Il brano che segue è tratto da Oreste Verrini “Madri. Sulle orme del pittore Pietro da Talada lungo l’Appennino Tosco-Emiliano”.
Lunigianese, è docente universitario della Facoltà degli Studi di Pisa, vive nei luoghi che da anni ama narrare e valorizzare in storie di viaggio. In “Madri” racconta un percorso in solitaria attraversando borghi sperduti, Barsigliana, Busana, Talada, alla ricerca delle Madonne di un pittore quattrocentesco, le Madri appunto. Un viaggio vero che attraversa luoghi reali e dove non mancano gli incontri, a volte particolari e “strani”, risultato anche dell’effetto straniamento che il camminare da soli crea, che sanno comunque catturare e alla fine lasciare sereni perché il camminare o il viaggio a piedi è una terapia che sa trasferirsi dal corpo all’anima.
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La strada di accesso sale sulla mia destra, svolta dietro la prima casa e prosegue verso la cima. Larga quando basta a far transitare una macchina, è ben tenuta, segno forse di non essere per davvero in una ghost town. Le persiane abbassate, gli scuri chiusi, i fiori coperti con tessuto per ripararli dal freddo fanno pensare qualcosa di diverso. Costeggio la proprietà alla mia sinistra, estesa e ben curata; un ampio giardino, qualche piccola costruzione, ricovero per attrezzi e forse per un trattore. Controllo gli architravi, almeno tutti quelli visibili. Per ora nessuna traccia di quello cercato. Alla mia destra una casa semi- crollata; solo due dei quattro muri perimetrali sopravvivono. Un tappeto di terra ed erba ha ricoperto il pavimento mentre qua e là, in modo casuale, mucchi di sassi e mattoni, resti sopravvissuti al crollo di copertura e solaio, rendono meno uniforme l’immagine. Della mappa del tesoro nessuna traccia, neppure qua. Muovo la testa, lo sguardo, il corpo, alla ricerca di un minimo indizio, un cartello, un’insegna, magari luminosa, ad indicare dove trovare ciò che cerco. Senza successo, il paese continua a rimanere silenzioso e, a dirla tutta, un poco inquietante.
Sono quasi giunto al punto in cui la stradina piega verso destra fiancheggiando le ultime case, quando sono certo di udire il canto di una donna ed il rumore di una scopa strusciata sul cemento. In effetti la casa più a sinistra, proprio quella all’angolo, ha un paio di persiane aperte. Allungo il collo e sposto la testa per vedere meglio, un’ombra più scura si muove attorno all’angolo della casa.
«Mi scusi…» Nessuna risposta.
Mi avvicino, sono a pochi passi. Dell’ombra intravista non c’è traccia; svolto l’angolo, non c’è nessuno. Quattro scalini portano ad un pianerottolo con mattonelle grigie di un paio di metri quadrati; la porta di casa, una bella porta verde con serramenti in ottone, è chiusa. Nessun rumore, nessun canto. Devo essermi sbagliato, mi giro per tornare sui miei passi e noto una scopa appoggiata proprio sull’angolo. Trovo l’immagine abbastanza inquietante; forse la signora non aveva voglia di parlare con degli sconosciuti, mi dico per rassicurarmi. La lingua di asfalto prosegue ancora per qualche metro dove incontra un giardino ben curato. Una lunga staccionata in legno, punteggiata da ortensie potate basse, delimita il bordo. Sullo sfondo il bosco chiude la visuale.
Torno indietro e proseguo per la strada che fiancheggia le ultime case del paese. Percorro pochi metri poi, guidato dall’istinto e dall’idea di essere osservato, voltola testa verso una delle due finestre aperte; un viso mi sta fissando. Sobbalzo, colto di sorpresa, impreco e faccio un paio di passi indietro. Riporto lo sguardo alla finestra e… la trovo vuota. Guardo meglio, mi sposto per evitare il riflesso del sole, faccio qualche passo verso i vetri. Non c’è nessuno. Nella stanza riesco a vedere un lampadario, di quelli con tanti bracci in ferro che terminano con un contenitore in vetro, la parte alta di una libreria, con qualche libro, molti ninnoli e due quadri. Anche di questi posso osservare solo la parte alta e poco più.
