Ferdinando Paolieri “Il rimedio pei topi” da Novelle toscane 1913

             Il rimedio pei topi

 Il barrocciaio toscano è un tipo che finirà con lo scomparire, davanti  all’incalzante quantità di reti tranviarie, di servizi automobilistici, di‘bracci’ di ferrovie che s’incrociano in tutti i sensi, avanzando minacciosamente fra mezzo alla santa quiete delle boscaglie e all’operosa festività  delle colline del Chianti.  Gli ultimi avanzi di questa strana stirpe di nomadi hanno, ora, un  campo ristrettissimo dove muoversi coi loro pittoreschi traini carichi di  fascine, di masserizie, ma per lo più di terrecotte, embrici, mattoni, orci,  ornati di manici aggraziati e d’un bello stemma mediceo sulla curva del  pancione rosso; un campo d’azione che non va oltre la Castellina, dalla  parte di Siena, e oltre Pescia, dalla parte diametralmente opposta al gloriosissimo Chianti. Di che cosa vive il barrocciaio? di vino, di questioni e d’intemperie.  Contro queste poi è corazzato. Lo vedete, sotto un sole che spacca le pietre,  con la frusta a tracolla, la pipa in bocca, seguire i muli, cantando l’ottava  del Niccheri* (* Giuseppe Moroni poeta popolare detto Il Niccheri) segnando la cadenza con grandi scoppi di frusta; oppure,  sotto  un  diluvio  torrenziale,  giacere  sul  veicolo,  col  capo  ricoperto  dall’ombrello aperto e le gambe fasciate da un cencio di lana inzuppato  come una spugna, e dormire come fosse nella più adorna camera del mondo.  Quanto ai muli, sono ammaestrati. Il barrocciaio, che vive in uno stato  di perpetua contravvenzione, non si cura di lanternino, di notte, né della  ‘mano’ obbligatoria.  I muli, a gubbie**( **In coppia), come si usa dire, o a tre, se ne vanno a capo basso,  sempre della medesima andatura, scrollando le sonagliere lustre di ottone, per le quali i conducenti hanno una predilezione e una cura speciale.  Scansano gli ostacoli; si fermano quando sono stanchi; fanno stare un  tranvai fermo mezz’ora, in piena via maestra; poi ripigliano il loro passo,  come dominati da un’unica preoccupazione: quella d’arrivare a destino  più tardi che sia possibile.  Il barrocciaio toscano e il suo mulo sono gli esseri meno impressionabili che esistano sulla terra.  ‘Poverino’, detto così per ironia, per essere riuscito a metter da parte un gruzzolo col proprio lavoro e a diventare ‘padrone del suo’, era tanto vecchio, che si ricordava d’aver accompagnato i Francesi, quando calarono a Firenze, durante la lotta per l’indipendenza.  Uomo arguto e pronto al proverbio, segaligno, ossuto, colorito come una statua di bronzo patinata dal tempo, con due occhi furbi dentro una  cavità orbitale inverosimile, ‘Poverino’ non la cedeva a nessuno in fatto di  prontezza verbale e di orgoglio paesano.  Campanilista nell’anima, era rimasto col pensiero ai tempi ne’ quali  l’Italia era divisa come uno scacchiere; e anche, se tornava dalla ‘gita’, aveva sempre da brontolare contro i ‘forestieri’.  «Gli Aretini aggrediscono: i Lucchesi rubano; a Siena mi hanno spogliato», e via dicendo.  Nella cesta, sotto il barroccio, teneva il lanternino, che non era stato  mai acceso; un canino pomero*** ( ***Volpino di Pomerania piccolo cane da compagnia) tutto pelo e tutta voce, e una vecchia pistola d’ordinanza, sempre carica, perché credeva, a certi sbocchi, di potersi  incontrare negli assassini, come mezzo secolo prima, quando li vide giù  alle ‘Strette’, radunati intorno al foco, vicino al masso dei ladri, che si  scaldavano. Per fortuna aveva il barroccio vuoto; aveva scaricato una cesta di vino di dieci quintali (una meraviglia che aveva fatto correr la gente  a vedere tutti quei fiaschi messi l’un sull’altro, fino a un’altezza straordinaria, senza che il peso di quelli di sopra rompesse il collo a nemmeno a uno di quelli di sotto), si che poté sferzare i muli e fuggire a trotto  serrato, col cuore che gli batteva nel petto come un fringuello nello stacciolo.  Non si è mai saputo se quei briganti fossero dei semplici boscaioli, intenti ad asciugare l’acqua che aveva impregnato i loro giubboni!  Fatto sta che tutti volevano sentire dal ‘Poverino’ la storiella degli assassini; ed egli non si faceva pregare a raccontarla, tanto che ormai ci aveva fatto l’uso, e la diceva sempre dopo aver caricato la pipa di creta,  con le stesse parole: «Io vi parlo di quando le capre portavano gli zoccoli,  e i ragazzi nascevano a occhi chiusi…»

