poeta». Ecco, a me pare che oggi ancor più di ieri il successo arrida a chi rumina idee abbondantemente rimasticate seguendo le mode, e in particolare quelle mode che si dichiarano contro le mode, in una sempre più latrante retorica del “messaggio”, liquidata una volta per tutte da Nabokov: «Se avessi voluto mandare messaggi avrei fatto il postino». Banalità delle esposizioni, ossessiva ricerca del consenso, prosa di livello apparentemente alto ma in realtà frutto dell’omologazione delle scuole di scrittura (amo gli autori attenti allo stile, ma quale grande autore europeo fra le due guerre mondiali sentì il bisogno di cincischiare le frasi, senza peraltro dominarne senso e struttura, come fanno oggi gli autori delle più recenti generazioni? Rileggetevi Gide: «Lo stile dei Falsari non deve presentare nessun interesse alla superficie, deve essere liscio tanto da far dire a certi giocolieri: cosa ci trovate da ammirare là dentro?»), e in più maniacale attenzione al proprio ombelico… Vale qui il cortocircuito di Majakowskij: «Da quando domina il materialismo è scomparsa la materia». E, di conseguenza, è scomparsa l’ironia, e, peggio, l’autoironia: due monete, peraltro, mai circolate in Italia. Ironia nel senso greco della parola, ossia finzione; però è una finzione, come dice Vico, più vera del vero. La grande letteratura è sempre ironica perché non spiattella convinzioni, non dispensa ovvie verità. Bisogna passare attraverso la finzione per dire la verità, non è un paradosso: il saggio sa che bisogna rinunciare per possedere, lo sportivo sa che si deve arretrare per saltare meglio, e lo scrittore dovrebbe sapere che bisogna sottintendere per affermare. Orfeo perde Euridice per il troppo umano bisogno di assicurarsi invece di fidarsi senza guardare, ma Gesù ricorda agli uomini che «chi ama la propria vita la perderà». Da ateo, l’ho sempre trovata una sublime lezione di umanità. E di scrittura. Già, perché, come ha detto un sommo, «scrivere è dare il cuore a qualcosa di più profondo».

Un esempio concreto di sottinteso?

Due, per capirci meglio. E visto che ho appena citato Proust, con lui riprendo, che in una lettera scrive: «Prima che l’ultimo urlo si sia spento si precipitano in bagno e tutto termina con un rumore d’acqua. La mancanza di transizione mi stanca per loro, perché, se c’è una cosa che detesto dopo, subito dopo, è muovermi. Per quanto egoismo ci sia nel trattenere nello stesso posto il tepore di una bocca che non ha più nulla da ricevere.» Si tratta, ripeto, di privata corrispondenza. Ma quanto stile in quel trattenere il tepore di una bocca che non ha più nulla da ricevere. E se ne fa buona scolara, tale da superare forse il maestro, Anna Maria Ortese quando scrive Il porto di Toledo: «Risentivo di nuovo il suo bacio sopra la gamba, dove la calza finiva e cominciava un po’ il mio essere»: quel dove cominciava il mio essere è magistrale e ardente evocazione erotica. Tanto alto, là dove non dice, si fa ogni parlare d’amore. Tanto alta, nella reticenza, è ogni pagina di vera letteratura. Ma nella società contemporanea, mossa da appetiti e priva di desideri, la naturale conseguenza è che gli intellettuali assolvano il loro ruolo etico dandosi alla pubblica esibizione in forme magniloquenti e urlate, mentre invece l’etica, nell’arte come nella società, matura da gesti intrapresi senza pubblico, in austero anonimato.

Ma quali sono, per lei, altre componenti essenziali della grande arte? O almeno una fra esse?

Cercherò di dirlo con un esempio. Per i capelli del Cristo alla colonna Antonello da Messina usa il cinabro velandolo poi con ocra: un colore che al tempo costava sessanta volte più dell’altro viene usato sotto, coperto in gran parte dal colore più economico. L’effetto è tuttavia stupefacente. Questa è grande arte, l’altra soluzione sarebbe facile risultato per pubblico di facile contentatura. La grande arte non è mai facile: può sembrare semplice – e non lo è – ma facile mai. Ciò vale, naturalmente, anche per la letteratura. Che un capolavoro come il Don Chisciotte, capace, in alcune sue parti, di annoiare volutamente il lettore per rimanere fedele alla forma data all’idea, sia stato, da subito, un best-seller, è l’eccezione, non la regola.

