I Libri Corali

a cura della Redazione

In una recente visita al Museo Archeologico e d’Arte della Maremma di Grosseto ci siamo imbattuti in una serie di teche con codici miniati, si tratta di antifonari, otto per la precisione e due graduali, affascinanti nelle loro grandi pagine istoriate soprattutto relativamente alla miniaturizzazione dei  capilettera: abbiamo quindi deciso di dedicare loro una pagina ad hoc. In effetti sono opere miniate di alto valore grafico artistico oltre al grande formato  che li caratterizza.

Ma cosa sono?

I principali tipi di corale erano: antifonario, graduale, salterio, processionale

Dal  latino medievale antiphonarium a sua volta dal greco antiphona, con il significato di voce contro voce, era il corale che conteneva tutti i canti dell’ufficio divino secondo il calendario liturgico.

Servivano nelle cattedrali e nei monasteri per l’officiatura del coro. Erano scritti prevalentemente con caratteri gotici, su grandi fogli di pergamena, e contenevano le parti  cantate e la relativa notazione musicale ed erano di grandi dimensioni perché collocati al centro del coro, su alti leggii, potevano essere letti dai monaci riuniti in gruppo.  Il salterio era relativo ai canti biblici, il processionale, come indica il termine, ai canti da processione.

Gli antifonari erano raccolte di testi da cantare nei vari offici liturgici ordinati in base al calendario ecclesiastico, ovvero Avvento, Natale, Epifania etc, mentre i graduali erano antifonari ma specifici della messa. Quelli esposti a Grosseto e qui riportati nelle immagini che li documentano sono datati fine XIII secolo con notazione quadrata su tetragramma, tipica del canto gregoriano.. Sul tetragramma, composto da quattro righe musicali, erano  rappresentati graficamente in forma quadrata i suoni e il loro comporsi, detta notazione.

A livello estetico e di composizione artistica i libri corali, la cui  diffusione avvenne dopo il 1300, anche se ne esistono esemplari precedenti, con il massimo della produzione appartiene nei secoli XV e XVI, si eseguivano quasi esclusivamente nei monasteri arricchendosi nel tempo  di decorazioni pittoriche  ad opera di scuole miniaturiste occupando  quindi un posto importante nella storia della miniatura. Tanto erano conosciuti e ricercati i maestri di quest’arte che Dante Alighieri ne cita ben due nella seconda cantica:  Oderisi da Gubbio e Franco Bolognesi, il primo sistemato nel girone dei superbi che hanno attribuito in vita troppa importanza alla fama terrena

“Oh!”, diss’io lui, “non se’ tu Oderisi,

 l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte

ch’alluminar chiamata è in Parisi?”

 “Frate”, diss’elli, “più ridon le carte

che pennelleggia Franco Bolognese;

l’onore è tutto or suo, e mio in parte

Purgatorio canto XI

dove si legge che il secondo, ancora in vita,  è diventato più “grande” nell’arte di allumar, termine con cui  Teofilo, orafo benedettino attivo intorno al 1100 nella Germania nordoccidentale autore di un trattato tecnico  in tre libri dedicati a pittura, vetrata e oreficeria, con il termine  luminare, illuminare, indicava la stesura di colori più chiari del colore di fondo, da cui illuminatores, gli artisti che la praticano. Altri fanno derivare invece il termine   da alumen, l’allume di rocca usato nella preparazione di alcuni pigmenti: l’opera del miniaturista iniziava dopo quella del calligrafo; dopo che era stato tracciato l’abbozzo o il disegno delle figura, procedeva alla coloritura all’acquerello con pennelli di varie dimensioni.

Un’arte raffinata nel tempo e di cui sono testimonianza opere la cui manifattura si protrasse anche dopo l’invenzione della stampa, furono infatti prodotti fino al XVIII secolo.

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