Un bel giorno d’agosto, il ‘Poverino’ ebbe la commissione d’una carica  di vasi da giardino, per un signore che stava a Lucca: un ‘lorde’ russo,  come diceva lui.  Si sentiva bene, nonostante i suoi settanta anni sonati, e volle andar da  sé a far la ‘gita’.  Attaccò la più bella coppia di muli; mise una bella ciocca di convolvolo  sul basto a chiodi d’ottone, lucidati con la polvere rossa de’ mattoni; le doppie sonagliere, le tirelle incerate di fresco, un  fiocco rosso al canino pomero; mutò lo sverzino**** (****Spago che si aggiunge al cordone della frusta per farla schioccare) alla frusta, e… via!  — Badate all’‘utomòrbidi’, — gli raccomandò la nuora, giovine  rubiconda e dispettosa, mentre il ‘Poverino’ stava per muoversi, dopo essersi assicurato che tutte le funi fossero annodate bene e che funzionasse la  martinicca.  — Eh, lo so: — rispose — a’ tempi miei le un’ c’erano; il mondo peggiora tutti i giorni! aohé! —  E, con uno schiocco secco come una saetta a ciel sereno, s’avviò giù per  la strada bianca, in mezzo a un polverone asfissiante, sotto un cielo turchino, che pareva tinto.  La notte fu dura.  Sui vasi non c’era modo di sdraiarsi; e il vecchio barrocciaio arrivò a un  paesino, prima di Lucca, che il sole era alto; e i muli, sudati e stanchi; e  lui, più stanco e più sudato dei muli.  A uno svolto, vicino a un muricciolo, c’era un caseggiato candidissimo  e due cartelli, uno sotto l’altro.  Il ‘Poverino’ compitò: Veicoli al passo e Osteria delle forbici. «Più al passo  di così — pensò il vecchio barrocciaio — non posso andare; mi fermo,  perché il secondo cartello mi piace più del primo!» E schioccò la frusta  per far più presto. Un altro schiocco, giocondo quanto il suo, gli rispose.  Dalla parte opposta, ritto sul barroccio vuoto, a gambe larghe, con una  mano infilata nella fuciacca rossa, brandendo coll’altra la frusta, cantando  allegramente, vide venirsi incontro il suo figliolo.  — Guarda chi c’è!  — O che siete qui?  — Ho camminato tutta la notte.  — Anch’io!  — Ci si mangia bene, qui?  — Io non mi sono mai fermato.  — Vuol dire che ci fermeremo oggi! —  Scesero, tirarono i muli in un cantuccio ombroso; levarono loro le musoliere, e posero in quella vece il fascio del fieno. Poi, a braccetto come  due amici, entrarono nell’osteria.  L’oste, che dalla parlata strascicata si rivelava del paese, si fece incontro premuroso ai due barrocciai.  — Vino? acquavite? tabacco?  — Meglio: da mangiare e da bere; s’ha una fame che la vediamo. — Ho dei coniglioli teneri come il latte, uova, prosciutto e un vino che  risuscita i morti. Di dove venite? —  Così, così, così: gli dissero ogni cosa, quel che avevano fatto e dove andavano e perché.   — Bravo — disse l’oste al ‘Poverino’ — quel ‘lorde’ dove andate  voi è ricco sfondato, e, se la mercanzia gli garba, vi darà una bella mancia  e un trattamento da re.  — E quando ci arriverò? che è lontano?  — Poche miglia. Al tramonto sarete lassù.  — O via, oste, — disse il ‘Poverino’ tutto ringalluzzito all’idea della  mancia e della cena risparmiata — o via fate presto! — E, voltandosi al figliolo, aggiunse: — Pago io! —  Nella stanzetta bassa era un fresco delizioso, un’ombra molle, che faceva apparire di fiamma le cose di fuori, lampeggianti sotto il sole, dietro i  vetri della finestra.  In un momento, l’odore del fritto si sparse d’attorno, mentre i due barrocciai divoravano il pane e il prosciutto, e si mescevano il vino rosso,  frizzante dai boccali gialli e turchini.  L’oste fece le cose in regola: servì un desinare da principi, e non lasciò i  fornelli altro che quando gli avventori ebbero consumata ogni cosa. Mentre mangiavano il formaggio, si avvicinò, si mise a sedere accanto a loro, e  intavolò un po’ di conversazione.  Ma il ‘Poverino’, ora che era sazio, si sentiva tornato come a vent’anni,  e aveva fretta:  — Il conto, — chiese — e alla svelta! —  L’oste ubbidì a malincuore, azzardando:  — Ci vuol coraggio, con questo bollore… — e sparì nella retrostanza.