Da sua estimatrice, mi chiesi cosa mai avrebbe potuto ancora scrivere dopo quell’assoluto che è Nessuno rivede Itaca, e invece lei ha fatto due mosse imprevedibili, con due romanzi come Curiosissimi fatti di cronaca criminale, dove si entra e esce da mondi paralleli, e questo, Colui che è nell’ombra, del quale volutamente non intendo anticipare nulla ai lettori perché è un sortilegio ugualmente riuscito. Una bella prova di muta, direi, per usare un termine della biologia, scienza a lei cara come dimostrano le divagazioni sulla psichedelica percezione dei colori del paguro in Vanagloria o sul multiplo pene delle lucertole in Nessuno rivede Itaca.

Già, Nessuno rivede Itaca: finitolo, io sono morto e rinato. Allora, una volta per tutte, presi piena e profonda coscienza dei mutamenti perenni del mondo, di come terre credute ferme tali non siano, e d’improvviso scompaiano. Il mio segno zodiacale è lo Scorpione e gli junghiani considerano la caratteriologia scorpionica capace di smuovere energie al servizio della trasformazione quintessenziale. Gli alchimisti associavano questo simbolo all’abbandonarsi e diventare, e chiamavano “tempo dello scorpione” il momento in cui i metalli di base si trasformavano in oro. E l’antico Egitto, lo vogliamo tacere? La dea scorpione Selket rappresentava la capacità di sopravvivere alle transizioni più radicali. Morte e rinascita, trasformazione… Del resto, non siamo mai “uno”; come mi scrisse un amico, a proposito dei miei romanzi, la nostra anima è abitata dai molti che siamo stati e che vorremmo essere. «Nasciamo già in Tanti e aspiriamo all’Uno», mi scrisse. Dietro ogni pensiero alchemico si cela questa drammatica utopia. «Forse dovremmo rinunziarvi e instaurare rapporti di buon vicinato con Tutti, accettando di essere consapevolmente abitati ora da Questo ora da Quello e poi da quell’Altro ancora… Valenti aurighi, in quest’arte dovremmo esercitarci, e a questa tendere, finché ci sarà possibile.» Purtroppo, merita invece ricordare una riflessione di Jung: «La totalità di una nazione non reagisce mai come un normale individuo moderno, ma sempre come un gruppo primitivo. Crimini, che l’individuo da solo non potrebbe mai avere la forza di reggere, vengono perpetrati senza alcun ritegno dal gruppo. No, i demoni non saranno affatto banditi. Ogni uomo che smarrisce la sua ombra, ogni nazione che si sente moralmente superiore, è la loro preda». Senz’ombra, senz’anima, dice il proverbio tedesco che ispirò von Chamisso. Il che ci porta dal Piccolo al Grande Mondo, e viceversa. E alle considerazioni su passato e presente con le quali s’è aperta questa chiacchierata.

Uno scrittore dovrebbe essere nel presente, non trova?

Nel presente, ma non del presente. Balzac era nel presente, altroché se lo era, ma le sue trame si svolgono tutte un quarto di secolo prima della pubblicazione. Complice l’età, aumenta il mio rifiuto della compiacenza, e del presente, troppo affollato di esseri umani, vedo più i difetti che i pregi…

La grande villa del romanzo trasformata in resort, ad esempio, con la nuova fauna umana?

Ad esempio, sì. Purtroppo ciascuno di noi tende a fissarsi sugli anni migliori della propria vita, e per me furono i Sessanta, così come per mia nonna furono i Venti (la generazione dei miei genitori a vent’anni si trovò in guerra, invece: ma paradossalmente l’uomo prova un terribile amore per la guerra, e molti di quei reduci, io bambino, con il ricordo andavano alle esperienze, talvolta atroci, di quegli anni). Del presente in realtà poco mi sfugge, ma lo guardo da un punto di vista se non prevenuto, certamente estraneo: ne colgo, avendo coltivato altri modelli, più la volgarità che le potenzialità. E mi sento incapace di tenere il passo – disumano – della rivoluzione tecnologica. So ancora cogliere il sale della vita ma, come dice l’Evangelista, «se il sale perde il suo sapore, con che cosa lo si renderà salato?». 

E allora, chiuda con un aforisma.

La proprietà di linguaggio non è proprietà privata. E il rispetto di sé stessi è anche rispetto dei lettori di qualità.

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Hans Tuzzi, Colui che è nell’ombra, Bollati Boringhieri, pagine 176 euro 16,00

Nucci intervista Tuzzi su IlLibraio
Sul precedente romanzo, Curiosissimi fatti di cronaca criminale, segnaliamo questa intervista