La situazione mi sta sfuggendo di mano, mi sto facendo condizionare dal momento e dalla spettralità del posto. Non ho nulla da temere, men che meno una situazione da horror di serie B.
Mi fermo un attimo, guardo attorno, respiro profondamente.
Sento le cinghie dello zaino premere sulle spalle ed una grande stanchezza assalirmi. Ecco, arriva anche una gran voglia di sedermi e riposare. Dal punto in cui sono riesco a vedere le poche case sotto di me, quasi tutto il paese, direi, e la parte finale di esso. Mi dirigo lì, con passo meno fermo e sicuro del solito. Anche le ultime due abitazioni sono sprangate. Non chiuse: sprangate. Scuri nuovi, di un bel noce, oscurano ogni apertura. La strada, ora stretta, pedonale, si trasforma in sentiero, con il fondo sassoso prima e terroso poi, quando le prime appendici del bosco arrivano ad insediare le case. Ho ormai perso di vista il paese, ho raggiunto il retro dell’ultima proprietà, davanti ho solo bosco. Inutile proseguire, non credo troverò qua l’architrave.
Torno indietro.
Una leggera brezza soffia improvvisa facendomi rabbrividire. L’idea di aver visto un volto intento ad osservarmi non vuole allontanarsi, continuo a muovermi con circospezione, preoccupato di vederlo ancora. Mi guardo attorno, giro costantemente la testa dietro di me. Foglie smosse rumoreggiano, qualche animaletto scappa mentre i miei scarponi calpestano la terra battuta. Chiudo meglio la cerniera della giacca, sposto la macchina fotografica, ora come non mai, d’intralcio. Sono a pochi metri dall’angolo dell’ultima casa, sto per tornare sul davanti, dove il sentiero vira all’asfalto; uno scalpiccio di piedi e sassi smossi arriva alle mie orecchie e mi coglie impreparato.
Mi immobilizzo, guardo attorno come un cerbiatto sorpreso di notte dai fari di un’automobile; attendo di vedere qualcuno sbucare dalla curva, curioso – e al tempo stesso teso – di incontrare un abitante. Sto serrando la mascella, me ne accorgo quando l’indolenzimento dei muscoli mi segnala di rilassarmi. Di nuovo rumore di passi, questa volta molto più chiari di prima. Mi faccio coraggio, a questo punto ne ho davvero bisogno, e mi muovo rapidamente per svoltare l’angolo e anticipare l’incontro ma, una volta fatto, davanti a me solo una strada vuota. Il paese, ancora muto ed immobile, ride delle mie allucinazioni e della mia crescente ansia. Riprendo a darmi dello stupido, a dirmi di calmarmi, non è proprio il caso di comportarsi in questo modo, quando un nuovo rumore attira la mia attenzione. Giro gli occhi verso l’alto in direzione di una scalinata che porta verso il terrazzo al primo piano e, questa volta ne ho la certezza assoluta, una figura si sposta rapidamente scomparendo alla vista. La scala, una struttura in ferro dipinta di grigio antracite, appare vuota. Mi sposto cercando una visuale migliore, continuo a non vedere anima viva.
«Ehi, mi scusi!?» provo.
Niente.
«Mi scusi, vorrei chiederle un’informazione…»
Nessuna risposta; solo un silenzio prolungato, interrotto da minimi rumori prodotti da una brezza leggera. Mi sono davvero stancato di questa situazione e non ho nessuna intenzione di essere lo zimbello di questo soggetto, o forse di questa signora, che ha voglia di prendermi in giro.