 — Te, col barroccio scarico, — diceva il vecchio al figliolo — puoi  essere a casa stanotte; uno di noi è bene che ci sia sempre. —  Tornò l’oste col conto, scritto col lapisse in un foglio unto, lo depose  con noncuranza sulla tavola, parlottando.  Il giovanotto diede un’occhiata alla cifra, aggrottò le sopracciglia, passò  la carta al babbo, con un movimento espressivo della mano.  Ora l’oste, quasi per divagare, chiacchierava, chiacchierava di mille cose inutili e insulse.  — V’è piaciuto il vino? Quel conigliolo doveva essere una delizia… Il  cacio no, lo so da me; tanto è vero che non ve l’ho neppure messo in conto.

— Ah! ci manca il cacio, su questo conto? — interruppe con intenzione  il ‘Poverino’, guardando fisso fisso l’oste negli occhi.  — Sì; che volete? ho una cantina magnifica, ariosa, fredda come una ghiacciaia, ma non ci posso serbar nulla, nulla! È infestata alla lettera dai topi. Topi di chiavica grossi come gatti, con degli unghielli lunghi come quelli  delle faine e certi denti, certi denti, cari voi! Credete, io darei qualunque cosa  per liberarmi da questo flagello, proprio non baderei alle spese…  — Mettete delle tagliole!  — Sono ammalizziti; non ci s’accostano!  — Fate delle polpette coll’arsenico.  — Hanno il naso fino. Fiutano il veleno lontano un miglio! Credetelo, se uno m’insegnasse il rimedio lo pagherei qualunque prezzo…  Il ‘Poverino’ diventò serio, e:  — Lo volete davvero — disse — il rimedio? Ce l’ho io, e sicurissimo.  — Ditemelo, per carità; vedrete se saprò ricompensarvi.  — Ecco: — e il barrocciaio si alzò — prima di tutto vo’ dovrete preparare un buon mangiare, un mangiare di lusso, pietanze che solletichino il  gusto, qualcosa come quel che avete dato a noi…  — Lo farò! — interruppe l’oste, con la voce strozzata dalla commozione  e gli occhi lucidi.  — Poi — continuò il ‘Poverino’ — vo’ dovete portare tutta questa grazia di Dio in cantina e lasciarla lì, ai signori topi, perché se la mangino tutta, tutta, tutta.  — E poi? e poi?…  — E poi, quando saranno ben sazi, vo’ dovete scendere in cantina e lasciare ai topi un conto da pagare come quello che avete fatto a noi; e Santa  Lucia benedetta mi secchi tutti e due gli occhi, se vi ce ne ritorna più uno! —  L’oste, benché fosse di Lucca, non volle che i barrocciai gli pagassero,  del desinare che aveva loro servito, neanche un centesimo!