Figlio mio, i libri ti daranno la libertà
VIET THANH NGUYEN
Ricordate quando avete imparato a leggere? Come la maggior parte delle persone, io no. Ciò nonostante, in molti si consolano sapendo che questo avvenimento, che si sottrae alla memoria, coinvolse i nostri genitori. Nel mio caso, però, una delle cose che da rifugiato ho perduto – senza esserne neanche consapevole, all’epoca – è stata un’infanzia nella quale i miei genitori mi avrebbero letto libri ad alta voce. Sono arrivato negli Stati Uniti a quattro anni, insieme ai miei genitori e a mio fratello maggiore. A casa parlavamo vietnamita, ma chissà come a sei o sette anni avevo già imparato a leggere in inglese. I miei
genitori sapevano l’inglese, ma non ricordo che mi abbiano mai letto qualcosa e, se l‘avessero fatto, non lo avrebbero fatto in inglese.
Devono essere state le maestre, dunque, a insegnarmi a leggere, proprio come hanno fatto le maestre con mio figlio a cinque anni. Quest’anno mi sono assentato per una settimana e, al rientro, il bimbo al quale ero solito leggere libri all‘improvviso leggeva per conto suo.
Provo piacere osservando mio figlio che apprende una lingua e, tramite essa, delle storie. Amo il modo che ha di amare le storie, amo le emozioni vive che infonde loro, amo il suo entusiasmo o il suo timore quando ne legge una molto coinvolgente.
Capisco se un libro è splendido perché si rannicchia accanto a me e mi chiede di leggerglielo più volte.
Nella storia dei miei genitori ci fu l‘attraversamento di un confine, il confine di questo paese.
Perdemmo molte cose alla frontiera, a cominciare dalla nostra lingua comune. Crescendo, e vedendo i miei genitori che lavoravano con grande fatica per garantire una vita a tutti noi, mi accorsi che la nostra intimità si andava affievolendo di pari passo col mio vietnamita, fino a scomparire. Quanto più i miei genitori riuscivano a prendersi cura dei figli lavorando in modo spossante, tanto meno tempo avevano a disposizione da trascorrere con noi. Fu il classico dilemma dell‘immigrato e del rifugiato: sacrificarsi per i propri figli e in tale compito sacrificare l‘intimità con loro.
I libri mi hanno salvato, impedendomi di provare la solitudine. Amo i libri a tal punto da aver dato come nome a mio figlio il cognome di uno scrittore, Ellison. Ralph Ellison non fu uno scrittore di libri per bambini, ma scrisse grandi verità, di mondi spaventosi, di ignote interiorità.
I libri non erano una priorità per i miei genitori, e in casa non ne avevamo. Ogni settimana presi l’abitudine di andare alla biblioteca pubblica e riempirne lo zaino, ma mi bastavano a stento per sette giorni. Prima di andare al liceo non ho mai posseduto un libro. Mio figlio ha una collezione di libri più grande di quelle che io ho avuto negli anni. Se i miei genitori mi dimostravano il loro amore assicurandosi che io avessi sempre da mangiare a sufficienza, io dimostro l‘amore a mio figlio assicurandomi che abbia sempre libri da leggere a sufficienza (e naturalmente che abbia anche da mangiare a sufficienza). La
biblioteca per me era una seconda casa. lo desidero che mio figlio ne abbia una personale a casa mia.
[…]
Forse, è per questo che vederlo leggere mi infonde un pizzico di malinconia. Ricordo la mia perdita, e percepisco quella che subirò quando mio figlio non sarà più tutto mio, come quando la mattina si sveglia e con le parole più dolci che abbia mai sentito mi chiede: «Papà mi leggi un libro?» –