Presentare l’opera di Levi, legata alla sua esperienza nel Lager, non è un impegno da poco e il rischio di cadere nel trito è facile. Saranno allora le sue semplici, schiette e dirette parole, scritte a premessa di “Se questo è un uomo”, a esprimere il valore di quest’opera che non è solo testimonianza. Colpiscono con la forza di uno schiaffo quando scrive “A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni ‘straniero è un nemico’. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente” le cui conseguenze sono quelle vissute e delle quali Levi ci dà attestazione nel suo romanzo con la volontà di fornire però “documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano”.
Nell’analisi di Cesare Segre all’opera, il critico si sofferma proprio ad analizzare le parole della premessa dove Levi valuta le conseguenze xenofobe quando “la convinzione che giace in fondo agli animi” diventa “un sistema di pensiero”, e quando ciò avviene, al termine della catena, precisa Levi, c’è il Lager e aggiunge che “finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano”.
Questa una delle motivazioni alla scrittura individuate da Segre: poter prevenire le conseguenze xenofobe, ma sicuramente sotto la spinta del bisogno di raccontare per trovare in questo sfogo la liberazione da un’esperienza ossessiva, come sottolinea nella presentazione all’opera anche Alberto Cavaglion, “L’indicibile non trova spazio nel libro: è lo stato d’animo di chi, dopo aver sostato ‘sulla soglia della casa dei morti’, ne ha scorto i lineamenti, ma ha capito che la salvazione gli potrà venire soltanto dalla scrittura”.
Se il libro evita i particolari più atroci si sofferma invece ad analizzare le operazioni quasi chirurgiche perpetrate perché l’individuo perdesse la propria dignità, richiamate da un’altra pagina, posta in apertura: una poesia, senza titolo, ispirata allo schema alla shemà, l’orazione degli ebrei, che inizia con “Ascolta, Israele, il signore Dio nostro è uno” e termina con l’esortazione a non dimenticare e a trasmettere ai figli questa basilare verità”.
Notizie sull’opera
La prima edizione venne stampata nel 1947 in 2500 copie dalla casa editrice torinese De Silva, diretta da Franco Antonicelli, con il titolo di “Se questo è un uomo” al posto di quello deciso da Levi, “I sommersi e i salvati”. Nel 1958 fu ristampato da Einaudi, che in un primo momento lo aveva rifiutato, nella collana «Saggi», con un risvolto anonimo ma steso da Calvino “Se questo è un uomo di Primo Levi, pubblicato per la prima volta nel 1947 nelle edizioni De Silva di Torino e da tempo esaurito. Siamo lieti di poterlo ripresentare a un più vasto pubblico, come un testo d’esemplare valore della nostra letteratura. […] Primo Levi, un chimico torinese, fu deportato ad Auschwitz al principio del ’44 insieme col contingente d’ebrei italiani del campo di concentramento di Fossoli. Il libro si apre appunto con la scena biblica della partenza da Fossoli, e prosegue col viaggio e l’arrivo ad Auschwitz e, altra scena di struggente potenza, la separazione degli uomini dalle donne e dai bambini, che non rivedranno più. Null-Achtzen, “zero-diciotto”, il compagno di lavoro che ormai è come un automa che non reagisce più e marcia senza ribellarsi verso la morte, è il tipo umano cui i più si modellano, in quel lento processo d’annientamento morale e fisico che porta inevitabilmente alle camere a gas. Suo termine antitetico è il “Prominenten”, il privilegiato, l’uomo che “s’organizza”, che riesce a trovare il modo d’aumentare il suo cibo quotidiano di quel tanto che basta per non essere eliminato, che riesce ad acquistare una posizione di predominio sugli altri; tutte le sue facoltà sono tese a uno scopo: sopravvivere.[…]Primo Levi ci disegna figure che sono veri e propri personaggi […] Questo è il solo libro scritto da Primo Levi, nato a Torino nel 1919, laureato in chimica, e che attualmente esercita a Torino la sua professione”.
Salvina Pizzuoli